martedì 20 gennaio 2009

SULLA "SELEZIONE" DEGLI INSEGNANTI

Pubblichiamo la lettera della collega Giulia Biti, che fa seguito alle dichiarazioni sulla scuola di Michelle Hunziker, da noi riportate ieri.


Leggo oggi sul blog le dichiarazioni della Hunziker.
La selezione del personale docente è indubbiamente una conditio sine qua non, e non intendo mettere in discussione questo punto. Mi chiedo però se sia davvero così opportuno porvi l'accento in maniera così enfatica, come se tutti i mali della scuola gravassero effettivamente sulle spalle del solo insegnante: un elemento fondamentale, ma nel contempo soltanto parte di un sistema – il sistema educativo, appunto – estremamente complesso e non sempre così semplice da vivere e da gestire.
Inoltre, cosa intendiamo realmente per selezione?
Ce lo chiediamo (anche piuttosto indignati) sia io che molti miei giovani colleghi, usciti dai celebri corsi abilitanti, noti come SSIS che – si noti bene – sono lunghe specializzazioni rigorosamente post-accademiche.
Volendo fare un esempio pratico sulla base non soltanto della mia esperienza, ma di numerosi coetanei insegnanti o aspiranti tali, riassumo brevemente l'iter formativo a monte della tanto auspicata selezione.
La SSIS è un percorso biennale a frequenza obbligatoria, a cui si accede per concorso pubblico e che prevede una serie piuttosto articolata di insegnamenti tra l'area disciplinare d'interesse, l'area delle scienze umane (psicologia, pedagogia, didattica, etc...) e il tirocinio. Ora, volendo prescindere da fondate, quanto purtroppo sterili polemiche sulla validità di tali insegnamenti (parecchi precetti della cosiddetta area trasversale sono né più né meno che norme di comune buonsenso – su cui però sono stati scritti fiumi d'inchiostro! E il settore disciplinare in certi casi si limita a una rielaborazione artificiosa di contenuti noti a una persona laureata), sta di fatto che ci sono numerosi esami da preparare, sotto forma di elaborati scritti e di verifiche orali, su ciascun fronte, compreso il tirocinio e per entrambi gli anni. Le ore di tirocinio previste sono 290 per l'intero biennio, il che assommato all'obbligo di frequenza (anche fuori sede), comporta comunque una buona dose d'impegno e costituisce di per sé un discreto criterio selettivo. Dunque oltre al concorso d'ingresso, agli esami e alla pratica in itinere, ci sarebbe anche l'esame di stato finale che si basa sui trascorsi SSIS e sulla performance in loco del candidato......
Per "diventare" insegnanti di sostegno occorre passare necessariamente per il biennio SSIS ed essere abilitati, poi si concorre per titoli a un ulteriore anno di specializzazione "ad hoc". E in questo caso la frequenza alle lezioni è quotidiana (in Toscana non si sono risparmiati neanche con il sabato e – non scherzo! – la domenica), con l'aggiunta di altre 100 ore di tirocinio. Durante l'anno si effettuano questionari-esami sulle singole discipline (dalla didattica speciale delle discipline alla pedagogia della marginalità alla neuropsichiatria, etc....) per culminare con la discussione di una tesi finale.
Ammettendo di dedicarsi anche al sostegno, un docente ha già sulle spalle quasi 400 ore di pratica scolastica, delle quali le ultime 100 particolarmente dure e intense, anche perché, oltre alla difficoltà oggettiva del contesto, in qualità di docenti abilitati si ha maggiore libertà d'azione e autonomia. E non mi soffermo a quantificare l'enormità di tempo dedicato a frequentare lezioni, produrre elaborati, tesi e relazioni....
Al di là degli immaginabili disagi e sacrifici che questo processo di selezione possa creare, io riterrei opportuno sottolineare che le persone che si sono cimentate in questo percorso, e che addirittura scelgono di proseguirlo, possano essere definite almeno potenzialmente "insegnanti selezionati". Non fosse altro che per la motivazione, la pertinacia e la voglia di fare che sinceramente ho avuto modo di riscontrare in tante altre esperienze parallele alla mia. Senza nulla togliere al valore - e penso a un recente articolo di Casprini - dell'esperienza sul campo, all'amore per la propria disciplina e il proprio mestiere. Posso assicurare che la maggior parte dei neo-insegnanti, se non avesse amato ciò che aveva precedentemente studiato e la prospettiva di insegnare, avrebbe smesso questa assurda "corsa ad ostacoli" che rappresenta un'evidente selezione (basti lo sfinimento!), specie in tempi così avari di rosee prospettive.
In definitiva il concetto di selezione andrebbe affrontato con maggior consapevolezza, perché è davvero semplice banalizzare; e dopo anni di "preparazione" al "mestiere dell'insegnante", garantisco che non è particolarmente gradevole incorrere sempre nei soliti luoghi comuni. Tra l'altro se per selezione s'intende un controllo sul lavoro degli insegnanti saremmo in molti ad approvare. Direi anzi che allo stato attuale delle cose sarebbe forse meglio parlare di "controllo" o di "selezione derivante da controllo". E su questo punto, anche se da prospettive diverse, si potrebbe forse affermare che la vediamo allo stesso modo.
Mi scuso per essermi dilungata e per essermi permessa di esprimere un'opinione, ma questo argomento sta particolarmente a cuore a me e agli insegnanti che in questi ultimi anni hanno fatto le mie stesse scelte.

