martedì 18 settembre 2012

IL VALORE ILLEGALE DELLE LAUREE, di Gian Antonio Stella. Con una postilla sulla "madre tigre" Amy Chua

Se fosse solo una faccenda giudiziaria, amen: una bella condanna dei colpevoli e fine. Ma che 72 giovani calabresi si siano fatti delle lauree false e circa duemila siano sotto inchiesta è un atto d’accusa non solo per loro ma anche per chi li ha educati. E rilancia un tema: se la laurea è solo un pezzo di carta, è sempre più urgente abolirne il valore legale. Perché quei giovani si sono iscritti all’università? Nelle società che funzionano, dove il «merito» non è solo una parola inserita 37 volte in una proposta di legge di Mariastella Gelmini, ma l’asse portante del sistema educativo, i ragazzi cercano di entrare nei migliori atenei per un motivo solo: imparare. Crescere. Accumulare un bagaglio di conoscenze che consenta loro di conquistare il mondo. O come minimo di affrontare un colloquio di lavoro avendo delle buone carte da giocare.
A questo servono, piaccia o non piaccia, la severità anche nella distribuzione dei voti in pagella e la rigidità nella selezione quotidiana, che esistono in tanti Paesi che ci umiliano nelle classifiche internazionali come quelle del Pisa (Programme for International Student Assessment) dove i nostri figli, soprattutto quelli che frequentano le scuole nel Sud e nelle Isole, non sono assolutamente in grado di reggere il confronto con gli altri nella concorrenza scolastica che poi diventerà concorrenza nella vita.
L’anno scorso una madre cinese, Amy Chua, in un lungo articolo sul Wall Street Journal, spiegava perché trovava assurda la manica larga usata in Occidente nei confronti dei figli: «Quando i genitori occidentali pensano di essere rigorosi, di solito non si avvicinano nemmeno alle mamme cinesi. Ad esempio, i miei amici occidentali che si considerano severi fanno esercitare i figli sui loro strumenti musicali 30 minuti al giorno. Un’ora al massimo. Per una madre cinese, la prima ora è la parte facile. Sono la seconda e la terza ora quelle difficili».
Troppo dura? «In uno studio su 50 madri americane e 48 madri cinesi immigrate, quasi il 70% delle madri occidentali afferma che "insistere sul successo scolastico non è un bene per i bambini" e che "i genitori devono promuovere l’idea che l’apprendimento è divertente". Al contrario, poco più dello 0% delle madri cinesi la pensa così ». Altri studi, proseguiva, «indicano che, rispetto ai genitori occidentali, i genitori cinesi dedicano al fare i compiti con i figli un tempo di circa 10 volte superiore. Al contrario, i bambini occidentali sono più propensi a partecipare a gruppi sportivi».
Tutti i papà e le mamme, sia quelli occidentali sia quelli cinesi, concludeva l’autrice, vogliono il bene dei loro figli ma quelli cinesi sono convinti che occorra prepararli alle difficoltà della vita. Spiegar loro che nulla sarà regalato, che tutto dovrà essere conquistato.
Il Foglio di Ferrara, traducendo la paginata, titolò: «Ai figli regalategli un lager». Divertente e provocatorio. Ma quello giusto era il titolo originale: «Per imparare bisogna soffrire». C’è chi, al di là di certe legnosità schematiche della cultura cinese, se la sente di contestarlo? È più utile dare in pagella un voto basso che segnali un problema (anche ai genitori, ammesso che tutti diano un’occhiata ai risultati dei figli) o promuovere tutti in massa distribuendo voti altissimi perché «la vita è già dura, poveri ragazzi, è inutile mortificarli?».
Sinceramente: è credibile che al liceo classico «Empedocle» di Agrigento siano usciti agli esami di maturità 2011 la bellezza di 53 geni col massimo dei voti su 182 studenti? Cos’era, un’infornata strabiliante di Leonardo da Vinci, Pico della Mirandola e Albert Einstein o un genio ogni tre alunni è una quota un po’ troppo alta per essere plausibile?
E torniamo al nocciolo della questione: quei 72 «dottori» falsi usciti dall’università della Calabria, quell’«Arcavacata» di Cosenza che nacque grazie all’entusiasmo di tanti docenti trascinati da un trentino come Beniamino Andreatta e che avrebbe dovuto essere un campus di altissimo livello su modello degli atenei americani, non sono solo degli imbroglioni da castigare con una sentenza durissima. A partire da quello che, registrando sette esami in un giorno e prendendo per sette volte il massimo dei voti con la lode, dimostrava di essere certo che la sua bravata strafottente sarebbe passata inosservata.
Intorno a loro non hanno funzionato i professori e le scuole che li hanno fatti studiare (si fa per dire...) senza ficcargli nella testa che studiavano per se stessi e non per il voto. Non hanno funzionato le famiglie, che evidentemente si sono del tutto disinteressate di «come» i figli stavano facendosi il loro bagaglio di professionalità. Non hanno funzionato i meccanismi di una società che, soprattutto nel Mezzogiorno, ha troppo spesso mostrato che il risultato d’un concorso, l’assunzione, il posto fisso, lo stipendio, non dipendono da quanto uno è preparato ma dalle conoscenze giuste, le amicizie giuste, il politico giusto. Perché studiare se perfino il cardiochirurgo non viene scelto sulla base della sua preparazione ma della sua tessera di partito?
Un messaggio devastante. E questo a maggior ragione se è vero quanto spiega il pm Antonio Bruno Tridico, il quale indaga su oltre duemila studenti perché qualcosa non gli torna e ha dovuto imporre almeno lo spostamento dei tre impiegati smascherati dalle indagini, altrimenti inamovibili. E cioè che molti dei falsi laureati sono dipendenti pubblici non più giovanissimi che hanno cercato quella scorciatoia per farsi quel pezzo di carta utile per diventare funzionari o dirigenti, per andare avanti nella carriera.
E torniamo al punto di partenza. Se quel pezzo di carta è così importante in quanto pezzo di carta, al di là della preparazione effettiva e dell’università che lo ha dato, allora è meglio abolire il suo valore legale. Sono anni che Roberto Perotti, Francesco Giavazzi, Roger Abravanel ed altri ancora battono e ribattono su questo tasto. E mettere ordine in queste cose, per rilanciare il Paese, è importante quanto un investimento miliardario sulle infrastrutture.

