martedì 20 maggio 2008

DON MILANI: QUARANT’ANNI DOPO LA “LETTERA” SE N’È ANDATA ANCHE LA PROFESSORESSA (27 aprile 2007) di Valerio Vagnoli

Pochi giorni fa, a Firenze, è scomparsa la professoressa Vera Salvanti, l’insegnante che bocciando i due studenti di Barbiana provocò in don Lorenzo Milani quella reazione “spirituale” che lo porterà a scrivere il suo notissimo pamphlet, Lettera a una professoressa.
Ho conosciuto molto bene Vera Salvanti per averla avuta come collega proprio in quell’Istituto magistrale in cui si svolsero gli esami dei due ragazzi di don Lorenzo. Lei era alla fine della sua attività, io quasi agli inizi, e nei confronti miei e di un altro collega, trasferito insieme a me in quella scuola, dimostrò fin dai primi giorni una immediata simpatia. Sicuramente aveva apprezzato una nostra iniziativa che aveva finalmente costretto il preside di allora a rinunciare a far officiare ad inizio d’anno la messa, come era tradizione di quella scuola pubblica, in orario scolastico e dentro i locali della scuola stessa.
Vera Salvanti era una delle pochissime insegnanti laiche di quell’istituto, e con la sua severa, a volte anche eccessiva, intransigenza caratteriale, nella sua attività di docente si riconosceva nelle altrettante severe istanze che sulla scuola erano state espresse nel secondo dopoguerra da Concetto Marchesi e dallo stesso Togliatti. Aveva peraltro dovuto subire per anni l’arroganza di quel preside, di qualche altro prete e della stragrande maggioranza dei suoi colleghi e sorbirsi la funzione religiosa annuale a discapito della perdita di qualche ora di lezione a cui Vera non rinunciava con facilità, neanche in caso di malattia.
D’altra parte la sua formazione era quella di una convinta comunista, figlia di un adoratissimo padre comunista; anche in questi ultimissimi anni assai travagliati per la storia di quel partito e di quella ideologia, la sua fede politica aveva sempre simpatizzato per i comunisti, incurante di quanto quella parte politica non si fosse neanche mai provata a capire le “sue” ragioni per come si era comportata in occasione dell’esame dei due ragazzi di don Milani.
A dire il vero, salvo Adriano Sofri che la intervistò per Panorama moltissimi anni fa, nessuno si è mai preoccupato di sentirle queste sue ragioni e capire così, per esempio, come la bocciatura incriminata era stata fatta propria da un intero consiglio di classe, almeno nella sua maggioranza, e che la decisione, per diretta ammissione post quem degli stessi ragazzi interessati, era ineccepibile. Insomma, la professoressa Salvanti e i suoi colleghi del consiglio di classe, avevano semplicemente rispettato e usato quelle regole e quella deontologia che le leggi dello Stato imponevano loro e che il parroco di Barbiana, secondo una consolidata tradizione cattolica, voleva venissero trasgredite perché la scuola, secondo il coltissimo don Lorenzo, doveva andare incontro ai poveri riconoscendosi, anche in maniera esclusiva, nella loro cultura.
Vera Salvanti pensava che avesse ragione Gramsci quando affermava che i poveri, invece, dovevano appropriarsi della cultura delle classi egemoni se volevano fare il primo decisivo passo per avvicinarsi al potere o per cambiare la loro condizione di sfruttati e di ultimi.
Per quanto riguarda ancora la sua attività di docente, c’è da dire che l’ha sempre vissuta in una maniera del tutto opposta rispetto a come la intendeva don Milani, e cioè che l’insegnante dovesse diventare una sorta di missionario rinunciando – il parroco di Barbiana lo diceva con totale convinzione – anche a sposarsi.
Vera Salvanti è stata la docente più tradizionale che abbia mai incontrato, ma si era separata prestissimo dal marito in anni in cui separarsi in Italia era quasi un atto eroico, non aveva figli e amava, come il vecchio professore della canzone di Guccini, i gatti.
È sempre stata sobria nel raccontare questa sua esperienza, della quale avrebbe fatto volentieri a meno. Rimpiangeva soltanto che don Milani non si fosse mai fatto vivo con lei né con la scuola ed era convinta di essersi trovata nella vicenda quasi per caso, perché qualunque altro docente non avrebbe potuto proporre, per i due studenti, altro che la bocciatura.
Mi disse che il parroco di Barbiana ai ricevimenti inviava talvolta degli emissari per informarsi sui suoi ragazzi, mandati a Firenze dal Mugello perché il mondo e la scuola riconoscessero la dignità dei poveri, in un mondo in cui, però, i poveri non volevano più, malgrado don Milani, (“Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò”[1]) essere poveri.
[1] Lettera di don Lorenzo Milani a un giovane comunista di San Donato
[Pubblicato su "Notizie Radicali" il 27 aprile 2007]

mercoledì 7 maggio 2008

LETTERA APERTA AL MINISTRO FIORONI (novembre 2007)

Gent.mo Ministro Fioroni,
in mezzo a tanto silenzio sul Suo operato da parte di intellettuali e politici, anche quelli a Lei molto vicini, vogliamo manifestarLe il nostro apprezzamento di docenti e dirigenti scolastici per quanto sta facendo per ridare serietà alla scuola.
Apprezziamo in particolare il tentativo di riportare al centro del processo formativo dei giovani i valori del merito, del rispetto delle regole e della legalità.
Inoltre condividiamo con Lei la convinzione che la stragrande maggioranza dei docenti italiani sia una vera e propria risorsa per la scuola e per il futuro del Paese, ma che sia anche necessario, come Lei ha iniziato a fare, prevedere più efficaci sanzioni per i pochi incapaci o neghittosi.
Ci auguriamo che la Sua politica riformatrice sappia svilupparsi con coerenza e perseveranza anche nel futuro, in modo da modificare mentalità e abitudini consolidatesi negli scorsi decenni. Noi non Le faremo mancare, come oggi, il nostro convinto sostegno. Buon lavoro.

