giovedì 26 settembre 2013

LA SCUOLA DI FRONTE A DIFFICOLTÀ E DISABILITÀ: PIÙ FLESSIBILITÀ E MENO STEREOTIPI ANNI '70

Il professor Michele Zappella, neuropsichiatra dell’età evolutiva, è noto per avere studiato a lungo l’autismo nelle sue varie forme. Fin dagli anni sessanta si è occupato dell’integrazione sociale e scolastica dei disabili, l’argomento che torna in questo intervento sul nostro blog, insieme a quello del bisogni educativi speciali. 

Il tema del bell’articolo di Giorgio Ragazzini sui BES del 6 settembre scorso e sull’effetto negativo che le nuove norme probabilmente avranno in prospettiva su tutta la scuola, riducendo all’individuo ogni problema e dando a questo una soluzione strettamente personale, si inserisce in una lunga storia che val la pena di ripercorrere e che risale ai primi anni settanta quando ha inizio il processo dell’integrazione scolastica in Italia. A questo riguardo va ricordato che una grande motivazione per chiudere le scuole speciali e differenziali fu determinata dal rendersi conto che al loro interno c’era un gran numero di figli di emigrati italiani interni (dal Sud al Nord) ed esterni (verso altri Paesi d’Europa), messi da parte perché parlavano in dialetto ed erano culturalmente deprivati. Metterli in classi particolari aveva il significato di dare a dei bambini normali un percorso educativo di serie B: ed è bene ricordare che c’erano scuole speciali dove ogni classe (la prima, la seconda, ecc.) veniva sistematicamente ripetuta per due anni! La conseguenza era una prospettiva di lavoro sottoqualificato, che inchiodava il bambino ad un futuro di marginalità. Questo fu il principale argomento che persuase dapprima i partiti di sinistra e poi tutti i movimenti politici a proporre l’abolizione dei percorsi differenziali a scuola e a integrare tutti i bambini, compresi quelli disabili (vedi De Luca G, Zappella M., L’alba dell’integrazione scolastica, a cura di M. De Luca, Roma, Carocci, 2013).
In quel contesto ci furono due diversi indirizzi. Da un lato c’erano scuole che cercavano di adeguarsi per l’accoglienza di bambini con disabilità: ricordo bene, per esempio, una scuola elementare a Monte San Savino, vicino ad Arezzo, che nel 1971-72 eliminò gli spazi di una classe speciale che aveva avuto al suo interno, articolando la didattica  in occasioni comuni come musica, teatro e mimica e mantenendo in altre ore i bambini con disabilità più gravi in ambienti meglio organizzati per loro. Dall’altro, invece, i bambini venivano messi in classe con gli altri, indipendentemente dal grado e tipo di disabilità: lo slogan più comune era “devono fare come gli altri”, per cui i diversi vanno trattati come i normali; una parola d’ordine che dopo tanti anni non è scomparsa. Anzi è diventata una indicazione politicamente corretta.
La prima svolta istituzionale a questo riguardo è nella legge che nel 1977 istituisce l’insegnante di sostegno e sposa in pieno il secondo tipo di soluzione,  assegnando il sostegno per tempi variabili a seconda della gravità della disabilità e dando al problema una soluzione individuale o, si usa dire oggi, ‘personalizzata’. Da allora, con poche eccezioni, avremo scuole in cui, nella maggior parte dei casi, c’è una stanzetta dedicata ai bambini più gravi e per il resto tutti i bambini, qualunque sia la loro difficoltà, sono in classe con gli altri. Non importa che siano iperacusici e che siano molto disturbati dalla confusione come dal suono della campanella, come spesso succede con i bambini autistici, che siano vittime del bullismo o che siano con abilità cognitive lontanissime da quelle degli altri: devono stare nella classe, quasi fosse un rigido plotone: "per non sentirsi esclusi" .  
La direttiva del Ministero sui BES del 5.3.13 va oltre le disabilità e si occupa anche dei  ragazzi stranieri che non conoscono la nostra lingua. Per loro, il buon senso e il confronto con altri Paesi europei avrebbero dovuto far pensare alla priorità assoluta dell’apprendimento della lingua italiana e quindi a questo scopo a studenti stranieri organizzati in maniera omogenea, eventualmente sulla base della loro lingua madre. Ci si aspetterebbero anche riscontri scientifici sui percorsi di maggiore validità educativa, visto che il problema esiste da molti anni. Invece per loro si scrive che “è possibile attivare percorsi individualizzati” e successivamente frasi stupefacenti come quella per cui “le 2 ore di insegnamento della seconda lingua nella scuola secondaria di primo grado possono essere utilizzate anche per potenziare l’uso della lingua italiana”(sic!). Come se non conoscere la lingua parlata in classe fosse piccola cosa che si può risolvere utilizzando le ore della seconda lingua o con percorsi individualizzati che non vengono definiti. Nei fatti ci si può immaginare che per molte ore i ragazzi stranieri siano costretti a stare in classe anche se non capiscono nulla di quello che si dice. Se questo fosse vero anche in piccola parte, questo tipo di ‘personalizzazione’ riuscirebbe paradossalmente ad avere per i figli degli immigrati precisamente quello che le scuole differenziali ottenevano per i figli dei nostri emigrati prima di quarant’anni fa: li porterebbe in un percorso educativo deprivato. Come allora i figli degli immigrati italiani, bambini normali il cui limite era nel dialetto e nella deprivazione culturale familiare, lasciati in classi differenziali erano condannati a un percorso lavorativo di quart’ordine, lo stesso verrebbe prospettato per i figli degli immigrati stranieri. La vera esclusione difatti non è nello spazio, ma nel tipo di percorso educativo: in questo caso del tutto inadeguato al punto di non capire nulla di quanto si dice o scrive in classe e gravemente impoverito rispetto alle possibilità di questi ragazzi che sono normali e hanno diritto a conoscere innanzitutto la lingua e la cultura del Paese dove vanno, per poter avviare un percorso educativo valido come gli altri. 
Qualche commento aggiuntivo merita il GLI (Gruppo di lavoro per l’Inclusione) che verrebbe ad avere nella scuola un ruolo predominante su vari aspetti dell’inclusione. Non è una novità: in Toscana abbiamo già avuto negli anni ottanta nelle USL il GOIF (Gruppo Operativo Istituzionale Funzionale), un gruppo numeroso e composto da diverse professionalità che si riuniva mensilmente. Lì i vari casi di disabilità venivano passati in rassegna da persone che in grande maggioranza non li conoscevano, spesso con proposte del tutto inadeguate, danneggiando così l’alunno in questione, in quanto nel rapporto tra insegnanti di classe e specialisti si inseriva come un corpo estraneo questo sciagurato raggruppamento. Il GLI appare come un simile collettivo giudicante, del tutto inadatto a gestire sia il singolo alunno in difficoltà che grandi fenomeni come, per esempio, il bullismo, che riguarda sia alunni normali (in particolare quelli più  bravi) sia quelli con disabilità, come i ragazzi con ADHD (iperattivi) e i soggetti autistici di discreta intelligenza. Ebbene, se si guarda la letteratura internazionale, le strategie più efficaci per contrastare questo fenomeno, presuppongono il coinvolgimento dell’intera scuola, comprendendo tutti i docenti, gli studenti e i rappresentanti dei genitori, per strutturarsi poi, con precise strategie e sanzioni, nelle singole classi (Olweus Dan, Promoting Education, 1, 27-31, 1994; Vreeman R.C. et al, “Archives Pediatric and Adolescent Medicine” 161, 78-88, 2007).
In questo modo nei Paesi scandinavi il bullismo è potuto scendere a valori sul 6%.  Non è dunque strano che l’Italia, che da decenni si trastulla tra prospettive ‘personalizzate’ e collettivi giudicanti del genere sopra indicato, abbia insieme alla Lituania il primato del bullismo tra i Paesi occidentali, con percentuali attorno al 40% (Due P. et al, “European Journal of Public Health” 15, 128-32, 2005).
Questo perché, ripeto, vi sono problemi, come quello appena citato, che vanno affrontati dall’intera comunità scolastica e poi suddivisi in tempi e modi successivi più specifici. Altre questioni relative, per esempio, a luoghi ben attrezzati di tempo libero di cui vari alunni con disabilità hanno, periodicamente, bisogno vanno anch’esse valutate a livello di comunità scolastica: se, invece, questi e altri bisogni sono ignorati, l’alternativa è passeggiare nel corridoio. Lo stesso discorso può essere fatto per intolleranze sensoriali e anche per particolari  esigenze didattiche.
Non affrontare questi problemi vuol dire avere una scuola rigida, incapace di modularsi e adattarsi rispetto a difficoltà e devianze. Legata a stereotipi della parte più rozza di un periodo antistituzionale ormai lontano nel tempo. Troppo spesso la scuola propone solo la classe come luogo elettivo di socialità e in questo modo rischia di non garantire la crescita intellettuale, emotiva e sociale di chi è diverso per lingua madre o per difficoltà e disabilità di qualunque genere.  
Michele Zappella 