Gian Antonio Stella

POSTILLA.  Amy Chua, la madre cinese a cui fa riferimento Stella, fece scalpore pubblicando un libro sull’educazione dal bellicoso titolo Inno di battaglia della madre tigre (in italiano Il ruggito della mamma tigre). Siamo ovviamente al polo opposto della mamma chioccia di stampo italico. Ne riferiva tra l’altro il “Corriere della Sera” all’inizio del 2011.  Su questo blog abbiamo più volte sostenuto che l’elevatissimo prestigio di cui gode l’istruzione in gran parte dell’oriente, le posizioni che Corea, Singapore e altri paesi hanno nelle classifiche internazionali e gli straordinari risultati che molti  studenti orientali ottengono nelle università americane devono senza dubbio farci riflettere e contribuire sbarazzarci delle pedagogie buoniste. Da qui a cercar di trapiantare pari pari qui da noi i metodi della “mamma tigre” (una specie di “coaching estremo” applicato alle figlie)  il passo è un po’ troppo lungo. Abbiamo chiesto a Osvaldo Poli, autore tra l’altro di Non ho paura a dirti di no. I genitori e la fermezza educativa, cosa ne pensa dei metodi di Amy Chua. Scrive Poli:
“Ne penso quasi tutto il male possibile, in modo speculare a quello che penso del nostro sistema educativo. Commette l’errore opposto; e due cose sbagliate non ne fanno una giusta. La tensione di fondo che, a mio sentire, anima tali madri è che il figlio emerga, eccella. Questi verbi contengono il veleno dell'ideologia che unisce l'oriente all'occidente. Tutte le pratiche educative descritte non hanno il sapore dell'amore. Sanno di durezza , che non è fermezza, è solo il contrario della debolezza. La fermezza unisce in sé gli opposti necessari, sa essere inflessibile quando necessario, comprensiva quando è opportuno. Ha misura perché non è animata né dalla paura di " far star male" il figlio, né dall’ossessione di farlo primeggiare. Oltretutto tale filosofia parte dal presupposto che con l'applicazione e lo sforzo tutto sia possibile a tutti. Un'illusione tanto quanto la nostra per la quale è bene che i figli facciano solo ciò che piace. Per una bimba che riesce a suonare il pezzo al pianoforte, quanti avranno odiato la musica? Fra il lassismo e la crudeltà psicologica c'è la responsabilizzazione che incita, incoraggia, motiva, ma non evita le conseguenze degli errori e delle decisioni sbagliate .
In fondo entrambi i metodi intendono evitare ai figli il dolore del fallimento e il peso della (loro) colpa. E forse sono metodi più simili di quanto appaia in superficie.
Mi rendo conto mentre scrivo che questi miei presupposti sono mutuati dalla antropologia cristiana, a mio avviso ampiamente difendibili anche dal punto di vista culturale e razionale”
[1].


[1] Comunicazione privata

SCUOLA, SOGNO DI FINE ESTATE, di Rosario Salamone

Avevamo pensato di scrivere qualcosa sull'apertura dell'anno scolastico e uno di noi ci aveva anche provato, rimanendo però alla fine poco convinto di ciò che aveva scritto. Infatti raccontare e salutare il giorno del rientro tra i banchi è uno degli esercizi più difficili a cui può sottoporsi chi si occupa di scuola. Saro Salamone, per molti anni preside del Liceo Visconti di Roma, lo ha fatto benissimo, toccando anche temi come l’importanza dei riti e il ruolo della scuola come agente di un primo distacco dalla madre. [Dal "Corriere della Sera/Roma" del 16 settembre 2012].