1. Valerio Vagnoli – Dirigente dell’I.S. “Giorgio Vasari” di Figline Valdarno - Firenze
2. Andrea Ragazzini – Docente, Liceo artistico “Alberti” di Firenze
3. Giorgio Ragazzini – Docente, scuola media “Italo Calvino” di Firenze
4. Sergio Casprini – Docente, Istituto d’Arte di Porta Romana di Firenze
5. Aurora Contu – Docente, I.C. di Casalbianco di Settecamini (Roma)
6. Gianna Caroti – Docente, I.P. Alberghiero “Saffi” di Firenze
7. Stefano Corsi – Ex docente nelle scuole medie superiori – Firenze
8. Rosa Rita Tartufoli – Docente, Istituto d’Arte di Porta Romana di Firenze
9. Gigi Monello – Docente, Liceo Scientifico "Alberti" – Cagliari
10. Maria Luisa Berti –Ex docente nelle scuole medie superiori – Bologna
11. Lino Giove – Ex insegnante all’Istituto Superiore “Fermi” di Padova
12. Paola Cinti – Docente, Liceo artistico “Alberti” di Firenze
13. Antonella Foscarini – I.C. S.Piero a Sieve e Vaglia – Vaglia (Firenze)
14. Giovanna Reynaudo – I.C. S.Piero a Sieve e Vaglia – Vaglia (Firenze)
15. Giuseppe Moncada – Dirigente Liceo Scientifico "E. Majorana" – Scordia (Catania)
16. Luisa Puttini – Ex docente nelle scuole medie – Firenze
17. Bernardo Draghi – Dirigente IPSIA “Chino Chini” – Borgo San Lorenzo (Firenze)
18. Alba Di Cello – Docente, scuola media “Masaccio” di Firenze
19. Gianna Masini – Dirigente scolastica a riposo – Firenze
20. Gabriele Cecioni – Docente a riposo Liceo Pascoli – Firenze
21. Andrea Marchetti – Dirigente scolastico Liceo Virgilio di Empoli (Firenze)
22. Pietro Milone – Docente ITC "C. Matteucci" di Roma
23. Maria Rossi – Docente, scuola media “Italo Calvino” di Firenze
24. Carla Montanari – Docente, scuola media “Masaccio-Calvino-Don Milani” di Firenze
25. Giovanna Ragionieri – Docente, Liceo artistico “Alberti” di Firenze
26. Laura Giovannini – Docente, Liceo artistico “Alberti” di Firenze
27. Giuseppina Molinaro – Docente, Liceo artistico “Alberti” di Firenze
28. Cristina Martini – Docente, Liceo artistico “Alberti” di Firenze
29. Raimondo Vacca – Docente, Liceo artistico “Alberti” di Firenze
30. Luciano Paccini – Docente, scuola media “Italo Calvino” di Firenze
31. Silvia Arrigoni – Docente, Liceo artistico “Alberti” di Firenze
32. Paola Vieri – Docente, Liceo artistico “Alberti” di Firenze
33. Marcello D'Alessandra – Docente, ITC “Benini” di Melegnano (Mi)
34. Bruno Telleschi – Docente, Liceo Classico "Mamiani" di Roma
35. Giuseppe Ruffa – Docente, Liceo artistico “Alberti” di Firenze
36. Angela Baldini – Docente, Istituto Tecnico Agrario di Firenze
37. Maria Novella Alioto – Docente, Istituto Tecnico Agrario di Firenze
38. Luciano Messana – Docente, Istituto Tecnico Agrario di Firenze
39. Paolo Crescente – Docente, Istituto Tecnico Agrario di Firenze
40. Marco Salvaterra – Docente, Istituto Tecnico Agrario di Firenze
41. Fedora Gambassi – Docente, Istituto Tecnico Agrario di Firenze
42. Laura Paoletti – Docente, Istituto Tecnico Agrario di Firenze
43. Maria Cristina Landi – Docente, Istituto Tecnico Agrario di Firenze
44. Cristina Coleschi – Docente, Istituto Tecnico Agrario di Firenze
45. Tiziana Brocchi – Docente, Istituto Tecnico Agrario di Firenze
46. Nicolò Graffagnini – Docente, Istituto comprensivo Sferracavallo – Palermo
47. Camillo Pagni – Docente, Liceo Classico "Dante" di Firenze
48. Rita Agresti - Docente di Lettere presso l' I.T.C.S. "Libero de Libero” - Fondi (Lt)
49. Renata Custodero – Docente, Liceo artistico “Alberti” di Firenze
50. Simona Polidori – Docente, scuola media “Italo Calvino” di Firenze
51. Olindo Celani – Docente, Istituto Comprensivo di Monte San Pietro (Bo)
52. Maria Teresa Valastro – Docente, scuola media “Italo Calvino” di Firenze
53. Sabino de Biase – Docente, Istituto Superiore "B. Pinchetti" di Tirano (So)
54. Pier Francesco Cecconi – Docente, scuola media “Italo Calvino” di Firenze
55. Maria Carmela Barbato – Docente, Istituto superiore Paolini-Cassiano di Imola (Bo)
56. Filippo Laganà – Docente, Liceo Classico "Gulli e Pennisi" di Acireale (CT)

ALCUNE RIFLESSIONI SULLA SCUOLA ITALIANA (17 dicembre 2005)