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venerdì 13 settembre 2013

UN MINISTRO INCITA GLI STUDENTI ALLA RIBELLIONE

“Siate ribelli. Ricordate le parole di Kant, uscite dall’adolescenza e rifiutate le imposizioni, ribellatevi ai genitori, ai prof e alla scuola”. Che un adulto senta nel 2013 il bisogno di rivolgersi ai giovani in questi termini sessantottardi significa senza dubbio che non è consapevole di quello che serve a un adolescente per crescere. Ma è ancora più grave che parole di questo genere le dica il Ministro della Pubblica Istruzione all’inizio dell’anno scolastico. Così facendo acquista forse un’effimera popolarità, ma abdica al suo dovere di ricordare agli adolescenti la vera strada per costruire il proprio futuro. Evidentemente la Ministra non ha letto e meditato lo splendido discorso che Barack Obama rivolse agli studenti americani nel 2009, proprio all’apertura dell’anno scolastico, nel quale tra l’altro ebbe a dire: “Alla fine noi possiamo avere gli insegnanti più appassionati, i genitori più attenti e le scuole migliori del mondo: nulla basta se voi non tenete fede alle vostre responsabilità. Andando in queste scuole ogni giorno, prestando attenzione a questi maestri, dando ascolto ai genitori, ai nonni e agli altri adulti, lavorando sodo, condizione necessaria per riuscire. […] Non vi piacerà tutto quello che studiate. Non farete amicizia con tutti i professori. Non tutti i compiti vi sembreranno così fondamentali. E non avrete necessariamente successo al primo tentativo. È giusto così”. Altro che auspicare ribellioni contro non si sa cosa. D’altronde le ribellioni generazionali non devono essere né auspicate né concesse graziosamente dagli adulti, come fanno, spesso pelosamente, i coccolatori di chi occupa le scuole. Se si ritengono necessarie si fanno e basta, prendendosi tutti i rischi e accettando le eventuali conseguenze negative. Come hanno sempre fatto tutti i veri ribelli. (GR)

venerdì 6 settembre 2013

PERCHÉ LA NORMATIVA SUI B.E.S. AGGRAVERÀ LA CRISI DELLA SCUOLA

Con la direttiva del 27 dicembre 2012 sugli alunni con Bisogni Educativi Speciali e la circolare applicativa del 6 marzo 2013 fa un decisivo passo avanti l’idea che la scuola non deve più essere l’istituzione che assicura la trasmissione del patrimonio culturale della nazione e in quanto tale trascende, pur includendole, le esigenze dei singoli, ma piuttosto un servizio in grado di modellarsi sulle caratteristiche e le richieste di ciascuno. La frase chiave della direttiva è infatti la seguente: “Ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta”. È evidente che in base a una simile affermazione qualsiasi tipo di difficoltà potrà costituire un Bisogno Educativo Speciale. Questa normativa costituisce dunque la sintesi e il punto di arrivo di una serie di tendenze convergenti manifestatesi negli ultimi decenni:  l’abbandono, a favore di mere indicazioni, dei programmi nazionali, cioè di un canone culturale essenziale, che tenda a formare gli individui nel quadro di un’identità comune; l’idea di trasformare gli insegnanti in facilitatori dell’autoapprendimento; la progressiva eliminazione degli esami; la graduale evaporazione di ogni standard, sia pure elastico, nella valutazione dei risultati, dunque di traguardi minimi comuni a tutti, condizione essenziale di equità nonché di credibilità dei diplomi rilasciati; e infine – last but not least – l’idea onnipotente che l’organizzazione, la metodologia e la tecnologia possano da sole creare le condizioni per l’apprendimento, cioè che il “successo formativo” dipenda integralmente da quanto fanno a questo scopo gli insegnanti; quasi che non fosse, come invece è, l’esito non scontato del rapporto tra due soggetti, il maestro e l’allievo, ma il risultato meccanico di una serie unilaterale di azioni. Manca infatti anche in questi testi il più piccolo accenno alla responsabilità del discente, che la scuola non può certo smettere di sollecitare, soprattutto come impegno costante e comportamenti appropriati. Lo scrive bene Adolfo Scotto di Luzio nel suo ultimo libro, sottolineando che quasi nessuno parla più della “volontà” di imparare nella riflessione pedagogica e nelle direttive ministeriali: 
“Per fare bisogna innanzitutto avere la voglia di fare e la volontà richiede determinazione, una capacità di sopportare la fatica e la sua applicazione continuativa, qualità morali di diligenza, di sforzi sostenuti e di concentrazione, di accuratezza. Qualità che la scuola ha il diritto di esigere, ma che difficilmente può produrre soprattutto trattando con adolescenti. Accanto a esse un senso personale della disciplina e il riconoscimento dell’autorità dell’insegnante, in grado di imporre dei compiti, di esigerne l’esecuzione e sanzionare efficacemente le inadempienze. Un sentimento infine della responsabilità individuale dei propri successi e dei propri fallimenti, concepiti come propri e non come l’applicazione più o meno efficace della professionalità del docente” (La scuola che vorrei, p.106). Si deve aggiungere che queste caratteristiche personali rinviano necessariamente a un’educazione familiare capace di “consegnare” alla scuola figli già in grado di rispettare le regole minime della convivenza, mentre la scuola, per parte sua, ha il dovere di offrire alle nuove generazioni ambienti educativi non solo accoglienti, ma abbastanza esigenti da sostenerli nel faticoso quanto indispensabile confronto con la realtà, base della loro crescita umana e culturale.
In questo quadro, pazienza se fossimo davanti soltanto all’ennesima sollecitazione ministeriale a dare risposte adeguate alle difficoltà degli allievi. Purtroppo non è così. Qui si tratta del tentativo di mettere in piedi una macchina organizzativa e un insieme di procedure che rischiano di stritolare l’autonomia professionale dei docenti, oltre a caricarli di pesanti compiti e oneri burocratici, accrescendone il disorientamento e la frustrazione.
E infatti, come dovrebbe funzionare la nuova “scuola dell’inclusione”? Dalla tormentosa lettura dei documenti ministeriali si capiscono abbastanza chiaramente due cose: la prima è che gran parte del lavoro aggiuntivo ricadrà appunto sulle spalle degli insegnanti, trasformati, ovviamente senza una seria preparazione, in diagnosti e valutatori dei propri allievi in funzione di trattamenti differenziati; la seconda è che viene istituito un groviglio di competenze e di procedure a carico di commissioni, gruppi di lavoro, centri di sostegno e di coordinamento, che non si sa come potranno integrarsi e di cui nel migliore dei casi esistono solo degli abbozzi: i Centri Territoriali di Supporto (CTS) e i Centri Territoriali per l’Inclusione (CTI), in collaborazione con i Gruppi di Lavoro Interistituzionale Regionale per l'integrazione scolastica degli alunni con disabilità (GLIR) e con i GLIP (provinciali). Sarà necessaria “la creazione di una rete diffusa e ben strutturata tra tutte le scuole”. Si dovrà far riferimento, per i docenti specializzati, “soprattutto a risorse interne”, cioè ai pochi insegnanti già specializzati e ai molti aggiornati alla meno peggio. E via coordinando, supportando e mettendo in rete. 
A livello di ogni singola scuola, il GLHI (Gruppo di lavoro per l’Handicap d’Istituto) diventa GLI (Gruppo di Lavoro per l’Inclusione) e i suoi compiti “si estendono alle problematiche relative a tutti i BES”. In base ad analisi e rilevamenti, dovrà sottoporre al Collegio un Piano Annuale per l’Inclusività. Ma non si capisce come possa essere operativo un organismo pletorico composto da funzioni strumentali, insegnanti per il sostegno, Assistenti Educatori Culturali, assistenti alla comunicazione, docenti ‘disciplinari’ con esperienza e/o formazione specifica o con compiti di coordinamento delle classi, genitori [sic] ed esperti istituzionali o esterni in regime di convenzionamento con la scuola”.
All’interno dell’ingranaggio di prescrizioni, obblighi, verbali, rendicontazioni previsto dalla normativa, che fine fa la libertà dell’insegnante di decidere in scienza e coscienza che cosa è meglio per quel certo allievo? Potrà ancora metterlo di fronte alle sue responsabilità, sollecitarne la presa di coscienza, attenderne la maturazione, semplicemente parlarci, insomma fare quello che la sua sensibilità educativa gli suggerirà sul momento, oppure sarà indotto a verbalizzare senza crederci un qualsiasi pseudo-programmino che lo metta (forse) al riparo da eventuali ricorsi? E i genitori-sindacalisti non disporranno con questa normativa di un accresciuto potere di ricatto e di veto sulle decisioni dei docenti?
Il minimo che gli insegnanti e i collegi docenti dovrebbero esigere, quindi, è una ridefinizione molto più restrittiva del concetto di bisogno educativo speciale,  in modo da limitare quanto meno i danni. Ma non c’è dubbio che sia necessaria un’alternativa complessiva a questa imbracatura burocratica della didattica, che esprime una sostanziale sfiducia nell’autonoma capacità dei docenti di individuare e affrontare le normali difficoltà dei propri allievi. È un’alternativa fondata su due pilastri: pieno riconoscimento dell’autonomia professionale dei docenti su quando e come intervenire; e qualificati servizi di supporto e di consulenza a loro disposizione. Una chiara distinzione dei ruoli è assolutamente necessaria. Anche un insegnante ben preparato non avrà mai le competenze di uno specialista che ha studiato per anni la sua disciplina, né le acquisirà con un’infarinatura sulla dislessia o sul deficit dell’attenzione. Nella scuola ci si comporta invece come se in un ospedale, in mancanza di un anestesista, si rimediasse facendo fare a un chirurgo un corso di tre mesi per poter svolgere anche questo ruolo. Invece, un po’ come succede nella scuola finlandese, gli insegnanti dovrebbero poter contare su consulenti (ben preparati) in grado di fornire il necessario supporto su problemi di singoli allievi o di una classe: logopedisti, psicologi, neuropsichiatri, assistenti sociali. E questo con il minimo necessario di formalità, preoccupandosi cioè soprattutto dell’efficacia e della tempestività degli interventi, invece di sprecare energie nella produzione di piani, documenti di intenti e complicate progettazioni da parte di gruppi e sottocommissioni. In altre parole, si sostituirebbe a un’impostazione, che per più motivi grava pesantemente sui docenti, un’altra in cui – con ben altra efficacia – questi ultimi vengono invece alleggeriti da un eccesso di compiti e di responsabilità. Peraltro il contributo di queste figure di esperti non deve riguardare necessariamente la didattica, anche perché in molti casi le difficoltà di apprendimento di un ragazzo dipendono da fattori esterni alla scuola (personali, familiari, ecc.). Quindi per superarle è necessario l’intervento, ad esempio, di uno psicoterapeuta o di un assistente sociale. Purtroppo solo poche scuole hanno già la fortuna di sperimentare un modello simile, con cui certamente si ottengono risultati positivi senza imporre ai docenti altri gravami. Beninteso, la titolarità delle decisioni deve restare saldamente nelle mani dei docenti, deve cioè trattarsi di una collaborazione senza invasioni di campo tra ruoli diversi, basata su competenza, buon senso e rispetto reciproco.
Ammesso e non concesso che questo modello, certo da realizzare gradualmente, sia più costoso, non è comunque sensato intraprendere per questo una strada sbagliata, che non solo rischia di produrre avvilimento negli insegnanti, ma non è in grado di dare risposte ai problemi che questa normativa vorrebbe risolvere. (Giorgio Ragazzini)