Mentre l' abbronzatura si chiazza delle prime spellature e un po' di sabbia è ancora rimasta nei sandali, comincia il primo giorno di scuola. Veramente lo start della campanella suona nella Capitale in giorni diversi. Peccato, i riti d' iniziazione dovrebbero coincidere per tutti. L' editore del capolavoro di De Amicis mandò in libreria Cuore il 17 ottobre, giorno d' avvio della Scuola in tutta Italia. Altri tempi, altri stili, lontani anni luce dal presente. E meno male, direbbe qualcuno. Restiamo dell' avviso che la scansione dei tempi, le ore e i giorni del tempo scuola, abbiano un valore simbolico incisivo e determinante nel processo di formazione collettiva e individuale dei nostri studenti. Ci sembra deplorevole indurre disinvoltamente nella percezione sociale di uno studente una sorta di «jet lag», un senso di disincronia, come quando si torna in aereo da un lontano continente. Si comincia insieme, si termina insieme, è sempre stato così per tante generazioni di studenti. Semmai sarebbe auspicabile augurare agli studenti un sogno di fine estate ad occhi aperti nel primo giorno di scuola. A bruciapelo, senza neppure il preambolo dell' appello, ascoltare il docente di Italiano che ti versa nell' anima quel passo «straniato», teneramente folle, di Mark Strand, il grande poeta americano. La storia di quel moccioso di anni quattro che dice al padre intento ad allacciarsi le scarpe «Le mie traduzioni di Palazzeschi vanno male». Pensate alle facce stralunate e incredule degli studenti mentre ascoltano e si fanno sedurre da una storia ai limiti della realtà. Chi sarà mai questo mostriciattolo fuggito dalla scuola materna che traduce niente meno che quello stravagante di Palazzeschi, per di più dall' italiano in inglese? Dentro ci sono gli ingredienti di quella follia che è insegnare, il lavoro borderline per eccellenza, un' impresa epica in un mondo che non sa più dove l' epica stia di casa. Certo, servirebbe che gli studenti, entrati in aula, non fossero gravati dalla tiritera di sempre. Prof che mancano, banchi lillipuziani per adolescenti alti come corazzieri, strutture inadeguate e spazi angusti. E il nostro piccolo traduttore che faccia farà mentre osserva i suoi compagni in lacrime con tutte quelle mamme che stringono le loro manine per il rito dell' inserimento? La procedura antishock della moderna psicopedagogia dell' età evolutiva che si esalta nel gioco accorato del «ti lascio ma sono qui». La scuola è il luogo della separazione, del moltiplicarsi dei poligoni affettivi e cognitivi. Certi passaggi non possono essere attenuati o, peggio, resi una caricatura rispetto alla dignità di un bambino, qualità che possiedono innata e profonda. Intanto la passione educativa si è disposta su due sponde opposte. Tablet sì, tablet no. Vedremo. Intanto il ragazzino di quattro anni prova ad utilizzare sull' Ipad il traduttore automatico e si mette a piangere.
Rosario Salamone

giovedì 13 settembre 2012

LA FATICA DI INSEGNARE. Relazione di Valerio Vagnoli al Convegno "Star bene a scuola"

Per iniziativa della Gilda degli Insegnanti, si è tenuto oggi a Firenze il convegno STAR BENE A SCUOLA: dalla valutazione dello stress lavoro correlato al miglioramento della qualità di vita. Al centro dell’attenzione il fenomeno dello stress professionale e del “burn out”, che ne rappresenta l’esito in non pochi casi, esaminato da molteplici punti di vista: normativo, psicologico, medico, sindacale. Valerio Vagnoli, preside dell’Istituto Alberghiero “Aurelio Saffi” e membro del Gruppo di Firenze, ha svolto la relazione La fatica di insegnare, che pubblichiamo qui di seguito.