1. Una scuola per tutti = una scuola più facile ?


È possibile che una scuola di massa sia anche una scuola seria e rigorosa? Noi pensiamo di sì, e crediamo che sia stata una precisa responsabilità della classe politica italiana nel suo insieme non tanto di non essere stata capace di realizzare questo obbiettivo, quanto di non averlo voluto perseguire. Con le riforme attuate tra gli anni Sessanta e Settanta, la Scuola media unica (1962), la Scuola materna statale (1968), il tempo pieno (1971), fu avviato un mutamento profondo, che ha sostanzialmente garantito l'accesso allo studio dei ragazzi di tutti gli strati sociali. Era certamente indispensabile anche un complessivo ripensamento dei programmi e della didattica, ma non era inevitabile la progressiva, inarrestabile dequalificazione, che la scuola italiana ha subito negli anni successivi. La responsabilità primaria di questa decadenza è certamente della classe politica che ha spesso operato secondo l'equazione scuola per tutti=scuola più facile, mirando essenzialmente all'acquisizione del consenso. Una convergente responsabilità è da attribuire ad una cultura pedagogica (e sociologica) che ha ritenuto coerente con la scolarizzazione di massa l'eliminazione di qualsiasi forma di selezione meritocratica, vista come uno strumento di discriminazione sociale, e ha caricato la scuola di compiti in larga misura impropri, come quello di far fronte a tutte le forme possibili e immaginabili di disagio, individuale e sociale, salvo poi colpevolizzare la scuola stessa, e in particolare gli insegnanti, quando appariva inadeguata allo scopo. Questa cultura, che schematicamente si definisce cattocomunista, consiste in una miscela di paternalismo, spirito missionario, buonismo, egualitarismo acritico, quanto di più lontano insomma da una visione laica e realistica della scuola e dell'individuo, e ha prodotto una visione sostanzialmente assistenziale della scuola, luogo primario di "socializzazione", piuttosto che di crescita culturale e civile e di maturazione dello spirito critico. E, cosa ancora più grave, ha provocato una grave crisi dei ruoli educativi (genitori e insegnanti), tutti e due fortemente indeboliti nella loro capacità di guidare i giovani con la fermezza indispensabile alla loro maturazione emotiva. La giusta critica all'autoritarismo e alla selezione di classe sono degenerate in una svalutazione del merito, dell'impegno, della responsabilità individuale, del rispetto delle regole, dell'idea che in una collettività i comportamenti scorretti comportino una sanzione. Oggi, come è naturale, le originarie motivazioni ideali (o ideologiche) si sono assai attenuate, ma molti aspetti di quella visione si sono profondamente radicati nella scuola e costituiscono il substrato comune alle scelte politiche dei due schieramenti e presente sia nella Riforma Berlinguer che nella Riforma Moratti.Ci riferiamo all'idea di scuola come di un "servizio" da "erogare" in funzione delle esigenze del "cliente-studente"; ad una didattica largamente depurata da difficoltà concettuali e sempre meno finalizzata allo sviluppo di strumenti critici; alla progressiva invasione di tutte le possibili educazioni (alla salute, alla legalità, stradale, sessuale, alimentare, all'uguaglianza, alla diversità...), non di rado proposte da enti e operatori esterni, con l'intento di portare il mondo dentro le aule scolastiche, mentre prendono la fuga ben più rilevanti contenuti disciplinari.Il processo degenerativo si è aggravato con l'introduzione dell'Autonomia scolastica (1997/99), utilizzata quasi esclusivamente per promuovere l'immagine della scuola, proponendo agli studenti-clienti un variegato ventaglio di attività aggiuntive pomeridiane, in gran parte di limitato spessore culturale e formativo (con qualche rara e meritoria eccezione). Così i progetti più discutibili, le associazioni di ogni tipo, gli esperti di qualsiasi argomento, si sono impossessati di una fetta consistente dell'istruzione (e del relativo business). Con la Riforma Moratti la centralità dello studente-cliente e il coinvolgimento delle famiglie nelle scelte didattiche e formative sono entrati nella scuola per legge, secondo una filosofia che è in sostanziale continuità con il percorso che abbiamo tratteggiato.In conclusione: il diritto allo studio, che è anche diritto dei "capaci e meritevoli anche se privi di mezzi....di raggiungere i gradi più alti degli studi" è divenuto diritto al successo formativo, concetto in cui finalmente si azzera qualunque responsabilità dei discenti. Ma un sistema di istruzione dequalificato, ancorché gratuito, sarà di fatto un sistema classista, se non sarà in grado di fornire ai "capaci e meritevoli" gli strumenti culturali e professionali necessari per raggiungere le mete a cui aspirano.


2. "Liberalizzare" la pedadogia e la didattica


È urgente liberare la scuola dall'idea che i docenti si debbano conformare a verità pedagogiche e didattiche imposte dall'alto. Va detto a chiare lettere che negli ultimi decenni si è dispiegata una pervasiva operazione politico-culturale da parte di una potente lobby, che comprende i sindacati confederali, le facoltà di scienze dell'educazione, gli IRRE e che ha ispirato tutti i Ministri della Pubblica Istruzione. Obbiettivo: diffondere capillarmente una pedagogia e una didattica di Stato, trasformando in suoi esecutori i docenti italiani, considerati in maggioranza impreparati e neghittosi. Si è trattato di una vera e propria campagna di rieducazione, che ha finito per creare un autentico regime culturale. Leggi, decreti, ordinanze e circolari hanno riversato sulla scuola orientamenti e prescrizioni di carattere metodologico a cui conformarsi in modo acritico: dall'ossessione programmatoria e valutativa al portfolio, dall'orientamento come chiave di tutto alla mitizzazione della continuità tra i diversi ordini di scuola, dalla svalutazione dei contenuti disciplinari all'informatizzazione come salvezza di una scuola arretrata. Contro questa cappa dirigista e statalista e a favore del libero confronto delle idee e delle esperienze professionali è necessario impegnarsi per una vera e propria "liberalizzazione della didattica". Nella formazione dei futuri docenti, questo significa incardinarla su un ampio confronto fra le più varie impostazioni, senza ortodossie di alcun genere. Nella pratica professionale, va garantita agli insegnanti la più ampia libertà metodologica, come vuole la Costituzione. Quanto all'aggiornamento, va basato essenzialmente sul metodo seminariale tipico del lavoro scientifico-culturale, con l'adeguata valorizzazione delle competenze interne alle scuole, in alternativa all' invasione di esperti esterni. Nella legislazione scolastica, infine, si dovrà sempre fare la massima attenzione a non interferire nella sfera delle scelte di metodo, che spettano ai singoli docenti, così come spetta al medico scegliere le terapie appropriate.


3. Liberare la professionalità dei docenti


Accanto ai provvedimenti per garantire la necessaria libertà nella scuola, che certo non significa rifiuto di ogni limite e controllo, sono indispensabili quelli - in un certo senso complementari - relativi a una compiuta "professionalizzazione" del corpo docente. Come per le altre categorie di professionisti, proprio in un'autentica autonomia professionale si radica il diritto-dovere di partecipare sia all'elaborazione dei principi etico-deontologici a cui ispirarsi nel proprio lavoro, sia di essere consultati come categoria professionale in merito alle politiche scolastiche al di fuori delle logiche puramente sindacali fin qui dominanti. In questa direzione sarebbe importante rilanciare l'idea di un organismo tecnico come quello ipotizzato da alcune associazioni professionali (con il nome di Consiglio Superiore della Docenza) e già proposto in due progetti di legge sullo Stato giuridico presentati in questa legislatura, lasciandosi alle spalle lo sclerotico Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, fondato sulla cosiddetta "partecipazione democratica" (associazioni di genitori, sindacati confederali, enti vari e via dicendo). Per quanto riguarda la valutazione dei docenti, infine, anziché avventurarsi sul terreno impraticabile delle distinzioni di merito (e di stipendio) a parità di lavoro, come tentò di fare Berlinguer con il "concorsaccio", si dovrà alla fine arrivare a definire, questo sì, il demerito: e cioè quali comportamenti costituiscano gravi inadempienze o inadeguatezze sul piano professionale e quali provvedimenti - più seri e tempestivi di quelli attuali - esse dovrebbero comportare.