domenica 1 settembre 2013

SEVERGNINI FA IL DON MILANI: E LA COLPA È ANCORA DELLA PROF

Beppe Severgnini ha riletto Lettera a una professoressa  e ha deciso che è valida oggi come ieri, quando veniva sventolata dai sessantottini (“che ci volete fare, ogni tanto anche loro ne imbroccavano una”). Così ha deciso di utilizzare “La Lettura”,  il supplemento domenicale del “Corriere della Sera”, per inviare un’altra lettera – anzi un’ email – alla famigerata professoressa.
Pur avendo già parlato tante volte di don Milani (appassionamento giovanile di tanti, noi compresi, successivamente rischiarato in molti, noi compresi, dall’esperienza scolastica ), vale la pena di commentare almeno le affermazioni salienti, seguendo il metodo adottato da Severgnini di far seguire una riflessione a una citazione milaniana. 
"La selezione è prerogativa dell’università. Alle elementari e alle medie — inferiori e superiori — bisogna scavare dentro i ragazzi e scovare le loro inclinazioni, correggendo le loro debolezze."
Per rispondere a questa tesi basta citare la Lettera originale, che definiva “selezione doverosa” quella delle superiori: “Il problema qui si presenta tutto diverso da quello della scuola dell’obbligo. Là ognuno ha un diritto profondo a essere fatto uguale. Qui invece si tratta solo di abilitazioni. Si costruiscono cittadini specializzati al servizio degli altri. Si vogliono sicuri. Per esempio per le patenti siate severi. Non vogliamo essere falciati per le strade. Lo stesso per il farmacista, per il medico, per l’ingegnere.[1]” Forse Severgnini aveva in mente solo i laureati, senza pensare che le scuole superiori rilasciano anche diplomi validi per lavorare nell’industria, nell’artigianato, nell’agricoltura e nei servizi. E comunque anche per le professioni che richiedono la laurea non possiamo utilizzare cinque anni di superiori come puro e semplice orientamento, dato che già ora si iscrivono alle facoltà universitarie ragazzi che non sanno scrivere bene, né argomentare e per di più scarseggiano di cultura generale. 
"Il fallimento di una classe è il fallimento di un insegnante: non ci sono eccezioni a questa regola."
Questo notorio luogo comune sulla scuola, che esime gli studenti da ogni responsabilità,  è la sintesi di una deriva culturale , che, nella riflessione della burocrazia ministeriale e dei pedagogisti che la supportano, ha visto “la scomparsa di un tema che al contrario dovrebbe essere centrale in ogni riflessione educativa, la volontà.”[2]  Per fortuna lo stesso Severgnini smentisce se stesso verso la fine dell’articolo :  
"Certo: ai ragazzi bisogna spiegare che neppure il miglior insegnante può far molto, se trova continue chiusure. Dicono i cinesi: il maestro arriva quando il discepolo è pronto."
Si passa poi ai dati sull’insuccesso scolastico: 
"La scuola superiore italiana, nel 2012, ha perso il 18 per cento degli iscritti: quasi uno su cinque, una percentuale drammatica. […] Ma la severità, talvolta al limite del sadismo, non è una via d’uscita."
Qui viene da chiedersi se per caso l’autore dell’email abbia fatto un viaggio a ritroso nel tempo, magari dalle parti di Dickens. È probabile che su oltre seicentomila docenti ce ne sia più di uno che corrisponde all’identikit; ma la scuola italiana nel suo complesso è notoriamente afflitta da patologie di segno opposto. Soprattutto in tema di rispetto delle regole e di sanzioni educative, ma spesso anche quando si tratta di trarre delle conclusioni in base a risultati scolastici desolanti. E “le famiglie, spesso, non aiutano” non solo spingendo i figli “verso studi inadeguati”, ma anche pretendendo di sostituirsi all’insegnante nella valutazione, magari con l’aiuto di qualche giudice. 
"Si deve trovare il modo di utilizzare le scuole al pomeriggio. Lasciarle vuote è uno spreco. Caricare i ragazzi di compiti a casa — com’è ormai la norma, soprattutto nei licei — è un’alternativa crudele. Non volete chiamarlo doposcuola o tempo pieno? Scegliamo un altro nome."
È il mantra del Pd e di chi pensa che aumentando l’”esposizione” alla scuola si migliorino senz'altro gli apprendimenti. C’è stato e c’è tutto un lavorio in corso per costringere quei pelandroni dei docenti italiani a lavorare di più trattenendosi anche il pomeriggio, senza tenere in alcun conto gli studi sullo stress professionale con le patologie che ne derivano. E senza curarsi dell’assoluta mancanza di spazi adeguati, come quelli esistenti in molti paesi europei. La cosa migliore sarebbe aiutare gli studenti più grandi – se ne avessero voglia – a creare associazioni studentesche nelle proprie scuole, che progettino e gestiscano in proprio attività culturali e ricreative, esercitando così responsabilità e capacità organizzative. 
"Tutto s’impara: dove non arriva il talento, arriva la tenacia. Sa che, in prima superiore, ho preso qualche insufficienza in italiano scritto? Usavo vocaboli incomprensibili, una sintassi barocca, concetti astrusi. Devo ringraziare due sue colleghe — Paola Cazzaniga Milani al ginnasio, Giuseppina Torriani al liceo — se ho cambiato registro. 
A proposito: oggi come me la sono cavata?"
La parola alla professoressa: “Maluccio, caro Severgnini. Sei un ragazzo vivace e in genere di buon senso. Oggi però sei stato un po’ presuntuoso. Prima di dare giudizi dovresti conoscere meglio la materia. Sono certa che da ora in avanti ti sforzerai di farlo.”  (Giorgio Ragazzini)
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[1] Lettera a una professoressa, p. 111. 
2] Adolfo Scotto di Luzio, La scuola che vorrei, p.106.