Ringrazio davvero l’amica Silvana Boccara per avermi dato la possibilità di trattare questo tema. Un tema che, se presentato a un largo pubblico anziché a degli addetti ai lavori quali noi tutti siamo,  probabilmente farebbe ancor oggi sorridere, con aria di sufficienza, non poche persone. Penso infatti che ancora siano in molti a ritenere l’insegnamento una sorta di non lavoro, un’impegno limitato a un numero ristretto di ore e di giorni e naturalmente più adatto alle donne che non agli uomini, anche in virtù della sua modesta retribuzione. Ed invece insegnare stanca sul serio e diventa sempre più  spesso un impegno  sfiancante sia fisicamente che psicologicamente. Ma più ancora del senso comune, è grave che anche chi ricopre responsabilità politiche e culturali di respiro nazionale continui a non rendersene conto. Vedremo più avanti  i motivi, o almeno parte di essi, per cui siamo arrivati al paradosso grazie al quale una professione considerata spesso privilegiata contribuisce invece  sempre più a far insorgere negli insegnanti e nelle insegnanti vere e proprie patologie in una misura oramai significativamente superiore ad altre categorie.
Ovviamente questa sorta di paradosso non è casuale e non è casuale che siano rarissime le occasioni come questa in cui si può parlare della difficoltà di questo mestiere. Il quale, dovendo contribuire, come pochi altri, a tenere  in tensione le corde più nobili  che caratterizzano il senso di civiltà di un popolo, si ritrova oggi in una condizione che talvolta rasenta l’umiliazione e patisce una vera e propria sofferenza psicologica.
Ma andiamo con ordine. Non vi è dubbio: lavorare stanca soprattutto, perdonate la tautologia, se si lavora; e, per inciso, prima o poi qualcosa di molto chiaro e definito dovrebbe essere detto anche su quella minoranza di docenti che lavorano molto poco o molto male e che non vivono assolutamente alcun senso di responsabilità in relazione al ruolo che essi ricoprono e rispetto alla formazione di coloro che saranno il futuro della nostra società.
Questa mia relazione, però, è dedicata a quelli che lavorano e che fanno il loro dovere; e proprio per questo, talvolta, capita che si sentano sconfitti e distrutti a causa di quello che fanno, o che vorrebbero fare senza però riuscirvi, per responsabilità che spesso non sono loro. Per la stragrande maggioranza dei docenti, insegnare costituisce comunque un impegno  psicofisico molto serio, anche quando non diventa un confronto logorante con allievi difficili o classi ingovernabili. In un mondo in cui la scuola, oltre a non garantire come un tempo un futuro lavorativo, non è più la fonte quasi esclusiva della conoscenza, in un mondo in cui l’attrattiva e il prestigio delle immagini, non solo televisive, rende più difficile l’ascolto puro e semplice della parola, tenere desta l’attenzione degli allievi è, lo sappiamo, un compito molto più arduo rispetto a quando eravamo noi cinquantenni e sessantenni a sedere nei banchi. Tanto più che la formazione dei docenti è stata fino a oggi quasi esclusivamente centrata sullo studio delle discipline da insegnare, pochissimo sull’apprendimento delle metodologie e per nulla sulle capacità relazionali. Nessuno ci ha insegnato almeno l’arte di parlare in pubblico, a modulare la voce a seconda della funzione che diamo alle nostre parole: informare, dialogare, redarguire, narrare, creare curiosità.
Per un docente, parlare significa tuttavia  garantire sempre la trasmissione dei contenuti senza tradire lo statuto disciplinare dell’argomento trattato e nello stesso tempo assicurare chiarezza e linearità espositiva. Impegno, anche questo, non episodico ma quotidiano, che costringe ad una costante valutazione di sé stessi. Secondo dopo secondo, tocchiamo con mano quali siano nella classe gli effetti del nostro lavoro; e niente è più demoralizzante quanto vedere vanificato il proprio impegno a causa di quelle “interferenze” che tutti abbiamo ben presenti, si tratti di comportamenti disturbanti o di palese e magari esibito disinteresse. E sappiamo che in un’ora di lezione queste interferenze possono essere tantissime, soprattutto se dobbiamo rivolgerci a classi sempre più numerose e  a un numero sempre più alto di ragazzi solitamente assai diversi per aspettative, per preparazione e per educazione. Scrive Primo Levi nel romanzo La chiave a stella: "Un pubblico distratto od ostile snerva qualsiasi conferenza o lezione".
Accanto alle situazioni di “normale” – si fa per dire – difficoltà, ce ne sono altre specialmente in certi indirizzi di studio, in cui la fatica diventa talvolta tale da potersi definire disumana, inaccettabile in un qualsiasi contesto lavorativo, soprattutto per la lesione alla dignità personale che comporta. Una situazione assai ricorrente negli istituti professionali, in cui sono sempre più numerosi gli studenti demotivati che vivono il loro trovarsi a scuola come una vera e propria costrizione, rendendo così la vita scolastica impossibile sia ai loro compagni sia a quei docenti che si trovano disarmati di fronte a situazioni degne piuttosto di curve da stadio che non di un contesto scolastico.
A rendere sempre più drammatica l’ esperienza di molti docenti, vi è da tempo una loro diffusa e ben orchestrata colpevolizzazione che sempre più frequentemente li vede indicati come i soli responsabili delle situazioni ingestibili, come incapaci di motivare e coinvolgere studenti spesso demotivati, ma sostenuti da genitori iperprotettivi che accusano la scuola di non essere in grado di capire e valorizzare i loro figli. Va detto con forza che aver colpevolizzato la scuola quale pressoché unica responsabile dei fallimenti degli studenti, ha contribuito a deresponsabilizzare le famiglie rispetto ai loro compiti educativi, con la conseguenza che sono sempre più numerosi i ragazzi (ma anche i bambini) che non riconoscono autorevolezza al docente e che intendono la scuola, nella migliore delle ipotesi, come un castigo a cui si devono sottomettere per legge, per consuetudine o per volontà dei genitori.
Va aggiunto, inoltre, che la mancanza di un serio sistema di formazione professionale obbliga molti adolescenti a frequentare le aule scolastiche contro la loro volontà, senza quindi reali motivazioni. La conseguente, inevitabile serie di frustrazioni si traduce spesso in continue provocazioni nei confronti dei loro docenti che si trovano talvolta isolati nell’affrontare situazioni di ogni genere,  che molti di voi purtroppo conoscono assai bene.