4. I "due canali" della Riforma Moratti: una discriminazione classista?


Come è noto, nella Riforma Moratti il Secondo ciclo, cioè la scuola superiore, è costituito da un sistema dei licei e da un sistema di istruzione e formazione professionale, definiti "di pari dignità". È l'aspetto più aspramente contestato dal centro-sinistra, par di capire senza significative eccezioni, che vede in questa "canalizzazione precoce" una separazione di natura classista tra "ricchi", destinati agli studi e "poveri", destinati ineluttabilmente al lavoro, come quella realizzata da Gentile con il Ginnasio e l'Avviamento. Conseguentemente il centro-sinistra pare orientato a proporre un primo biennio unico per tutti, per consentire, si dice, ai ragazzi che escono dalla scuola media e alle loro famiglie una scelta più meditata e consapevole del successivo indirizzo di studi. Questa posizione a noi pare esclusivamente dettata dal pregiudizio ideologico che contrappone la cultura disinteressata a quella finalizzata all'ingresso nel mercato del lavoro, con una evidente (e molto dannosa) svalutazione della seconda a favore della prima, vista come l'unico possibile strumento di compensazione delle disuguaglianze culturali e sociali.In ogni caso, agli occhi degli insegnanti che guardino alla propria quotidiana esperienza professionale senza le lenti deformanti dell'ideologia e della polemica politica, questa posizione appare astratta e foriera di ulteriori danni per il sistema scolastico e per tutti i suoi "utenti". È sensato ritenere che i ragazzi per i quali durante la scuola media è stato problematico, o addirittura impossibile, persino entrare nell'esperienza dello studio, possano trarre giovamento dal frequentare un biennio in buona parte comune a tutti gli indirizzi di studio? O non ne verranno aggravate inevitabilmente le loro difficoltà, procurandogli ulteriori frustrazioni e il definitivo rifiuto della scuola? Non sarebbe invece più ragionevole e realistico pensare al sistema di istruzione professionale, piuttosto che come a una bolgia di dannati, come a una chance per tanti ragazzi, come una possibilità di valorizzare altre attitudini e interessi, di ripartire seguendo un percorso magari più personale e gratificante? Non si rischia anche inoltre di soffocare lo sviluppo di una vocazione professionale e di ritardare inutilmente l'inserimento nel mondo del lavoro? Sostiene a questo proposito Giorgio Allulli, dirigente dell'ISFOL, sul sito di "Tuttoscuola":


"Riproponendo il biennio scolastico a 16 anni si ripropone una soluzione rigida, ignorando tutto il dibattito pedagogico, italiano ed internazionale (vedi l'ultimo numero di Le Monde de l'education) su come rispondere alle necessità di coloro che apprendono secondo stili cognitivi diversi, partendo dalla pratica per arrivare alla conoscenza teorica attraverso la riflessione sulla pratica, e dunque attraverso un processo di apprendimento circolare. Il rischio è quello di perdere i giovani per strada, o di trattenerli fino a 16 anni dentro le aule scolastiche, pluriripetenti esausti e pronti alla fuga da qualsiasi ulteriore proposta formativa."


Del resto, si può seriamente classificare come una scuola "di serie B" quella che è in grado di fornire adeguati strumenti tecnici e concettuali per progettare e realizzare un gioiello, un manifesto pubblicitario, un circuito elettrico o un software?A sostegno del "biennio unico" viene addotto l'orientamento maggioritario dell'Europa in questo senso; si dà il caso, però, che negli ultimi anni si registri invece una chiara inversione di tendenza in senso opposto sulla base di risultati non positivi. Scrive Luigi Binanti: [1]


"In Spagna, nel dicembre 2002, è stata approvata una legge che abbassa tale scelta a quattordici anni; in Francia è ormai messo in discussione il College unique (il percorso scolastico uguale per tutti dai quattordici ai sedici anni) che doveva assicurare la diffusione dell'istruzione e che invece, ogni anno, registra tassi di abbandono scolastico che toccano il 30% degli allievi; nel Regno Unito si tende a modificare l'ordinamento che prevede fino a sedici anni un percorso didattico identico per tutti gli studenti".

Risulta invece assai positiva l'esperienza della provincia autonoma di Trento [2], che ha ridotto drasticamente l'abbandono scolastico (8% contro il 20-25% nazionale) proprio costruendo un sistema a "due gambe" analogo a quello varato dalla riforma Moratti, . Quello che si deve soprattutto chiedere è che anche il sistema dell'istruzione e formazione professionale sia di qualità elevata, cioè che la "pari dignità" dei due canali sia effettiva e non solo proclamata. In conclusione ci pare che, al termine del primo ciclo, la possibilità di esercitare una libera scelta sia, come sempre, da preferire all'imposizione di un modello unico, con cui si coltiva solo l'illusione di generare per decreto condizioni di maggiore uguaglianza.


Sergio Casprini, Andrea Ragazzini, Giorgio Ragazzini, Valerio Vagnoli


(Già pubblicato su "Fuoriregistro" il 3 marzo 2006)