Giulia Biti

domenica 11 gennaio 2009

LA DIRIGENZA SCOLASTICA TRA INNOVAZIONI E CONFERME

di Valerio Vagnoli

Con l’autonomia delle scuole, come sappiamo, la figura del preside ha preso nuove connotazioni, a partire dal nome che oggi dovrebbe essere quello di Dirigente scolastico.
Allo stesso modo dell’abito che non fa il monaco, questa nuova definizione appare fuorviante anche perché si dovrebbe adattare ad una scuola del tutto autonoma che, per fortuna o purtroppo - come cantava Giorgio Gaber rispetto al sentirsi italiano - è ancora lontana dal realizzarsi.
Di fatto si è creata una autonomia parziale che finisce col responsabilizzare enormemente i presidi, senza però dare loro gli strumenti per gestire autonomamente e con piena responsabilità la vita della scuola.
Mi spiego meglio. Rispetto al passato le incombenze dei dirigenti scolastici (citerò, non a caso, ora l’una ora l’altra definizione) sono aumentate in modo quasi esponenziale, senza però che siano stati dati loro gli strumenti per poterle gestire, come si addice ad una scuola sempre più anche azienda e che in molti casi può coinvolgere oltre 1000 studenti, centinaia di adulti fra docenti e personale ATA e migliaia di genitori.
Oggi, ad un preside, si richiedono competenze e responsabilità inaudite. A fianco di quelle tradizionali, talvolta purtroppo relegate dai dirigenti in secondo piano, (ma su questo ritornerò più avanti), si affiancano compiti che in una vera azienda sono supportati da collaboratori o liberi professionisti che rispondono pienamente, ed economicamente, a chi dirige l’azienda stessa.
Nella scuola, invece, è il preside a doversi far carico di una miriade di responsabilità senza potersi spesso valere di consulenze interne all’amministrazione né tantomeno esterne, se non quelle informali e riconducibili al proprio sindacato o associazione di categoria. Valga per tutti l’esempio dei conflitti in materia di lavoro, frequentissimi anche in virtù di un precariato diffuso e regolamentato da leggi per numero e contenuto spesso più vicine alle gride manzoniane che non alla legislazione degna di uno stato di diritto. Se si deve dare per scontato che di fronte ai tentativi obbligatori di conciliazione (dovuti peraltro quasi sempre a inadempienze dell’amministrazione centrale) dovrà essere il dirigente scolastico a rappresentare l’amministrazione della scuola davanti al collegio di conciliazione, paradossale è il compito che lo stesso dovrà affrontare di fronte alle cause per motivi di lavoro. Tocca infatti al dirigente rispondere, per conto dell’amministrazione, davanti al giudice del lavoro per il processo di primo grado, ovviamente preparandosi da solo la difesa e misurandosi con una controparte che è invece accompagnata da avvocati di fiducia dotati di competenze specifiche che un dirigente scolastico non può avere, salvo che non sia laureato in legge.
Tralascio tutte le implicazioni legate alla responsabilità che il dirigente ha per i problemi legati alla sicurezza, per tutelare la quale, è provato, si dovrebbero chiudere buona parte delle scuole italiane.
Si dice che con la scuola dell’autonomia un preside debba essere anche manager e per certi versi, soprattutto in relazione alle scuole di indirizzo tecnico e professionale, è proprio così. Anche se sostenuto dai suoi collaboratori e dai coordinatori dei vari progetti, sarà sempre il dirigente scolastico ad essere il responsabile dei progetti stessi e sarà sempre lui a firmare i contratti e a rispondere in prima persona di qualunque inadempienza: sia questa di carattere organizzativo, didattico o amministrativo.