giovedì 18 luglio 2013

LA LIBERTÀ DI GHERARDO COLOMBO SENZA RESTRIZIONI NÉ SANZIONI

L’inserto culturale del “Sole 24 Ore” di domenica scorsa pubblica la recensione che il filosofo Roberto Casati dedica al libro dell’ex-magistrato Gherardo Colombo e di Elena Passerini, Imparare la libertà. Il potere dei genitori come leva di democrazia, in cui si affronta il tema della regole nell’educazione in famiglia e a scuola
 Il titolo dell’articolo, Educare i bambini alla libertà, fa ben sperare sul valore delle tesi dell’opinionista, almeno per chi dà per assodato che non c’è libertà senza regole, né conquista di diritti senza acquisizione di doveri. Oltretutto l’autore non è un “nuovista” a tutti i costi ed è noto per le sue critiche alla colonizzazione digitale della scuola, cioè all’abuso delle nuove tecnologie in funzione di una didattica innovativa. 
Restiamo pertanto sconcertati quando Casati prende per buona la distinzione di Colombo tra “regole restrittive”, da evitare in quanto associate alla punizione nel caso che le si violi, e “regole istitutive, che non limitano l’azione, ma creano diritti […], definiscono la nostra libertà e permettono di immaginare una transizione dalla società "verticale", organizzata gerarchicamente, alla società "orizzontale", basata sull'assunzione individuale di responsabilità. Insegnare queste regole, e trasmettere il senso del loro ruolo liberatorio, è dunque un vero e proprio compito per la scuola e i genitori.” Ovviamente una tale contrapposizione non sta in piedi: sarebbe come dire che si devono abolire i doveri lasciando solo i diritti; e sappiamo che sono proprio i primi a garantire l’effettività dei secondi. In questa vagheggiata quanto vaga “società orizzontale”, tra l’altro, dovrebbe comunque sopravvivere il “verticale” principio di autorità, che permetta appunto la trasmissione di corrette norme di comportamento e di conseguenza l’assunzione individuale di responsabilità nel rispetto della propria e dell’altrui libertà. 
A conferma della fiducia in questa democrazia dal basso, Casati aggiunge: “La regola restrittiva va a braccetto con la punizione. La ricerca nelle scienze cognitive suggerisce che le punizioni e le ricompense tradizionali abbiano uno scarso effetto… Basterebbe provare a non punire, e vedere che le cose si aggiustano comunque da sole” (sic!). 
Credo che la migliore risposta a Casati e a Gherardo Colombo – che, ricordo, ha affermato “io non voglio punire Riina, voglio convincerlo” – la dia il filosofo Wittgenstein con un aforisma ancora attuale contro teorie pedagogiche astratte e democraticistiche: “Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito e perciò le condizioni sono in un certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!” (SC)

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IL FALÒ DELLA LEGALITÀ

Che dietro ai silenzi di politici più o meno illustri, di sindacalisti distaccati più o meno recalcitranti a ritornare a scuola, di pedagogisti distratti rispetto ai nostri ripetuti appelli sulla regolarità degli esami ci sia quello che denuncia Gramellini? E cioè che siano pochi quelli capaci d'indignarsi per comportamenti gravi, proprio perché sono molto diffusi. E si sa, in questo cataclisma di populismo sudamericano da anni cinquanta in cui ci tocca vivere, vallo a trovare, se non un ministro, almeno uno straccio di sottosegretario che osi alzare il dito e magari dire in occasione degli esami di stato "No, ragazzi, non si copia", perché se  copiate smentite tutte le vostre belle manifestazioni per la legalità a cui i vostri docenti vi hanno stimolato a partecipare! Ma come si fa a suonare la trombetta se si sa che copiano in molti e che a stimolarli alla copiatura vi sono molti genitori e magari anche i docenti? Troppo controproducente in termini di consenso alzare la voce e dire che certe cose non si fanno perché se le si fanno questo marciume di vita incivile che distrugge qualsiasi possibilità di futuro (civile), non cambierà mai. Così se un incendio distrugge buona parte di una scuola meglio pensare subito che siano stati dei terroristi, dei nemici del popolo e del progresso a farlo. Che possano essere stati degli studenti, gaglioffi e già inclini alla delinquenza, non era passato per la testa di nessuno; e Gramellini spiega magistralmente il perché.(VV)
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mercoledì 26 giugno 2013

LE BELLE LEGGI “PROGRESSISTE” CHE SI ABBATTONO SULLA SCUOLA

Come sappiamo, nella scuola vi sono docenti in grado di personalizzare il loro insegnamento tenendo conto dei problemi degli allievi e altri che neanche si pongono il problema, anche quando uno studente manifesta un disagio che va ben al di là delle canoniche crisi umorali dell’adolescente. Allo stesso modo vi sono genitori che si guardano bene dall’utilizzare le certificazioni dei disturbi dell'apprendimento per meri ed esclusivi fini di promozione a ogni costo, mentre altri non hanno alcuna remora nel minacciare costantemente il ricorso rispetto ai risultati scadenti dei figli, pur avendo essi fruito di interventi didattici personalizzati. Sappiamo anche che i problemi dei ragazzi vanno aumentando; e volente o nolente la scuola dovrà affrontarli e fare di tutto affinché non penalizzino troppo la loro formazione.
Di fronte alle difficoltà di apprendimento, come rispetto a ogni altra sorta di problemi, molti dei nostri esperti di scuola, da decenni  sottomessi culturalmente a un devastante demagogismo populista, pensano che bastino delle “belle” leggi o delle circolari “progressiste” per rendere il nostro sistema educativo un modello di efficienza. Così i decreti sui cosiddetti BES (bisogni educativi speciali), che dovrebbero rivoluzionare il rapporto didattico ed educativo nei confronti dei più svantaggiati, rischiano anch’essi di confermare l'opinione di Federico De Roberto, per cui i cambiamenti radicali, da noi, servono in effetti a non cambiare nulla. Rispetto alle notevoli innovazioni e alle altrettanto notevoli incombenze burocratiche che essi porteranno nella attività didattica, c’è il sospetto che la prima vera emergenza delle scuole sarà quella di trovare le formule giuste per tutelarsi dagli eventuali ricorsi (perché è fuor di dubbio che questi aumenteranno) contro le presunte inadempienze degli insegnanti. Come è mai possibile inondare le scuole di tante e così impegnative novità da un giorno all’altro senza preoccuparsi di formare i docenti (tutti!) in modo serio e responsabile rispetto allo straordinario impegno che  le norme sui BES rendono cogente? E come è possibile illudere tante famiglie sul fatto che finalmente ai loro figli sarà resa giustizia da una scuola che è caricata di impegni a cui non può far fronte con i mezzi e con il personale che ha?
Insomma, non c’è da fidarsi di chi continua a sfornare straordinarie novità senza neanche porsi il problema che in molte scuole, penso in particolare ai professionali, l’alto numero di ragazzi problematici rischierà di rendere vano ogni intervento, perché il carico di lavoro dei docenti sarà tale da diventare insostenibile. Ma questo non interessa ai nostri “illuminati” riformatori. Contenti delle loro misure avanzate e innovative, si sentiranno senz’altro appagati nel loro profondo principio di piacere. In generale però ignorano quale sia la realtà delle scuole e ignorano altresì la realtà della lingua italiana, perché il testo della legge e della circolare sui BES va ben oltre certi sketch di Gigi Proietti in “ A me gli occhi, please” e ben oltre anche il senso del ridicolo in fatto di comunicazione di carattere didattico-sociale. Leggere per  credere, ma anche per ridere o purtroppo per piangere. Intanto a settembre il principio di realtà toccherà a noi gestirlo, e sarà dura, sempre più dura.  (Valerio Vagnoli)
La direttiva sui BES.
La circolare applicativa.