NOTE:
[1] cfr. Luigino Binanti, L'orientamento tra scuola e lavoro, in "RES. Cose d'oggi a scuola", n. 27 del settembre 2004, pp. 44-46)
[2] Cfr. Giorgio Allulli su "Tuttoscuola.it" (Risposta a Maurizio Tirittico): "Oggi Trento, grazie anche alla presenza di un solido canale di formazione professionale, porta il 92% dei giovani a conseguire la qualifica o il diploma





martedì 6 maggio 2008

Relazione introduttiva al convegno "MERITO E LEGALITA' NELLA SCUOLA ITALIANA" (4 maggio 2007)

di Giorgio Ragazzini

Intitolando questo convegno “Merito e legalità nella scuola italiana” abbiamo voluto sottolineare l’urgenza di una politica di riconoscimento del merito, che valorizzi i tanti studenti e i tanti docenti che lavorano seriamente, con senso di responsabilità, e tuteli così il diritto di apprendere e quello di insegnare in un ambiente sereno. Questo non può che avvenire stabilendo e facendo rispettare regole chiare a tutti i soggetti interessati.
Purtroppo la scuola mortifica spesso il merito. E lo fa tutte le volte che mette sullo stesso piano lo studente che s’impegna e quello che non s’impegna; chi si comporta correttamente e chi no; chi arriva puntuale e chi spesso in ritardo; chi frequenta regolarmente e chi fa molte assenze; e naturalmente, il merito è mortificato quando chi non ha studiato viene promosso esattamente come chi ha lavorato. E tutto questo, si capisce, mortifica a sua volta la qualità complessiva dell’istruzione, incidendo di certo non poco sui nostri modesti risultati nelle indagini Ocse.
Al terzo comma dell’articolo 34, la Costituzione dice: “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Dice proprio così: non “Tutti”, ma “I capaci e meritevoli”. Ciò non significa che la scuola, divenuta scuola di massa, possa non dedicare attenzione, cura e aiuto a chi è in difficoltà. Anzi, ne ha il dovere. Ma ha anche il dovere di promuovere chi non fa nulla?
È vero che le dinamiche psicologiche che portano un ragazzo a “andar male a scuola” sono complesse. Questa consapevolezza è fondamentale per elaborare strategie didattiche. Ma sarebbe una pessima teoria educativa quella che mettesse gli adulti nella condizione di non poter richiamare un figlio o un allievo alle sue responsabilità.
Se applichiamo ai docenti la categoria del merito, naturalmente ci imbattiamo nello spinoso e controverso problema della “valutazione”.
Il primo, decisivo momento di valutazione è quello dell’accesso alla professione, che dovrebbe essere selettivo non solo a livello culturale e metodologico, ma anche su quello psicologico-relazionale.
In attesa di forme più affidabili di reclutamento, ma sapendo che anche il miglior sistema può avere qualche... maglia troppo larga, non possiamo scantonare di fronte a un problema delicato, che riguarda un’esigua minoranza di docenti, ma che, quando si manifesta, danneggia fortemente la credibilità della scuola, oltre che i ragazzi direttamente interessati. Mi riferisco alla necessità di poter prendere efficaci e tempestivi provvedimenti in tutti i casi in cui un docente si riveli chiaramente inadeguato o inadempiente; con le dovute garanzie, che però non devono come oggi essere tali da rendere impossibile la soluzione del problema; né è decoroso spostarlo, questo problema, da una scuola a un’altra. È la questione del cosiddetto “demerito”. Un caso esemplare ce lo ha fatto conoscere l’articolo Fannulloni, il caso del professor M., pubblicato nell’ottobre scorso sul “Corriere della Sera”, in cui il professor Ichino racconta e commenta la vicenda di un docente assenteista e nullafacente che resta tranquillamente al suo posto, a dispetto di una norma che ne consentirebbe il licenziamento.
Solo un cenno a un terzo momento in cui in futuro si renderà necessaria una valutazione competente e affidabile, quello dell’accesso a quei nuovi ruoli specializzati che appaiono sempre più necessari al buon funzionamento delle scuole: insegnanti che si occupino di aggiornamento e di ricerca didattica, di formazione dei nuovi docenti, di progettazione di piani di studio.
Invece, non mi convince affatto l’idea che la qualità del lavoro di un docente possa essere valutata misurando i progressi dei suoi allievi, per via del gran numero di fattori che entrano in gioco nel processo di apprendimento. Francamente penso che per la scuola italiana una reale selezione in entrata e la possibilità di intervenire nei casi di palese insufficienza professionale costituirebbero di già una notevolissima spinta verso l’alto del livello medio dei docenti.
Come abbiamo visto, parlando di merito siamo già entrati più volte nel campo (o nella selva) della normativa: leggi, regolamenti, circolari. I due temi che danno il titolo al nostro incontro ci si mostrano subito come facce di uno stesso problema.
E per diversi aspetti la scuola si presta a essere analizzata come capitolo del voluminoso dossier intitolato dai radicali “Caso Italia”, il caso cioè di un paese in cui le norme vigenti sono spesso ridotte a puro e semplice richiamo o consiglio, e che, nella graduatoria di Transparency International, quanto a legalità è appena un gradino sopra a quello della Nigeria e l'ultimo in Europa.
C’è – abbiamo visto – chi non fa nulla senza conseguenze; ma un problema anche più grave, perché molto più diffuso, ma di cui pochissimo si parla, riguarda il momento delle valutazioni finali e degli esami, quando si deve tra l’altro decidere se promuovere o meno. È evidente di quale interesse sia per la collettività una valutazione che si sforzi di essere equa e obbiettiva, e quindi affidabile. Purtroppo molti colleghi – che quali rappresentanti della Pubblica Amministrazione sarebbero tenuti a informare il loro operato ai principi di correttezza ed imparzialità – sono stati indotti a credere di essere titolari, come Consiglio di classe, di un potere praticamente assoluto, che consente di trasformare i 4 e i 5 in false sufficienze, purché venga appena enunciata a favore dell’allievo una qualsiasi pseudomotivazione di natura psicologica, familiare o sociale. Da notare che, mentre per la mancata ammissione a un esame o alla classe successiva viene in genere richiesta una serie di motivazioni e l’elenco di quanto fatto per prevenire questo esito, una promozione, invece, per quanto immeritata, è sempre la benvenuta.
In questo quadro ha il suo rilievo anche la quasi totale assenza, nella scuola italiana, di una cultura professionale analoga quella di altri paesi e quindi anche di un’etica professionale discussa e condivisa. Che io sappia, l’’Adi è stata la prima associazione professionale ad approvare un proprio codice etico-deontologico. Ma i sindacati della scuola hanno sempre rifiutato pervicacemente di riconoscere ai docenti norme e istituti di cui godono da tempo altre professioni.