Ma, tornando a quanto poco prima accennato, cioè a quella ormai diffusa abitudine da parte dei genitori, e di una parte dell’opinione pubblica, di colpevolizzare i docenti per i mali del sistema scolastico, ritengo che questa tendenza non sia nata spontaneamente, ma sia in gran parte da addebitare a tutti coloro - politici, sindacalisti, opinionisti, pedagogisti - che hanno preteso che la scuola diventasse completamente subalterna a presunti “diritti” dell’utenza; beninteso non di quelli sacrosanti che sono alla base di un sistema scolastico democratico, ma quelli compendiabili un po’ all’ingrosso nel motto: il cliente ha sempre ragione. Del fatto che i diritti abbiano senso se declinati insieme ai corrispondenti doveri, quasi mai si sente parlare. Binomio, questo, irrinunciabile in un percorso educativo che si ispira ai principi della democrazia, altrimenti vi è il rischio (o meglio la certezza) di non tramandare alle future generazioni il rispetto della legalità, delle regole e della stessa democrazia. Sono fermamente convinto che certa deriva populista dei nostri ultimi anni abbia trovato la propria palestra proprio nella politica scolastica degli scorsi decenni, che ha destrutturato la qualità del sistema scolastico facendo credere che la scuola di massa equivalesse alla soddisfazione delle pretese, delle aspettative dell’utenza, quest’ultimo orribile termine che inaugurò un vocabolario scolastico educativo di cui vergognarsi se paragonato ai termini chiari e specifici della nostra tradizione scolastica. Una destrutturazione - quella della scuola e dei docenti, ma anche dei ruoli genitoriali - portata avanti anche da persone in buonafede che si riconobbero nelle proposte educative dei tanti dottor Spock che fiorirono nel e dopo il ’68 e che assimilarono da maestri del genere la visione di una scuola priva di regole e di rigore. Ancora oggi molti continuano a scambiare per autoritarismo l’imposizione di limiti e di regole, di cui è fatto l’indispensabile, graduale percorso di accettazione del principio di realtà. Questo protrarsi di un’acritica deriva antiautoritaria ha finito per indebolire gravemente la capacità degli educatori di guidare e sostenere la crescita dei ragazzi. Naturalmente simili concezioni non si sarebbero affermate così facilmente senza il contributo dell’evoluzione demografica, che ha trasformato i figli in un “bene scarso”. In quanto tale, un bambino si trova spesso circondato da premure, preoccupazioni e aspettative che gli consegnano un elevato “potere negoziale”, diciamo pure di ricatto, se i genitori non sono consapevoli delle reali necessità del suo sviluppo. Delle conseguenze del passaggio dall’educazione tradizionale a quella che convenzionalmente chiameremo “post-sessantotto” si sono resi conto gli psicoterapeuti osservando l’evoluzione delle difficoltà psicologiche. Dagli anni sessanta a oggi sono via via diminuite le patologie derivanti da un Super-Io troppo esigente, mentre crescevano a dismisura le patologie del narcisismo: bisogni compulsivi di attenzione, permalosità, capricci, sentimenti di onnipotenza, oppositività.
Come poteva questa crisi educativa non riflettersi sulla scuola in modo spesso distruttivo?
Tra le specificità italiane, oltre alla nota pervasività del codice materno, non più riequilibrato da quello paterno, c’è ancora una volta da ricordare il donmilanismo. E in quegli stessi anni molti di coloro che nel mondo della scuola apprezzarono Lettera a una professoressa per aver messo in evidenza la correlazione tra estrazione sociale e insuccesso scolastico non vollero accorgersi, di fronte alla per certi aspetti esaltante esperienza di Barbiana, come proprio da quella esperienza uscisse rafforzata la figura di un docente rigoroso e garante di regole rigidissime da far rispettare anche a costo di punizioni davvero poco ortodosse. E da quella esperienza maturò anche un modello scolastico che non si volle vedere come unico e irripetibile anziché, come finirà poi per diventare, alternativo alla scuola di Stato sempre più vista, da allora e da certi progressisti per vocazione, perennemente conservatrice, inadeguata, elitaria e, insieme ai suoi docenti, addirittura classista.
Sono convinto, e per fortuna non sono il solo, che la deriva della scuola sia partita anche da questi processi, che senz’altro hanno la loro responsabilità anche nell’aver reso il lavoro dei docenti inutilmente più faticoso e di conseguenza sempre più inutile.
Ma per capire quali siano le conseguenze di tale deriva e da quale tipo di fatica e dolore sia oggi caratterizzato il lavoro dei docenti, può essere indicativo riflettere sulla recentissima, inaudita, vergognosa, campagna di vero e proprio linciaggio politico e mediatico da caccia alle streghe a cui sono state sottoposte, questa estate, le maestre elementari di Pontremoli, colpevoli di aver bocciato dei bambini in prima elementare. Maestre e dirigente scolastico sono stati vilipesi, oltre che dai soliti eredi di don Milani, da politici cosiddetti dell’area progressista, da sindacalisti e perfino da esponenti dello stesso ministero che ha imposto loro un paio di ispezioni facendo tuttavia finta di nulla sul fatto che le poverette avevano condiviso la bocciatura con i genitori e che erano state costrette a insegnare in una prima di ben 31 bambini. Numero, questo, già di per sé ampiamente sufficiente per definire pedagogicamente  criminale il sistema che ha permesso la costituzione di una classe di prima elementare così numerosa in un’ area peraltro a largo flusso migratorio.
Ma tornando a quanto dicevo poco fa, credo che un ruolo altrettanto importante e forse determinante in questo sistematico processo di distruzione del sistema scolastico nazionale, che ha portato alla delegittimazione del ruolo dei docenti, lo abbiano avuto quelli che a mio parere sono i veri poteri forti della politica scolastica. Poteri ben organizzati e spesso legati a cospicui interessi economici, riconducibili in linea di massima ad un certo mondo universitario e ad altri noti soggetti e agenzie legati al business dell’aggiornamento e tutti quanti ben coperti, per dirla col Manzoni, da “Potentati e qualificati Personaggi”. È anche in questo contesto, in una scuola cioè fortemente de-istituzionalizzata, che dobbiamo percepire la drammaticità dei dati che Lodolo D’Oria, uno dei rarissimi studiosi che si stia occupando seriamente nel nostro Paese delle patologie legate al lavoro docente, ci fornisce attraverso alcuni suoi recentissimi studi. Per esempio, le sue ricerche hanno evidenziato, anche se limitatamente a Milano, che negli ultimi vent’anni le diagnosi psichiatriche, nella scuola, sono notevolmente aumentate e una crescita progressiva l’abbiamo avuta anche nelle neoplasie di carattere prettamente femminile; e sempre più femminile sta diventando il nostro corpo docente. Attualmente le donne ne rappresentano l’ 82%  con un’età media di oltre 50 anni; età che in linea di massima coincide con il periodo perimenopausale e per questo fortemente soggetto alla depressione. Rispetto a tutto ciò si sentono, in verità, poche convinte denunce, per esempio sulle conseguenze che si possono avere sul piano delle patologie in virtù dell’aumento dell’età pensionabile, in particolare proprio in relazioni alle docenti. Temo che in alcuni sindacati sia ancora troppo radicata l’idea di cui si diceva poco fa, quella per cui l’insegnante sarebbe un privilegiato, soprattutto rispetto agli operai, come mi sentii dire anni fa da una sindacalista formatasi come funzionaria del comparto metalmeccanico, che forse proprio per questo fu poi incaricata dal suo, allora anche mio, sindacato di seguire il comparto scolastico. E temo, ritornando al problema delle patologie delle insegnanti, che gli interventi di prevenzione previsti dall’accertamento da stress da lavoro correlato, reso obbligatorio dalla recente normativa, rischino di diventare una mera formalità se su questi aspetti  sia le scuole che le organizzazioni professionali e sindacali non si preoccuperanno di procedere ad un capillare monitoraggio di ciascuna scuola individuando  tutte quelle criticità che finiscono col determinare la buona o la cattiva salute del personale scolastico, in particolare di quello docente. E consiglierei di soffermarsi soprattutto su quei contesti scolastici dove tutto sembra filare liscio e dove, per esempio, si nega l’esistenza dell’uso di stupefacenti all’interno della scuola, o dove non vengono prese da parte dei DS opportune iniziative nei confronti dei docenti che non fanno il loro dovere e che così facendo implicitamente svalutano e rendono molto frustrante il lavoro dei loro