mercoledì 15 maggio 2013

CORRETTEZZA DEGLI ESAMI: NON È SOLO QUESTIONE DI TECNOLOGIA

Della lettera dell’Anp al Ministro con cui Giorgio Rembado chiede in sostanza di fare tutto il possibile per evitare che gli esami di Stato siano una barzelletta, i giornali e i siti web mettono soprattutto in evidenza, specie nei titoli, la proposta di utilizzare i rilevatori di cellulari e quella di vietare ai siti la pubblicazione in tempo reale di traduzioni e soluzioni dei problemi. Ma, come giustamente fa notare il presidente dell’Anp, c’è anche un altro versante, non meno decisivo: quello di ridurre a zero la trascuratezza e l’indulgenza nei controlli di una parte dei commissari. Cioè una questione di etica professionale, grande assente nel dibattito pubblico sulla scuola, benché base indispensabile del suo buon funzionamento. E lo diciamo avendo ricevuto in questi anni decine e decine di testimonianze di colleghi che prendono sul serio il loro ruolo di pubblici ufficiali nonché quello di educatori.
Viene poi valorizzata l’obbiezione finanziaria del sito Skuola.net, che presuppone l’acquisto di un rilevatore per ogni classe (spendendo dai 450 mila a 2 milioni e duecentomila euro), quando ne basterebbero per cominciare uno o due per scuola; al cui acquisto potrebbero anche provvedere gli istituti sede d’esame, con la possibilità di utilizzarli anche durante l’anno. Venti o quaranta euro di esborso per la serietà della scuola se li possono permettere persino le disastrate casse delle scuole italiane.
Lo stesso sito, come abbiamo già rilevato ieri, considera poi sufficiente l’autoregolamentazione un po’ furbesca che limiti il divieto di pubblicazione delle prove al “tempo minimo di consegna”; e perché non fino al termine dell’orario d’esame?
Ne parlano tra gli altri La Repubblica, con un servizio di Corrado Zunino, e QN, parecchio sbilanciato dalla parte di Skuola.it. (GR)

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domenica 12 maggio 2013

UN PASSO AVANTI PER LA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN TOSCANA

La Regione Toscana ha aperto agli Istituti alberghieri la possibilità di sperimentare in alcune prime classi, dal settembre 2013, il cosiddetto percorso professionale “complementare”. A differenza di quello “integrato”, che prevede solo una  molto parziale individualizzazione in senso laboratoriale per gli studenti in difficoltà, il complementare è un vero e proprio corso professionale autonomo, della durata di tre anni, con molte più ore di laboratorio e meno di altre materie più teoriche, al termine del quale viene rilasciata una qualifica utile per entrare nel mondo del lavoro. Chi vuole può anche rientrare nel normale percorso quinquennale di istruzione professionale. Insomma, esattamente la proposta che facemmo nel convegno fiorentino del novembre 2009, poi fatta propria nella primavera successiva da ottantasette presidi toscani con una lettera aperta in vista delle elezioni regionali. La novità è veramente importante e va dato atto agli assessorati competenti di aver avuto il coraggio, così poco frequente nell’establishment politico-amministrativo italiano, di rivedere le proprie posizioni; e questo tanto più va riconosciuto considerando nella sinistra l’ostilità verso la formazione professionale, specie per chi esce dalla scuola media, continua a essere ancora vastissima, come testimonia anche il recente programma elettorale del Pd. Peraltro neppure le forze politiche di opposizione hanno preso in questi anni su questa materia qualche iniziativa, né mi risulta che almeno le abbiano dedicato dei momenti di approfondimento. Intanto godiamo di questa bella novità, augurandoci che il nuovo percorso possa davvero intercettare  le  attese e  le  aspirazioni di quei ragazzi che si sentono maggiormente portati per la  formazione professionale. Sarà importante che tutte le classi coinvolte vengano costantemente monitorate, anche per poter portare dei correttivi qualora questi si rendessro opportuni. E auguriamoci che i tassi di bocciatura nelle prime e nelle seconde classi degli alberghieri possano subire una sensibile flessione. (VV)
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martedì 26 marzo 2013

PIRANI TORNA ANCORA SUL NODO VALUTAZIONE

Mario Pirani torna a parlare di scuola, come ha fatto tante volte meritoriamente: valutazione, mancanza di ispettori in Italia, selezione in base al merito nelle iscrizioni a scuole superiori con eccesso di iscritti. Con l’occasione chiarisce correttamente che il Manifesto dei 500, da lui criticato nella scorsa “Linea di confine”, non ha niente a che fare con il Gruppo di Firenze. A proposito della nostra opinione sul “concorsaccio” di Berlinguer, il passaggio che ne parla è tuttavia risultato poco chiaro, tanto da far pensare erroneamente che il nostro giudizio sull’iniziativa di Berlinguer sia positivo. Essere favorevoli alla valutazione dei docenti non significa però accettare qualsiasi modalità venga proposta. E anche il retribuire di più chi fa lo stesso tipo di lavoro può innescare dinamiche negative nel corpo docente, come ha dimostrato l’esperienza inglese. (GR)  Leggi.
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mercoledì 20 marzo 2013

PICCOLI ESTORSORI CRESCONO. PER DON CIOTTI È COLPA DELLA SCUOLA

Tre giovani studenti  di Pontassieve, ispirandosi a qualche film, ma forse anche a fatti reali, hanno cercato, per fortuna senza successo, di  trasformarsi in baby estorsori. Interpellato dal “Corriere Fiorentino”, don Luigi Ciotti, a Firenze per la marcia di “Libera”, ha individuato immediatamente i veri colpevoli: naturalmente la scuola e in generale la cultura che “ non sveglia le coscienze”.