Altra falla della “legalità” scolastica: quella che riguarda la “condotta”, il tabù di cui parlerà, nell’audiovideo in programma, Mario Pirani (tanto tabù che non credo sia mai stata tema di aggiornamento). Un tempo col sette in condotta si andava a settembre in tutte le materie. Non so quante volte si sia concretizzata questa possibilità; certo il messaggio era chiaro: per la scuola, e quindi per la società, il sapersi comportare (sufficientemente) bene era altrettanto importante del “profitto”. Nel 1998, con l’ultragarantista Statuto degli Studenti e delle Studentesse, la pedagogia falsamente progressista e il suo massimo referente politico, il Ministro Berlinguer, hanno creduto di far progredire la scuola eliminando ogni legame tra comportamento e valutazione, oltre a rendere più difficili da prendere i provvedimenti disciplinari. Anche per questo, i molti e strombazzati progetti di ”educazione alla legalità” convivono spesso con uno scarsissimo rispetto del regolamento d’istituto, in altre parole della “legalità” interna. Come ha scritto nei giorni scorsi Ernesto Galli Della Loggia, l’Italia democratica “può cercare di insegnare l'educazione civica a scuola, ma nello stesso momento in cui lo fa mostra pateticamente quanto lei per prima creda poco ai suoi precetti, non riuscendo a impedire in quella stessa scuola il venir meno di ogni norma di condotta, lo scatenarsi della più generale indisciplina.”
Ricordo che il “documento Bertagna”, ispiratore della riforma Moratti, la quale però se ne allontanò in più punti, tra le “leve” per innalzare la qualità complessiva del sistema annoverava proprio il ripristino di quel nesso, sostenendo che “i cosiddetti debiti formativi ... riguardano non solo il profitto, ma anche, a pari peso, il comportamento dei soggetti (la tradizionale condotta)”. Ma purtroppo non se n’è fatto di nulla. La condotta è sì valutata, ma senza alcuna conseguenza pratica.
Non c’è da stupirsi quindi che in questi mesi la cronaca abbia registrato episodi di bullismo, di offesa e anche di aggressione impunita nei confronti dei professori, episodi che sono la manifestazione più vistosa di un malessere generale. E se il mancato rispetto delle regole basilari della convivenza civile supera il livello fisiologico, è ovvio che l’apprendimento diventa problematico e faticoso quando non impossibile. Di nuovo, non mi risulta che nel valutare i risultati delle indagini internazionali sui sistemi scolastici, sia stato messo nel conto il condizionamento del quadro culturale e psicologico in cui si opera. Mi spiego: ci dovrebbe essere una bella differenza tra insegnare in Giappone o in Corea – dove la scuola (severissima) è quasi sacra ed è rispettata di conseguenza – e farlo da noi, dove sembra invece aver perso drasticamente credito e prestigio.
Indubbiamente è diventato molto più complicato percepire con chiarezza la scuola come strumento di promozione sociale, di costruzione del futuro, come avveniva anche solo quarant’anni fa.
Ma questo non spiega tutto. Secondo me non si capisce un granché del dramma della scuola, se non la si inquadra in una vera e propria crisi dell’educazione nelle società avanzate, come ormai risulta da un’ampia saggistica. Il punto è che educare, cioè fare il genitore, ma anche fare l’insegnante, per molti motivi di carattere culturale e sociale è diventato in questi decenni più difficile. Ma se è così, allora è ovvio che i problemi della scuola non si affrontano soltanto con nuove metodologie, con la multimedialità, con le riforme dei programmi. C’è bisogno prima di tutto di una teoria e di una pratica educativa basate sulle necessità effettive (non immaginarie) dello sviluppo psichico: per esempio, l’accettazione del principio di realtà, l’indispensabilità di regole e confini, la necessità di una guida capace di fermezza.
L’ondata antiautoritaria che ha investito l’occidente è stata per molti aspetti necessaria e positiva; ma è altrettanto vero che è mancata una successiva rielaborazione che ne convalidasse le conquiste essenziali, liberandole però dagli eccessi e dalle sciocchezze che hanno accompagnato questo “terremoto” socio-culturale. I personaggi che si muovono oggi sulla scena educativa sono il bambino “tiranno”, il genitore debole e a volte impotente, l’insegnate smarrito e privo di convinzione. Da una decina d’anni è in corso un ripensamento, sempre meno minoritario, ad opera soprattutto di psicoterapeuti (tra cui il dott. Poli), alle prese con i tanti genitori in crisi. Ogni tanto compaiono anche articoli e copertine sul “no” nell’educazione (ricordo anche una divertente sequenza in Caro diario di Moretti); ma risalire la china è tanto indispensabile quanto faticoso.
Per la verità alcune voci – isolate – si erano levate per tempo. Particolarmente lucida, già nel 1971, quella del grande etologo Konrad Lorenz: “A causa del principio educativo della ‘non frustrazione’, migliaia di bambini sono diventati dei nevrotici infelici. Il bambino che vive in un gruppo privo di struttura gerarchica si trova in una situazione del tutto innaturale. [...] L’assenza di un ‘superiore’ più forte dà al bambino la sensazione di essere indifeso in un mondo ostile, sensazione giustificata in quanto i bambini ‘non frustrati’ non piacciono a nessuno. Quando, in stato di comprensibile irritazione, egli cerca di provocare i genitori e di attirare su di sé la loro collera, [...] il bambino non incontra la risposta aggressiva che istintivamente attende e in cui inconsciamente spera, ma urta contro il muro di gomma delle frasi pacate e pseudo-razionali. Nessuno si identifica con un essere debole e sottomesso, nessuno è disposto a farsi prescrivere da lui le norme del comportamento.”
Fatto sta che a scuola, in molte famiglie e in tante pieghe della società (e non solo delle istituzioni), assistiamo a una vastissima abdicazione rispetto alle proprie responsabilità, a una rinuncia all’“auctoritas” (etimologicamente “il potere di far crescere”) con danni serissimi alle nuove generazioni: genitori, insegnanti, autorità di ogni tipo fuggono a gambe levate di fronte a ogni provvedimento anche solo vagamente sgradevole e impopolare.
Utilizzando un’efficace metafora informatica del dottor Poli, si può dire che i “virus” del buonismo, del giustificazionismo, dello psicologismo, diffusi a piene mani per decenni nella società e nella scuola italiana, hanno danneggiato il “software educativo” dei genitori quanto quello di tanti docenti preparati e anche appassionati. Si trovano insegnanti “virati” di qualsiasi livello professionale.