colleghi; o ancora dove si fa finta di nulla rispetto ai problemi disciplinari degli allievi, rinunciando per principio, nei loro confronti, a qualsiasi iniziativa di carattere disciplinare, anche rispetto ad episodi che sconfinano nel codice penale. Senza parlare poi delle difficoltà che sempre di più i docenti, come abbiamo visto poco sopra, incontrano nei rapporti con le famiglie e che talvolta li vede, anche in caso di offese e minacce, completamente abbandonati dall’istituzione. Ma è anche vero che esistono numerosi docenti che non conoscono quasi niente rispetto ai loro doveri: potrei citare decine e decine di episodi legati alla mia esperienza di dirigente scolastico, compreso quello abbastanza recente che mi ha visto destinatario di un documento redatto da un gruppo di insegnanti guidati da due rappresentanze sindacali interne alla scuola, devo riconoscere che quello della Gilda ne aveva preso le distanze, che  richiamavano i  miei compiti   enumerandoli   citando una sentenza della Cassazione del 1990, avete capito bene, del 1990 che, appunto, declinava quelli che erano allora i compiti dei presidi come se nel frattempo non ci fosse stato, col Decreto legislativo 165/2001, il varo della dirigenza scolastica.  E magari qualcuno di loro aveva anche scioperato contro il decreto Brunetta senza sapere tuttavia come quel decreto, condivisibile o meno, avesse dato, rispetto al Dlgs 165, ulteriori responsabilità ai dirigenti!
Ma torniamo alla quotidianità del loro lavoro, alla loro fatica quotidiana che diventa insormontabile quando è accompagnata da paura, sconforto, debolezza: dalla certezza di essere battuti, una volta entrati in classe, da ragazzi difficili o spietati, rispetto al cui comportamento diventa talvolta anche impossibile fare l’appello. E in quella confusione destinata a ripetersi giorno dopo giorno si cancellano anni di studio, di attese, di progetti, mentre nella solitudine e nello sconforto si finisce per vivere tutte le difficoltà della situazione esclusivamente come personale fallimento. A tale proposito e per confermare in qualche modo come certe forme di disagio facciano oramai parte della quotidianità della vita scolastica e come questo disagio sia  talvolta del tutto ignorato anche dagli stessi colleghi, mi preme segnalare parte di una lettera di un giovane docente pubblicata il 12 marzo scorso sul “Corriere fiorentino” nella rubrica I quaderni della Profe a cura di Antonella Landi. Tra le altre cose il giovane insegnante confessa che quando un anno fa venne  nominato supplente,  non aveva percepito come gli alunni delle classi in cui era “ stato catapultato mi vedevano come un pischello indifeso. I colleghi, probabilmente  mi vedevano anche peggio. Per incoraggiarmi, anziché decantare gli aspetti positivi delle classi che stavo per conoscere e consigliarmi una via da percorrere per inserirmi meno dolorosamente possibile, si dilettavano ad elencare nomi, cognomi e malefatte dei più urticanti elementi di quelle mandrie brade che sono gli studenti delle scuole professionali, quelli di serie B”.
È pur vero che il nostro confuso e disorganizzato, ma non affatto casuale, sistema di reclutamento del personale docente ha permesso che entrassero alla fine nella scuola anche docenti del tutto inidonei psicologicamente al loro compito. Ma è anche vero che spesso non sono solo i docenti del tutto inadeguati al loro ruolo ad uscire distrutti dalle classi. Come ho accennato all’inizio di questo intervento, quasi sempre la fatica finisce col distruggere anche gli insegnanti appassionati, competenti e generosi. Né è giusto sottoporre quei docenti, da sempre inadeguati ed entrati nella scuola in virtù di combinazioni normative indegne di un paese civile, all’umiliazione di dover vivere per sempre la loro esperienza lavorativa in balìa di classi scatenate che, è bene dirlo con chiarezza, a loro volta hanno diritto ad avere docenti equilibrati e degni di una professione che senz’altro è tra quelle che richiede profonde competenze e in ambiti non solo prettamente disciplinari.
Solitamente, ad aggravare la condizione di questi docenti, vi è, ripeto, il loro totale isolamento, molto spesso voluto dai diretti interessati perché, ribadisco, il non riuscire a gestire la classe o a organizzare una didattica degna di questo nome è vissuto da molti docenti in difficoltà come  una propria colpa, tanto è diffusa - e ahimè acquisita - la fandonia che dietro ad ogni fallimento scolastico vi sia la pressoché esclusiva responsabilità dei docenti. Di solito, gli altri docenti e gli stessi dirigenti fanno ben poco per evitare che l’insegnante viva in completa solitudine questa sua terribile personale mortificazione. Il più delle volte certe situazioni decisamente drammatiche, concreta manifestazione di vero e proprio burn out, sono affrontate dai DS cercando mediazioni con le classi finalizzate ad arrivare in un modo o nell’altro alla fine dell’anno nella speranza che il docente in difficoltà poi si trasferisca. Gli altri insegnanti spesso ritengono che il problema non li riguardi e che debba essere risolto dal dirigente scolastico.
Credo, invece, che una delle risposte migliori per rendere meno faticoso il lavoro dei docenti le si debbano andare a cercare all’interno delle singole scuole, “socializzando” quanto più possibile i problemi e facendo riferimento, per risolverli,  soprattutto ai colleghi della stessa scuola che sono in grado, attraverso la loro esperienza, di rappresentare dei punti di forza  imprescindibili e sicuramente molto più affidabili  rispetto a tanti esperti esterni. Troppo spesso, infatti, questi ultimi vorrebbero insegnare come si deve lavorare con dei ragazzi, con dei bambini, con degli adolescenti, senza tuttavia averlo mai fatto all’interno di un sistema scolastico. Insieme ad una maggiore e vera solidarietà tra docenti occorre, per rendere senz’altro meno faticoso e problematico il lavoro degli insegnanti, che si crei sempre di più il senso di appartenenza ad una stessa comunità le cui regole siano intese e rispettate come un vero e proprio  patrimonio comune. Ancora troppo spesso la scuola e i docenti tendono a proporsi alla stesso modo col quale hanno vissuto, da studenti, la loro lontana esperienza scolastica. Se un tempo, e abbiamo già visto quanto sia drammaticamente alta l’età media dei docenti italiani, era del tutto naturale insegnare in completa solitudine e chiudersi la porta  dell’aula alle proprie spalle, oggi questo non è assolutamente più possibile ed i motivi dovrebbero essere a tutti ben noti.  Perciò sarebbe opportuno che ogni scuola organizzasse un sistematico lavoro in cui, attraverso il confronto delle diverse esperienze, si affrontassero le difficoltà legate all’insegnamento, partendo proprio dai casi concreti interni all’istituto. E in ciascuna scuola dovrebbero sempre trovare spazio delle figure di riferimento, magari individuate tra i docenti più esperti, per coloro che hanno minore esperienza e per coloro che, appunto, necessitano di supporti di carattere metodologico e psicologico. Oggi ciascun problema, ciascuno successo, ciascuna sofferenza deve appartenere alla comunità scolastica e vale sempre la pena di ricordare che non si possono, non si devono abbandonare alla loro deriva i colleghi che durano maggior fatica, perché come fanno i torrenti “ruinosi” la corrente piano piano scarnifica gli argini, fino a divorarli del tutto dove il tutto rappresenta essenzialmente la nostra credibilità, la credibilità, appunto, della scuola pubblica. Grazie per la vostra paziente attenzione.
Valerio Vagnoli 