Pontassieve non è il Bronx. Casomai è un paese che non ha più niente del “ paese di una volta” e la scuola, addirittura quella superiore, è a portata di mano e non obbliga più i ragazzi ad andare a Firenze alzandosi alle sei del mattino. Nonostante  questo,  a differenza dei loro compagni di tanti anni fa, anche la scuola di Pontassieve è tuttavia vissuta da qualcuno di questi ragazzi come un castigo.  Forse per qualcuno di loro sarebbe diverso   se avesse a portata di mano  la possibilità di dimostrare la sua bravura in qualche autentico percorso professionale. La scuola, invece, da qualche decennio – e per volontà di poco lungimiranti legislatori – ha avuto il compito di sostituirsi praticamente alla vita: innanzitutto alle famiglie, che spesso non sono in grado di gestire la trasgressiva voglia di autonomia che certi ragazzi rivendicano in anticipo e senza rispettare le “tappe” scandite dai riti e dai ritmi normali della loro crescita. E la scuola è chiamata a tappare le falle della classe politica, che non è stata in grado di pensare ad una società ove i ragazzi avessero i loro spazi e i loro ruoli anche al di fuori della scuola stessa; molto più facile, per gran parte del nostro dozzinale ceto politico, delegare alle scuole il compito di gestire il tempo libero dei bambini e dei ragazzi destinandole così ad essere una sorta di surrogato degli oratori che un tempo funzionavano, eccome, sia a Pontassieve che in altri paesi. Insomma, è come se    fosse possibile entrare nella vita quasi esclusivamente attraverso il tempo segnato dal suono della campanella.  Naturalmente quando accadono fatti come quelli riportati sabato scorso dalla stampa, non solo locale, ecco pronta la più banale, retorica, scontata e avvilente delle spiegazioni: la scuola non è stata in grado di fare la propria parte ed è nella scuola che si devono trovare le responsabilità a tutte le problematiche che attossicano, è proprio il caso di dirlo, la vita di tanti ragazzi. In questa banalità è incorso anche don Ciotti che sul “Corriere Fiorentino” si è lasciato andare alla seguente dichiarazione “In questi momenti bisogna chiederci qual è il ruolo della scuola e della cultura, una cultura che deve svegliare le coscienze”. Ecco, se don Ciotti si fosse limitato ad esecrare il comportamento dei ragazzi (avranno pur loro, insieme alle rispettive famiglie, delle responsabilità, se gli altri loro compagni, per fortuna la stragrande maggioranza, se ne guardano bene dall’andare a chiedere il pizzo ai negozianti!), avrebbe  reso un servizio migliore alla “persuasione” piuttosto che, come ha invece fatto, alla rettorica. Perché se c’è una scuola, almeno in Toscana, che rappresenta un modello per l’impegno che  profonde nella formazione civile dei ragazzi è proprio quella di Pontassieve. In particolare il collega che dirige  l’istituto da cui provenivano i tre studenti  emuli di un trito modello camorristico ( forse grazie a qualche pessimo serial televisivo) è per me e per molti altri un vero e proprio punto di riferimento per come  è attento alla crescita civile e morale dei “suoi” studenti. Anni fa è stato il primo, e forse ancora oggi l’unico, ad attuare un progetto finalizzato a recuperare, nei bar e alla stazione, i ragazzi che marinavano la scuola; ed è una persona che della scuola ha fatto una ragione di vita. Mentre don Ciotti si lasciava andare a quelle banalissime riflessioni sopra riportate, quel dirigente scolastico stava sfilando con molti dei suoi studenti nel corteo organizzato a Firenze proprio da “Libera”. Questo Paese, non solo Pontassieve naturalmente, deve molto alle persone come don Ciotti, ma anche al lavoro costante, duro e silenzioso di persone comuni e prive di notorietà, convinte che lavorare bene significa lavorare pensando anche al bene degli altri e che il bene degli altri lo si fa anche misurando le parole.  Tra questi vi è senz’altro il mio collega del Balducci.  Conoscendolo da molti anni, non gradirebbe che qui venisse fatto il suo nome, tanto poco ha a cuore la notorietà.  Certamente gradirebbe, come me, che del mondo scolastico si parlasse  evitando di ricorrere a pregiudizi e a banalità offensive  come ha fatto in questa occasione il fondatore di “Libera”.  (VV)

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mercoledì 6 marzo 2013

LA RISPOSTA ALLA LETTERA APERTA AI PARTITI DI ERIKA FRANCHI E TOMMASO VILLA DEL PDL TOSCANO

Premesso che la scuola è per definizione una cosa “seria”, altrimenti non è scuola, apprezzo lo sforzo che il Gruppo ha profuso per la predisposizione del documento sottoscritto da numerosi esponenti di rilievo della società civile e tento di dare risposte sintetiche a domande, altrettanto sintetiche, che aprono però scenari di ampiezza sconfinata.

1. Riconoscimento del lavoro degli insegnanti. Saranno riconosciute agli insegnanti la difficoltà e la delicatezza della loro professione o si continuerà ad additarli all’opinione pubblica come lavoratori part time, come dimostra il recente tentativo del governo di aumentare di un terzo l’orario di cattedra?
Il riconoscimento sociale ed economico della categoria passa attraverso la riconquista da parte dei singoli del proprio ruolo morale, professionale e sociale. Per questo la professione docente non può più essere considerata un ammortizzatore sociale, ma deve diventare protagonista riconosciuta del sistema di istruzione e formazione dei giovani. In sintesi: più professionalità, maggior carico di lavoro, maggior retribuzione corrispondente e politiche di qualità del servizio e non di mera occupabilità.
Ricordo che la proposta del governo di centrodestra prevedeva un incremento del tempo dedicato alla lezione frontale, ma anche un congruo riconoscimento economico. L’attuale permanente proletarizzazione, frutto di politiche sindacali esclusivamente tendenti ad allargare la base occupazionale, non può certo contribuire a cambiare la visione del docente nell’opinione pubblica.

2. Libertà metodologica. Verrà assicurata agli insegnanti la piena libertà di scegliere le metodologie che ritengono più efficaci o si cercherà di imporre teorie calate dall’alto, come è successo negli ultimi decenni?
Siamo favorevoli alla libertà metodologica, quale elemento caratterizzante delle scelte educative, ovviamente se sostenuta da un aggiornamento costante dei docenti, anche di tipo individuale, ma comunque nell’ambito di obiettivi condivisi a livello nazionale coerenti con i modelli europei. Pertanto, anche in questo caso, non si può prescindere dalla misurazione degli standard e dalla valutazione delle performance.

3.  Funzione del docente. Si intende valorizzare il ruolo dell’insegnante come guida nella scoperta del nostro mondo e del suo patrimonio culturale oppure trasformarlo, come ha sostenuto di recente anche il ministro Profumo, in un “facilitatore” dell’autoapprendimento degli allievi?
La funzione dei docenti è delicata, multiforme e complessa, tale da non potersi concludere in una singola funzione o una generica definizione di “scoperta del nostro mondo” o di “trasferimento di patrimoni culturali” o di semplici azioni di “facilitazione”. Essa è tutto ciò e molto altro ancora, ovviamente se intrapresa con la coscienza del ruolo e della funzione, coscienza che non si può coniugare con una massificazione indistinta del ruolo del docente ed una pauperizzazione della sua figura.
Il concetto di facilitatore, non certo dell’autoapprendimento, bensì dell’apprendimento, rappresenta comunque una parte innovativa e fondamentale della funzione docente, fondamentale per l’inserimento dei giovani nel contesto sociale e nel mondo del lavoro in particolare. Questa funzione diventa fondamentale in un contesto multiculturale qual è quello che si prospetta nel nostro Paese.
 
4.  Priorità nella valutazione di docenti e dirigenti. È più giusto e più utile alla qualità della scuola garantire a tutti gli allievi degli insegnanti e dei dirigenti adeguati – prevedendo in caso contrario i provvedimenti opportuni – o limitarsi a premiare quelli eccellenti, che continueranno comunque a lavorare bene?
La valutazione deve essere vista come un’opportunità di crescita individuale e collettiva.
Non esiste un’eccellenza astratta, ma una conformità dei risultati conseguiti agli obiettivi prefissati collegati alla mission della scuola. I docenti devono essere sostenuti nei percorsi di miglioramento individuale al fine di garantire standard di sistema che consentano a tutti i giovani di conseguire le competenze atte a competere sul mercato globale e ad interagire correttamente nel contesto sociale.
L’eccellenza consiste, nella nostra visione, nella capacità di ottenere risultati che garantiscano il massimo successo e quindi la massima efficacia dell’azione formativa in funzione degli obiettivi fissati per i diversi segmenti formativi. L’eccellenza è anche riuscire ad evitare la dispersione scolastica in contesti difficili, favorire l’alfabetizzazione dei “nuovi italiani”.
In quanto al premio mi pare che l’attuale sistema retributivo non preveda premi per nessuno. Iniziare a premiare chi raggiunge gli obiettivi e chi si impegna per il loro raggiungimento è utile per gli studenti, utile per la società e costituisce una forte leva motivazionale per docenti e dirigenti.

5. Valutazione degli istituti. Per avere scuole che funzionino è più sensato attivare regolari controlli ispettivi sulla loro efficienza e correttezza o complessi e costosi sistemi di valutazione?
Premesso che gli ispettori – in questo momento storico – sono pochi ed in via di progressiva riduzione, essi svolgono ruoli di indagine e supporto. Per competere sul mercato globale è invece fondamentale che il sistema sia in grado di misurare  le prestazioni individuali e delle singole istituzioni scolastiche in chiave europea. Il confronto con i sistemi formativi degli altri Stati dell’Unione non può essere evitato e deve essere “misurato” con strumenti omogenei.
La valutazione ispettiva è soggettiva e al massimo si può limitare alla misurazione dell’efficienza formale, la valutazione di sistema è invece legata alla misurazione del livello di efficacia del sistema di istruzione che la singola scuola è in grado di conseguire.
Un sistema efficiente è corretto in quanto perfettamente funzionante può essere assolutamente inefficace se non consegue agli standard di sistema previsti a livello nazionale ed europeo. E’ ovvio che per tenere sotto controllo la adeguatezza rispetto agli standard il modello organizzativo non è semplice ed è certamente strutturato, ma la sua funzione della valutazione è quella di fornire alle scuole ed ai singoli docenti e dirigenti le informazioni utili per pianificare piani di miglioramento e gli interventi corrispondenti. In questa logica possono trovare spazio nuove figure di supporto che poco però hanno a che spartire con la “vecchia” figura dell’ispettore-censore.