E’ inoltre compito del preside individuare le linee fondamentali della “politica” scolastica relativa all’istituto che egli dirige. In parole povere, ogni singola scuola dovrà avere, nel pieno rispetto delle leggi e della Costituzione, una propria anima, un proprio modo di realizzare quella che in un determinato contesto è l’azione didattica e culturale più utile a formare ed istruire gli studenti: e questa impronta vi è se all’interno della scuola c’è un dirigente in grado di progettarla o di indirizzarla nel giusto verso.
E toccherà al dirigente mantenere i rapporti con le amministrazioni locali e con le realtà economiche e culturali del territorio, perché oggi è impossibile pensare una scuola, di qualunque ordine e grado essa sia, al di fuori di qualsiasi dialettica col contesto in cui essa è inserita. Basterà fare dei banalissimi esempi: una seria attività di orientamento o di alternanza scuola-lavoro la si fa coinvolgendo innanzitutto le varie realtà economiche, sociali e culturali del territorio, così come il sostegno ai ragazzi handicappati lo si garantisce soprattutto se si condividono specifiche istanze educative e progettuali con il mondo delle associazioni e con le ASL. Allo stesso modo una seria educazione alla cittadinanza non si potrà costruire senza il coinvolgimento degli enti locali che, essendo i proprietari-gestori degli edifici scolastici, sono comunque interlocutori coi quali un dirigente si misura quasi quotidianamente. In particolare per la scuola primaria moltissime attività, a partire dall’organizzazione della mensa scolastica per finire a quella del trasporto degli studenti, devono e possono essere organizzate solo attraverso una costruttiva collaborazione tra dirigenza scolastica e i vari assessorati di riferimento.
Vi sono infine le mansioni tradizionali, quelle che da sempre sono alla base, almeno nel nostro sistema scolastico, del ruolo del preside: l’attenzione alla quotidianità della didattica, i problemi disciplinari, che possono concernere i ragazzi, ma anche il personale docente e non docente. Per la valorizzazione del merito, si sa, il preside non può incidere in alcun modo; in questo è accomunato alle altre dirigenze, essendo il merito, nella pubblica amministrazione di questo paese, ancora una sorta di tabù.
Un preside non può fare a meno di presiedere gli scrutini di tutte le classi, anche per dare omogeneità alla valutazione, e non dovrebbe esimersi dall’avere rapporti frequenti con le classi stesse e con gli studenti in generale.
Vi sono, poi, i rapporti con le famiglie, sempre più complicati e per questo non facilmente delegabili ad altre figure scolastiche, soprattutto se tali rapporti sono legati a dinamiche di carattere conflittuale fra docente e allievo.
Talvolta si nota che il carico di lavoro legato ai problemi gestionali-amministrativi, ha penalizzato proprio questo tipo di competenze, sempre più delegate dai presidi ad altre figure che, se pur preparate, rischiano però di far scomparire dalla scuola il punto di riferimento al quale, almeno in caso di necessità, rivolgersi. Nessuno nega l’importanza della delega per il buon funzionamento dell’istituzione scolastica, ma vi sono ruoli e funzioni, in una scuola, che non possono essere scissi, pena la perdita d’identità dell’istituzione stessa.