Il catalogo dei virus offre una vasta scelta: “La bocciatura è sempre un fallimento della scuola” (potentissimo, si collega a un delirio di onnipotenza e azzera la responsabilità dell’allievo); “Ogni ragazzo è un caso a sé” (efficace formula con la quale molti insegnanti ribattono a chi rileva che è ingiusto verso chi ha studiato promuovere chi non lo merita); “Son ragazzi!” con la variante “Siamo stati ragazzi anche noi...” (ottimo per passar sopra a imprese vandaliche di ogni tipo); “Eh, ha dei problemi familiari” (diffusissimo e quasi infallibile, è utilizzato anche da alcuni psicologi delle Asl che si trasformano in avvocati difensori).
Oltre ai fattori di crisi che accomunano molti sistemi scolastici avanzati e agli strascichi della stagione antiautoritaria a cui ho già accennato, va anche ricordato un evento che riguarda, direi esclusivamente, la storia della scuola italiana.
Proprio quarant’anni fa, nel giugno del 1967, usciva un libro memorabile: Lettera a una professoressa di Don Lorenzo Milani, che accusava in modo documentato di classismo la scuola italiana e proponeva di abolire la bocciatura nella scuola dell’obbligo, (anche se stranamente il libro nasceva dalla bocciatura di due allievi di Don Milani da parte dell’Istituto magistrale Pascoli).
L’idea di rivolgersi direttamente a una professoressa “cattiva” risultò estremamente efficace, anche per la grande forza della scrittura milaniana. L’influenza della Lettera sull’evoluzione successiva della scuola italiana è stata enorme. La presa di coscienza di quanto l’ambiente familiare e sociale potesse costituire un grave handicap per molti ragazzi era senza dubbio doverosa. Altrettanto incontestabili sono state la colpevolizzazione e il discredito che questo pamphlet ha contribuito a gettare per decenni sugli insegnanti, come agenti della selezione di classe, da tenere a bada e mettere in condizioni di non nuocere. E magari da rieducare con opportune campagne di aggiornamento. E perché non nuocessero sono stati inseriti nel sistema i virus di cui sopra e creati due tabù: la bocciatura e la sanzione disciplinare. Si può ben dire, infatti, che di don Milani trasfuso nella scuola pubblica dal donmilanismo è alla fine rimasto soprattutto il comandamento del non bocciare, spesso completamente scorporato da serietà, rigore, richiesta di impegno.
Eppure don Lorenzo, maestro severo ed esigentissimo, che faceva scuola ai ragazzi per 365 giorni all’anno contro i duecento di oggi, sulla necessità di una guida ferma e forte aveva scritto a un professore di una media statale: “Vi siete forse illusi di poter fare una scuola democratica? È un errore. La scuola deve essere monarchica assolutista e è democratica solo nel fine, cioè solo in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia”.
Che fare per invertire la rotta? Il problema si pone sui due livelli, distinti ma connessi, quello educativo e quello politico.
Un obbiettivo è quello di riequilibrare la cultura educativa, e naturalmente un grande ruolo ce l’hanno gli addetti ai lavori, soprattutto gli psicologi e gli psicoterapeuti con la loro opera di divulgazione. L’essenziale sta nell’aiutare gli adulti ad assumersi, nell’interesse dei ragazzi, il ruolo di guida disponibile e affettuosa, sì, ma anche ferma quando occorre, nelle forme opportune per ciascuna età. A quanto ho letto non è mai troppo presto per cominciare a integrare la funzione protettiva con quella dell’allenamento ad affrontare la realtà e a seguire delle regole. Addirittura c’è chi, come il noto pediatra francese Aldo Naouri, ritiene che si debba tornare a un’alimentazione del neonato a ore relativamente fisse, in quantità fisse, e non più in base alla sua richiesta e senza limiti nelle dosi.
Per declinare in termini politici questi temi, i partiti, il Parlamento, i Governi devono essere guidati da una maggiore consapevolezza del problema educativo nei suoi termini reali, superando cioè quella mielosa visione puerocentrica e giovanilistica che ha fatto già troppi danni. Per capire la posta in gioco basta questa riflessione: dove mai si formano, se non soprattutto nella famiglia e nella scuola, quel famoso senso civico di cui tutti lamentano l’insufficienza e quel rispetto della legalità che è alla base della libertà e della democrazia?
Dicendo questo – e mi avvio a concludere – mi sento pienamente all’interno della cultura politica radicale e allo stesso tempo in sintonia con persone di varia appartenenza politica, e tra queste parecchi genitori e docenti. Per questo sono convinto della necessità e anche della possibilità di promuovere uno schieramento trasversale per la rinascita della scuola – qualcosa che nel metodo ricordi la LID, la Lega Italiana per il Divorzio – che sappia sfidare i tabù e i luoghi comuni che su questi temi si sono venuti accumulando, soprattutto, ma non solo, a sinistra.
Intanto vanno colti con speranza i molti riferimenti al merito (anche nella scuola) che si sono sentiti in tanti interventi recenti di uomini politici. Nel congresso della Margherita ho addirittura ascoltato il deputato Roberto Giachetti (già militante radicale) sottolineare l’importanza di “recuperare nella scuola i concetti di autorità e disciplina”. E poi c’è la grande esperienza innovatrice di Tony Blair a cui guardare anche sotto questo profilo. Anche combattendo i comportamenti antisociali e puntando nella scuola sul rispetto delle regole, ha saputo rinnovare la sinistra proprio criticandone i molti riflessi conservatori e perbenisti. Questo per la “prospettiva strategica”.
Quanto agli obbiettivi specifici, un’agenda politica per la scuola che voglia tenere conto di queste priorità dovrà comprendere, quanto meno, nuove regole per garantire valutazioni finali eque e affidabili, fondate sui risultati effettivi. La valutazione della condotta dovrà pesare sul risultato complessivo, sia in senso positivo (per esempio con una maggiorazione del credito scolastico all’esame di Stato, per chi si è comportato bene), che negativo, fino ad arrivare, nei casi più gravi, a far ripetere l’anno. Dovrà essere quindi rivisto lo Statuto degli Studenti, anche per fare in modo che non tuteli di fatto chi si comporta male. Come si è detto, è necessaria poi una riforma dello stato giuridico dei docenti, inclusiva di norme sul reclutamento, sulle nuove specializzazioni dei docenti e sul demerito professionale. Mi auguro poi che i docenti italiani siano chiamati a darsi un codice deontologico e che l’associazionismo professionale, in genere favorevole a valorizzare il merito, abbia la forza di ridimensionare il sindacalismo conservatore che prevale nella scuola.
Con queste sommarie indicazioni, che spero altri potranno integrare, ho esaurito il mio compito e vi ringrazio per l’attenzione.
Il Convegno fu organizzato dall'Associazione per l’iniziativa radicale “Andrea Tamburi” con Radicali Italiani