6.  Dare valore alla formazione professionale. L’insuccesso scolastico di tanti ragazzi all’inizio delle superiori si combatte ampliando il numero delle scelte possibili, compresa una qualificata formazione professionale, o obbligandoli tutti a un biennio comune, come sostengono alcuni?
Il modello della formazione professionale è un modello complesso in quanto lega strettamente l’offerta formativa con la domanda di lavoro. Un corretto modello di formazione professionale dovrebbe rovesciare la relazione: è la domanda di lavoro che determina l’offerta formativa e non viceversa, perlomeno nelle sue componenti specialistiche e vocazionali, cui vanno associati gli elementi formativi di base. Questo richiede un modello orientativo precoce, una rivalorizzazione del lavoro – compreso quello manuale – quale valore positivo del posizionamento sociale.
Certo che in un paese in cui gli operai hanno i salari più bassi d’Europa, pensare al lavoro manuale, al “mestiere”, come elemento positivo di qualificazione sociale rimane certamente ancora utopico.

7. Aggiornamento. L’aggiornamento degli insegnanti, elemento indispensabile per la crescita professionale, sarà finalmente basato sullo scambio sistematico di esperienze tra chi opera sul campo oppure soltanto sul contributo di esperti (che poi non sempre si rivelano tali)?
L’aggiornamento costituisce l’elemento portante di tutte le professioni. Un professionista che non si aggiorna perde rapidamente le sue competenze e diventa obsoleto come le sue teorie.
Contratti collettivi paralizzanti hanno reso la professione docente una riserva di lavoro a basso costo, completamente deprivato dalla valorizzazione delle competenze individuali. In tale contesto l’aggiornamento è diventato una pratica invisa in quanto un professionista competente aumenterebbe il suo valore sul mercato e ciò rappresenta un controsenso rispetto all’attuale sistema retributivo basato quasi esclusivamente sull’anzianità e non sulla competenza. Pertanto prima di parlare di quale modello di aggiornamento è necessario rivalutare l’aggiornamento quale pratica essenziale della funzione docente valutabile ai fini retributivi in quanto elemento fondamentale della performance individuale e collettiva. Si parla da decenni di “longlife  learning”: sembra che questo concetto sia alla base di tutte le strategie di sviluppo delle società (e sicuramente lo è): stranamente esso sembra sradicato proprio dalla professione fondamentale per il “learning”, quella dell’insegnante.
Quale scambio di esperienze si può avviare fra soggetti per i quali l’aggiornamento non costituisce un valore riconosciuto a livello sistemico?

8.  Educare i ragazzi alle regole. Nei programmi dei partiti si dirà con chiarezza che insegnare ed esigere il rispetto delle regole è indispensabile per un proficuo lavoro scolastico e per la formazione dei futuri cittadini oppure si continuerà a sottovalutare questa fondamentale esigenza?
Il PdL ha sempre considerato le regole quali elementi fondanti della convivenza sociale. Le regole sono per noi la base del sistema familiare che costituisce, o perlomeno costituiva fino a qualche anno fa, la struttura portante della società italiana. Una malinterpretata e pertanto devastante, interpretazione della “libertà” ha portato alla relativizzazione di questo modello e pertanto alla relativizzazione delle regole che da esso promanavano. Di questa relativizzazione hanno risentito tutti gli aspetti della società. La scuola, che costituisce uno dei gangli più sensibili della società ed anche uno dei più fragili per un insieme di elementi che in piccola parte abbiamo evidenziato anche nelle risposte precedenti, ne ha risentito in maniera drammatica diventando la cassa di risonanza di contraddizioni e conflitti nati fuori che sono esplosi al suo interno. Il rispetto delle regole passa attraverso il recupero del concetto di responsabilità individuale, prima di tutto da parte di docenti, dirigenti ed operatori della scuola che attraverso l’esempio, in primis, sono e devono essere i testimoni di regole basilari di cittadinanza e di rispetto che sole possono condurre i giovani al riconoscimento del valore delle regole stesse. In questa direzione si inserisce la rivalutazione del voto di condotta quale strumento che misuri il livello di capacità di adesione degli studenti alle regole.
Insegnare le regole comunque si fa con l’esempio. Questa è la principale responsabilità che tutti, ma in particolare chi agisce nel mondo dell’istruzione, hanno nei confronti delle giovani generazioni.
Le regole non sono frasi scritte su pezzi di carta, sono l’agito portato avanti con certosina pazienza, con quotidiana, caparbia risolutezza.

9. Uso e abuso dei test. Dei test Invalsi che valutano l’apprendimento si pensa di fare un uso limitato all’accertamento delle competenze di base o di estenderne impropriamente l’uso, con il concreto rischio di  trasformare la didattica  in un addestramento alla soluzione dei test?
Modelli educativi ben più performanti del nostro si basano sul modello del test. Il problema non è l’uso che facciamo dei test, quanto il contesto in cui li utilizziamo. Il modello valutativo della scuola italiana è basato sull’identità fra “maestro” e “misuratore dell’apprendimento”. Il “maestro” è abituato al suo metodo di proposta e quindi utilizza strumenti di misura adatti al “suo” modello.
Il test nasce in sistemi educativi dove le figure del “maestro” e del “valutatore” sono distinte. Le uniche valutazioni che competono al “maestro” sono quelle di carattere formativo. Per il resto egli non è l’antagonista del suo allievo, bensì l’alleato nel tentativo di superare lo scoglio della valutazione finale. Il test è solo lo strumento con cui è possibile valutare performance individuali, d’istituto, del sistema formativo territoriale. Ovviamente ciò che è deleterio è invece il test “fai da te”.  E’ negativo abusare del test per compiere valutazioni di carattere formativo che hanno scopi diversi da quello per il quale i test devono invece essere somministrati.

10.  Il ministro. Si potrà avere un ministro che conosca veramente i problemi della scuola, che si metta al suo servizio e attui un programma di concreti provvedimenti per renderla più seria, efficace e dotata di strutture adeguate?
Nel centrodestra i ministri dell’istruzione, seppur vituperati da una certa retorica di regime, hanno sempre condotto azioni mirate al miglioramento del sistema formativo. Le uniche riforme del sistema di istruzione portate a compimento dagli anni Settanta ad oggi portano il nome di ministri del centrodestra. Le proposte di riforma ancora giacenti in parlamento ed osteggiate dal regime consociativo portano il nome di viceministri del centrodestra. I tentativi di riforma del centrosinistra sono caduti tutti sotto il “fuoco amico” di quello stesso consociativismo. La domanda pertanto è mal posta, essa dovrebbe suonare così: riuscirà il nuovo governo a scardinare la ragnatela di interessi consociativi che da quarant’anni stanno demolendo la qualità della scuola italiana ed a salvarla?

 Erica Franchi (candidata per il PdL alla Camera dei Deputati), Tommaso Villa (consigliere regionale)

 

lunedì 25 febbraio 2013

FRANCESCA PUGLISI, RESPONSABILE SCUOLA DEL PD, RISPONDE ALLE DOMANDE DELLA LETTERA APERTA

1.    Riconoscimento del lavoro degli insegnanti. Saranno riconosciute agli insegnanti la difficoltà e la delicatezza della loro professione o si continuerà ad additarli all’opinione pubblica come lavoratori part time, come dimostra il recente tentativo del governo di aumentare di un terzo l’orario di cattedra?

Nel programma del PD abbiamo scritto che occorre restituire alla scuola risorse, fiducia e stabilità, restituendo prestigio sociale agli insegnanti.  Abbiamo contrastato in Parlamento la proposta del Governo Monti di aumentare a 24 le ore di lezione frontale, proprio perché non teneva in alcuna considerazione il resto del lavoro svolto dagli insegnanti, che è fatto di correzione dei compiti, ricerca didattica, preparazione delle lezioni, etc. e avrebbe semplicemente fatto far cassa allo Stato, con il licenziamento di migliaia di insegnanti precari. Il riconoscimento del lavoro degli insegnanti deve passare anche attraverso la discussione del nuovo contratto nazionale di lavoro, che coinvolgerà pienamente le scuole e le parti sociali. Vogliamo che sia valorizzata anche la formazione in servizio e l’impegno che molti mettono a disposizione delle scuole e degli studenti, che troppo spesso oggi non viene riconosciuto in busta paga.