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martedì 11 settembre 2012

FECE SCRIVERE CENTO VOLTE AL BULLO “SONO UN DEFICIENTE”. LA CASSAZIONE CONFERMA LA CONDANNA

“Si doveva fare qualcosa. Non si poteva stare a guardare o fare finta di niente. Tra il giusto e ciò che è necessario per i ragazzi, tra ciò che è legale o “leguleio”, e ciò che è importante per gli alunni, ho scelto la seconda via… Mi sono presa una responsabilità, ho fatto una scelta”. Così si esprime, ricordando quel provvedimento estemporaneo, la professoressa Giusi Valido, in una dignitosa e pacata intervista al “Giornale di Sicilia”. La Cassazione ha confermato la sentenza di appello, riducendo anzi la condanna a 15 giorni (il massimo è sei anni). Nel 2007 il giudice di primo grado, invece, l’aveva assolta, sostenendo che «non è ravvisabile nella condotta della professoressa alcun motivo di rancore, vessazione, umiliazione, sopraffazione, ma solo l’esigenza di fornire una risposta educativa rispetto ad un episodio pericoloso per l’evoluzione dei comportamenti del ragazzo e di tutta la classe». Ma la Suprema Corte, come i giudici di secondo grado, sostiene che provvedimenti di questo genere “finiscono per rafforzare il convincimento che i rapporti relazionali [sic] (scolastici o sociali) sono decisi dai rapporti di forza o di potere” e che l’allievo fu “mortificato nella dignità”.
Come abbiamo avuto modo di ricordare anche nel febbraio dell’anno scorso commentando la decisione della Corte d’Appello, alla vigilia della prima sentenza promuovemmo, con l’Associazione radicale “ Andrea Tamburi”, una sottoscrizione di solidarietà a favore della docente (a cui la faccenda è costata molte migliaia di euro di spese nel corso di sei anni), che avrebbe in poco tempo superato i 3500 euro. La valutazione che esprimemmo allora nel comunicato con cui la lanciammo ci sembra ancora del tutto adeguata, nonostante gli indubbi progressi normativi, alla situazione in cui sono costretti a lavorare moltissimi insegnanti italiani:
“L'episodio dell'insegnante palermitana denunciata per abuso di correzione, che rischia due mesi di galera e un pesante risarcimento danni, la dice lunga su come vanno le cose nella scuola italiana. Certo, avrebbe potuto far scrivere all'allievo "Mi sono comportato da deficiente" anziché "Sono un deficiente". Ma perché dopo sette note sul registro l'alunno non era ancora stato sospeso? Non è forse doveroso tutelare il diritto di apprendere e di insegnare in un clima sereno, all’occorrenza anche con una sanzione educativa? Da molti anni, invece, gli insegnanti sono stati lasciati colpevolmente soli alle prese con il problema della condotta, che non di rado rende quasi impossibile il lavoro in classe. In questa solitudine la docente palermitana ha ritenuto necessario assumersi la responsabilità e l’onere – che sarebbe non solo della scuola italiana, ma dell'intera collettività – di difendere l'aggredito e punire l'aggressore”.
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L’articolo del “Corriere della Sera del 13 giugno 2007.
L’articolo sulla “Stampa” di oggi.
Il commento di Cristiano Gatti sul “Giornale”