lunedì 5 maggio 2008

SCUOLA: IL TABÙ DELLA CONDOTTA di Valerio Vagnoli (30 gennaio 2007)

“I ragazzi ci vogliono più seri”
(Ugo Pastore, magistrato
della Procura dei minori di Ancona,
“La Repubblica” del 27/1/ 2007)

Qualcosa di più di un sospetto ci porta a credere che parlare, a proposito della scuola, del problema della condotta[1], sia visto da molti come cosa da passatisti o qualcosa di simile. Una delle principali responsabili di tutto ciò è gran parte della sinistra, che ha sempre evitato di misurarsi con questo aspetto della formazione ed è stata abbondantemente appagata dalla scelta di Berlinguer di non riconoscere alcun valore alla condotta.
Probabilmente reminiscenze antideamicisiane continuano a codificare quanto il fanciullo buono e bravo a scuola sia quella sorta di mezzo idiota spazzato via, almeno spera qualcuno, dal ribellismo rivoluzionario e casereccio sessantottino.
È probabile che siano ancora in molti a pensare che, nel bene e nel male, la condotta sia uno dei falsi problemi della scuola italiana, una sorta di rimasuglio stantio e rancido della scuola del tempo che fu e che occuparsene significhi collocarsi e sentirsi collocati tra vecchie maestre e signorine felicite, tra moralisti e liberticidi del libero sviluppo della crescita adolescenziale, che tanto deve aver turbato il formarsi del pensiero critico degli eterni ribelli, sempre a tiro per le battaglie contro le forze ciniche che maciullano i diritti dei ragazzi prigionieri del potere, delle regole, dei voti, dei docenti e, naturalmente, del sistema.
Nella mia esperienza d’insegnamento, durata una decina di anni, negli istituti di pena e rieducazione minorile di Firenze ho sempre colto, da parte dei ragazzi, l’esigenza di trovare soprattutto nella scuola punti di riferimento e regole che avessero per loro un significato ben identificabile e che rispondessero, come accadeva frequentemente, alle loro provocazioni tese quasi sempre a misurare nell’educatore la sua capacità di dimostrarsi un punto fermo in grado di rassicurare la loro vita disorientata. Una vita disorientata che, pur passata da esperienze devastanti, tale era rimasta: alla faccia del pensiero piccoloborghesealternativo che amava e ama tanto la formazione spontanea e, come affermano molti pedagogisti, “esperienziale”, che non distingue però i viaggi di “formazione” a Londra dal dramma di coloro che crescono al di fuori di qualsiasi modello formativo e che t’implorano, anche in maniera diretta, di regalarglielo un benedetto modello!
Oggi, nella realtà di moltissime scuole italiane si trovano decine di migliaia di studenti che presentano dinamiche, vuoti educativi e sociali pari a quelli dei loro coetanei che, negli anni settanta, espiavano, però a centinaia, nei riformatori e nei carceri minorili i loro svantaggi, le loro difficoltà e i loro disagi. A differenza di quei miei ragazzi di allora, quelli di oggi spesso non hanno una benché minima attesa dalla vita. Spalleggiati frequentemente da genitori iperprotettivi, qualunquisti e fascisti, di quel fascismo nuovo paventato lucidamente da Pasolini, vedono confermata la legittimità del loro inconsapevole nichilismo anche dalla stessa scuola, che ha paura a sanzionarli e, nello stesso tempo, a premiare coloro che si comportano in modo tale da essere valorizzati e distinti dagli altri.
Ma è possibile che si possano disprezzare a tal punto i ragazzi di questa nostra epoca, obbligandoli a seguire anni di attività scolastica dove le regole sono sempre più assenti?
Ma è possibile non capire che qualsiasi persona riterrebbe inutile, o disprezzerebbe, qualunque attività priva di regole? Eppure per capirlo non occorre aver leggiucchiato qualche paginetta di prontuario di psicologia: è sufficiente aver fatto una partita a carte tra amici, per rendersi conto che il gioco non esiste se privo di regole e che tutto salta maledettamente in aria anche se un solo giocatore non si immedesima nel gioco stesso, non rispetta le regole e si distrae continuamente!
Immaginate milioni di giovani costretti a frequentare una scuola che, per prima, non si prende sul serio, una scuola che rinunciando a qualsiasi regola si accontenta di vivacchiare, perché della sua efficienza non interessa a nessuno, né ai genitori né tanto meno ai politici, e capirete quante energie umane e quanti soldi vanno sprecati!
Purtroppo è questo tipo di scuola che va sempre più determinandosi nel nostro paese anche in virtù, è giusto riconoscerlo, di responsabilità oggettive della classe docente che, priva oramai di una propria identità, non ha avuto la forza e la motivazione per contrastare questa deriva populista, partita innanzitutto da chi ha ricoperto le più svariate responsabilità sul piano della politica scolastica e che ha fatto dell’ignavia un progetto di vita mascherandolo, ipocritamente, come educazione alla libertà e al rispetto degli individui.
È senz’altro vero che non si educa solo con le sanzioni, ma è altrettanto vero che queste debbano esservi: non penso ovviamente agli isterici schiaffi che don Milani-Savonarola sventolava ai suoi ragazzi qualora avessero osato trovare, in quello che facevano, anche la minima occasione per divertirsi; penso, invece, a quelle strategie educative che distinguano e valorizzino chi, con il suo comportamento, rispetta i diritti degli altri e lavora nella consapevolezza che il proprio impegno è la miglior garanzia per una società più giusta e meno sottomessa ai soprusi dei più forti, degli arroganti, dei violenti che, se trattati alla pari degli altri, si sentiranno autorizzati a codificare una visione del mondo sempre più brutale, egoistica e, appunto, fascista.


[1] Probabilmente molti ignorano che il voto di condotta valuta l’interesse, la partecipazione e il comportamento che lo studente dimostra nella sua esperienza scolastica e formativa.
(Pubblicato su "Notizie Radicali" il 12 febbraio 2007)