 2.    Libertà metodologica. Verrà assicurata agli insegnanti la piena libertà di scegliere le metodologie che ritengono più efficaci o si cercherà di imporre teorie calate dall’alto, come è successo negli ultimi decenni?

Basta riforme calate dall'alto. Sì alla piena realizzazione dell'autonomia organizzativa e didattica delle autonomie scolastiche, dotandole di risorse umane (organico funzionale) e finanziarie stabili. L'obiettivo per tutti deve essere: combattere la dispersione e migliorare i livelli di apprendimento e competenza degli studenti.

3.    Funzione del docente. Si intende valorizzare il ruolo dell’insegnante come guida nella scoperta del nostro mondo e del suo patrimonio culturale oppure trasformarlo, come ha sostenuto di recente anche il ministro Profumo, in un “facilitatore” dell’autoapprendimento degli allievi?

Le guide oggi servono, eccome, per districarsi nella marea di informazioni che i nostri ragazzi acquisiscono fuori dalle aule scolastiche (il 70%di ciò che sanno, ci dicono i dati, arriva dall'esterno). La scoperta del mondo non può essere una corsa in solitaria, ma un cammino collettivo, in cui l'educatore/docente non è tanto un erogatore di conoscenza, quanto, appunto, una guida alla conoscenza. Vogliamo investire nella formazione in servizio degli insegnanti per innovare la didattica. Perché le tecnologie, su cui si è fatta molta propaganda negli ultimi 5 anni, possono essere utili strumenti se usate a servizio di una nuova didattica, altrimenti restano inutili elementi scenografici.

4.    Priorità nella valutazione di docenti e dirigenti. È più giusto e più utile alla qualità della scuola garantire a tutti gli allievi degli insegnanti e dei dirigenti adeguati – prevedendo in caso contrario i provvedimenti opportuni – o limitarsi a premiare quelli eccellenti, che continueranno comunque a lavorare bene?

Pensiamo che il sistema di valutazione sia stato usato nel modo sbagliato. Per punire [?] o premiare, tra l'altro basandosi su criteri opinabili, come la reputazione individuale. Il fallimento di tali progetti di valutazione dimostra la pochezza degli stessi. Crediamo, invece, che il sistema di valutazione debba essere utilizzato come strumento per accompagnare il sistema scolastico verso il miglioramento, anche attraverso la diffusione di buone pratiche didattiche.

5.    Valutazione degli istituti. Per avere scuole che funzionino è più sensato attivare regolari controlli ispettivi sulla loro efficienza e correttezza o complessi e costosi sistemi di valutazione?

I controlli ispettivi sono utili se aiutano a migliorare. Il bastone e la carota servono, forse, per addestrare gli animali, non per migliorare la scuola. Un sistema di valutazione forse è costoso, ma è indispensabile, perché è il giusto contraltare all'autonomia scolastica. Non crediamo a sistemi che valutino il singolo docente o dirigente scolastico, quanto, invece, a valutazioni che servano a far raggiungere a ciascuna scuola il massimo del proprio potenziale, accompagnandola verso il miglioramento, con l’istituzione di un unico Istituto Nazionale per la Valutazione e la Ricerca Educativa che sostenga le scuole, diffondendo le buone pratiche didattiche. Quindi, la valutazione deve essere riferita alla scuola nel suo insieme e basarsi su indicatori di apprendimento degli studenti, osservazione diretta di esperti, analisi dell'efficacia della scuola per gli sbocchi educativi o lavorativi successivi. Stiamo guardando al modello francese, dove le rilevazioni sono su base campionaria.

6.    Dare valore alla formazione professionale. L’insuccesso scolastico di tanti ragazzi all’inizio delle superiori si combatte ampliando il numero delle scelte possibili, compresa una qualificata formazione professionale, o obbligandoli tutti a un biennio comune, come sostengono alcuni?

Dobbiamo partire dall'idea che la scuola serve a formare cittadini, offrendo a ciascuno le opportunità per sviluppare appieno la propria personalità e arrivare al successo formativo e scolastico. Una scuola che seleziona precocemente i giovani, non fa altro che rivelarsi la peggiore prigione di questa società, immobilizzandola con le catene del censo, dell'origine geografica o familiare, delle possibilità economiche. Ogni alunno bocciato o definito ‘somaro’ è un alunno che probabilmente a 16 anni sparirà nel buco nero della dispersione scolastica, ed è questo il vero ‘scandalo’. Quasi il 20% degli studenti sedicenni, in obbligo di istruzione, abbandona anticipatamente il sistema formativo. Un quarto degli studenti non consegue un titolo di istruzione di secondaria superiore, in altre parole solo il 75% degli studenti consegue  un diploma o una qualifica contro una media dell’88% della Francia e del 90% della Germania. Serve un biennio unitario (e non 'unico') e un triennio di Indirizzo per permettere agli studenti di compiere scelte mature e consapevoli, con materie comuni tra gli indirizzi e opzioni individuali.
Dobbiamo, sì potenziare la formazione tecnica e professionale, ma non per gettarci dentro tutti coloro che a sedici anni riteniamo indegni di un liceo [!]. Vogliamo, e impegneremo risorse per questo, che gli istituti Tecnici e Professionali abbiano la qualità, gli standard tecnologici e lo status sociale di un qualsiasi liceo. 18 regioni su 20 hanno scelto modelli integrati di formazione e istruzione professionale, in cui i ragazzi e le ragazze, anche se iniziano con la formazione professionale, possono scegliere anche di rientrare nel percorso dell’istruzione. L’importante è che escano tutti con una qualifica e che, attraverso esperienze di alternanza scuola/lavoro, trovino la strada per la propria vita.

7.    Aggiornamento. L’aggiornamento degli insegnanti, elemento indispensabile per la crescita professionale, sarà finalmente basato sullo scambio sistematico di esperienze tra chi opera sul campo oppure soltanto sul contributo di esperti (che poi non sempre si rivelano tali)?

L'aggiornamento degli insegnanti deve essere fatto attraverso lo scambio di buone prassi, attraverso la conoscenza e messa in pratica di altre esperienze. Questo è per noi un aspetto fondamentale della formazione in servizio e ci impegneremo affinché tali scambi non sia demandati alla buona volontà di qualche docente, ma diventino sistema solido e periodico di aggiornamento e confronto fra scuole.

8.    Educare i ragazzi alle regole. Nei programmi dei partiti si dirà con chiarezza che insegnare ed esigere il rispetto delle regole è indispensabile per un proficuo lavoro scolastico e per la formazione dei futuri cittadini oppure si continuerà a sottovalutare questa fondamentale esigenza?

“L'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” (Paolo VI). Diciamo che i nostri ragazzi purtroppo non hanno ricevuto fulgidi esempi nella vita pubblica di rispetto delle regole. Uno degli impegni che il Partito Democratico assume è il rispetto dell’art.54 della Costituzione che “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. La scuola è il primo luogo dove si deve “educare alla legalità” e al rispetto delle regole.

9.    Uso e abuso dei test. Dei test Invalsi che valutano l’apprendimento si pensa di fare un uso limitato all’accertamento delle competenze di base o di estenderne impropriamente l’uso, con il concreto rischio di  trasformare la didattica  in un addestramento alla soluzione dei test?

Credo che i test Invalsi debbano essere a campione e non far parte delle prove di esame di terza media, perché davvero rischiamo che a scuola  si finisca per studiare come riuscire a superare i test?

10.    Il ministro. Si potrà avere un ministro che conosca veramente i problemi della scuola, che si metta al suo servizio e attui un programma di concreti provvedimenti per renderla più seria, efficace e dotata di strutture adeguate?

Se i cittadini e le cittadine affideranno al PD il governo del Paese, il ministro, chiunque sia, non solo sarà al servizio del mondo della scuola, ma si troverà intorno un governo che, a differenza di quello Berlusconi prima e Monti poi, avrà la massima considerazione per il sistema nazionale di istruzione, smettendo finalmente di considerare la scuola un luogo arrendevole dove praticare tagli e risparmi senza che dal Miur si levasse la più flebile voce di protesta. Vogliamo un Ministro che sappia dare valore all’autonomia scolastica e che sappia ascoltare, lavorando con le scuole, per raggiungere in 7 anni l’obiettivo di dimezzare la dispersione scolastica, alzando i livelli di istruzione della popolazione italiana.
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