venerdì 7 settembre 2012

COPIARE DOPO REAGAN E LA THATCHER


Dai commenti al post del 27 agosto:
Finalmente, grazie a Marcello Dei, sappiamo di chi è la colpa se nelle scuole italiane si copia: di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. …” (Papik.f)
“Intendiamoci: ho comprato, letto e apprezzato il libro di Dei e sono d'accordo anche con gran parte delle sue affermazioni nell'intervista. Non condivido però, in alcun modo, l'idea che, prima che arrivassero gli anni ottanta e l'ottimismo reaganiano a rompere le uova nel paniere, il mondo filasse felice verso la rossa primavera dove sorge il sol dell'avvenire. Penso che il '68, in particolare nella gattopardesca versione italiana, abbia molte colpe, ma non questa.” (Papik.f)
L’idea che nel mio libro io addossi la colpa delle copiature nella scuola italiana a Ronald Reagan e a Margareth Thatcher è alquanto inesatta, anche nella versione dell’ottimismo reaganiano.
Messe da parte le battute ridicolizzanti, cerchiamo di far chiarezza. In Italia prima degli anni ottanta, la scuola era classista quanto e forse più di oggi. E da noi come negli altri paesi dell’Occidente, la società, era solidamente ancorata all’economia di mercato. Il paradigma etico del capitalismo di allora era centrato sul lavoro, sull’impegno, sulla disciplina e sul senso civico, valori associabili a quelli della democrazia politica. La rossa primavera e il sol dell’avvenire il Pci li aveva già messi nella naftalina da molto tempo, ormai sopravvivevano nei sogni di pochi superstiti rivoluzionari.
Già negli anni settanta iniziano grossi cambiamenti nell’assetto economico e politico dell’Occidente. La globalizzazione e la privatizzazione dell’economia trovano una sponda nelle politiche neoliberiste promosse da Reagan, da Thatcher e seguite (con judicio) da Tony Blair e dai governi dei paesi del mondo. Questi mutamenti s’intrecciano con l’affermarsi di un nuovo paradigma etico centrato sul mercato, sull’individuo, sul privato. L’etica dell’impegno cede il passo all’ideologia dell’appagamento immediato dei bisogni, la comunità all’individuo, il cittadino al cliente. Tale tendenza non risparmia la famiglia, la scuola e i modelli educativi. Forte dell’ingenuità regressiva infantile, il consumismo trova tra i giovani i suoi più convinti sostenitori. I genitori-clienti esigono dagli insegnanti e dai dirigenti scolastici voti positivi a favore dei figli. Lo spessore della società civile si assottiglia.
Questo schema, qui ridotto all’osso, è ormai common source. In versioni variate ottiene un generale consenso. Non sono molti a pensare che i mutamenti culturali e politici possano svilupparsi al di fuori di un’intensa interazione con l’economia.
Marcello Dei

Ringrazio Marcello Dei per l'attenzione e i chiarimenti. Innanzitutto vorrei chiarire che nel mio primo post sul tema non intendevo riferirmi al suo libro, bensì a un frase dell'intervista a "La tecnica della scuola": capisco che in un'intervista la necessità di sintesi possa condurre a formulazioni che, se espresse nelle forma di argomentazioni articolate, risultano invece meno sgradevoli anche per chi non le condivida. Inoltre io non intendevo negare che negli anni ottanta si siano verificati una serie di mutamenti politico-economici strettamente correlati con l'economia. Non mi permetterei certamente di entrare in discussione con un professore di Sociologia su un punto come questo, dato che il mio mestiere è tutt'altro; e comunque sembra anche a me che la realtà di tali cambiamenti sia comunque fuori discussione (o "common source", se si preferisce). Per inciso, sul complesso di tali mutamenti io, dal mio punto di vista di comune uomo della strada, ho un'opinione diversa e complessivamente assai meno negativa di quella di Marcello Dei; ma questo, che rientra nella normale diversità di giudizio, non è certamente il punto.
È, invece, l'atteggiamento nazionalmente diffuso verso la copiatura che secondo me non si inserisce affatto in questo quadro, viene da più lontano e ha radici ben più profonde, come mostra, tra l'altro, anche il fatto che in quegli stessi Paesi nei quali i sopra citati fenomeni sono nati non si è verificato nulla di simile.
Io non sono nelle condizioni di poter polemizzare con un sociologo sul fatto che si sia affermato un nuovo "paradigma etico centrato sul mercato, sull’individuo, sul privato" e comunque, lo ripeto, penso che ciò sia in buona misura vero. Tuttavia, dal mio punto di vista di uomo della strada, riscontro che certi fenomeni (vogliamo dire l'abusivismo edilizio o l'evasione fiscale, per cambiare?), legati certamente a forme di individualismo e mancato rispetto della comunità, da noi si verificavano abbondantemente assai prima che tale paradigma si affermasse; mentre viceversa, nei Paesi dai quali tale paradigma proviene, sembra che non si verifichino se non in misura assai minore e comunque che non siano significativamente aumentati di recente.
Un'ultima osservazione sulla trasformazione di alunni e genitori in clienti. Questa sì che è una novità degli ultimi anni e su questo mi sembra condivisibile la spiegazione offerta. Mi resta tuttavia un dubbio: come mai questa trasformazione, a tutti i diversi livelli dai Ministri ai dirigenti ai docenti, è stata ed è propugnata a spada tratta da molti tra quelli che si oppongono fermamente al paradigma etico da cui essa discende? Per dirla più chiaramente: perché l'idea dell'"alunno-utente" trova i suoi più appassionati sostenitori proprio tra molti (anche se non tutti e forse neppure la maggioranza) dei professori dell'area "progressista" e tra tutti (e, qui, proprio tutti o quasi) i politici e dirigenti della stessa area?
E' pur vero che si tratta in larga misura delle stesse persone che propugnavano a scatola chiusa teorie pedagogiche e docimologiche statunitensi negli stessi anni nei quali disprezzavano gli "amerikani"...
Papik.f.