E’ evidente che in un contesto del genere diventa urgente dare alla figura del dirigente scolastico una struttura in parte diversa rispetto a quella che ha oggi. Gli si dovrebbe permettere, per esempio, di poter gestire dei fondi specifici per potersi avvalere, soprattutto per il suo ruolo di amministratore e di “dirigente,” di consulenti esterni in grado di supportarlo per problemi particolarmente gravosi; e si dovrebbe, comunque, creare una sorta di carriera separata per la vice-presidenza, in modo da aver garantite specifiche competenze gestionali e amministrative da parte di chi lo dovrà sostituire quando sarà preso da altri impegni, oltre che per le ferie.
Per fare un esempio; sarà difficile per un preside occuparsi interamente della gestione della didattica se nel contempo sarà coinvolto in una causa con un dipendente per motivi di lavoro. Un’ incombenza questa, come ho sopra ricordato, che comporta quasi sempre una mole di lavoro pesantissima, sia sul piano della quantità che della qualità.
E ancora: se un preside ha la sventura di trovarsi di fronte ad una persona vistosamente disturbata e inadatta al proprio compito di educatore, ha diverse strade da percorrere. La prima è quella d’ignorare il caso, tutt’al più confidando in un trasferimento della persona stessa. Un’altra sua possibilità è quella di riuscire a tamponare eventuali proteste di genitori e allievi convivendo così alla meno peggio col problema. La terza possibilità, a parer mio obbligatoria, è quella di avviare un procedimento disciplinare. Facendo ciò un preside è costretto ad intraprendere un percorso che ha, nelle modalità e nei tempi, delle implicazioni paradossali, che peraltro molto raramente assicurano poi risultati positivi.
Non vi è settore della pubblica amministrazione la cui dirigenza sia gravata da così tante incombenze come invece accade nella scuola e, nello stesso tempo, non vi è settore come quello della scuola che sia così vago nello stabilire quali compiti spettino realmente ad un dirigente.
Ma vi è dell’altro a rendere esageratamente complicato il ruolo del dirigente scolastico: vi sono, per esempio, le numerosissime e talvolta inutili circolari che giornalmente arrivano in ogni scuola “autonoma” di questo Paese, circolari che il dirigente deve leggere, decifrare e applicare.
Inutile soffermarsi sulla mole di leggi e leggine che in questi decenni hanno invaso la scuola italiana costringendo i presidi a veri e propri salti mortali perché esse trovassero puntuale applicazione, o sul ruolo secondario che il preside ricopre all’interno del Consiglio d’Istituto, peraltro nell’organo preposto a deliberare tutto quello per cui il dirigente è responsabile.
Occorre che si intervenga con urgenza per dare chiarezza e vera sostanza al ruolo del preside, anche per non dare alibi a quei presidi che di fronte a tante incombenze e contraddizioni ritengono legittimo non sporcarsi le mani, gestendo grigiamente la quotidianità nella certezza che nessuno valuterà il loro operato.
Insomma, occorre fare in modo che coloro, la maggior parte, che non rinunciano a scindere il ruolo di presidi da quello, più recente, di dirigenti scolastici, possano veramente essere in grado di prendersi tutte le responsabilità della gestione della scuola, senza doversi costantemente improvvisare giuslavoristi, psicologi, esperti di marketing, di sicurezza, di salute e di chissà quante altre cose.
Basterebbe dar loro tutti i mezzi necessari per poter essere, alla fine, presidi e dirigenti nello stesso tempo; salvo ovviamente pretendere che vi siano controlli specifici e valutazioni periodiche, perché la società ha il diritto di conoscere come sono spese le risorse destinate alla scuola, ovvero all’istituzione indispensabile a garantire il futuro stesso della società, ed infine perché una scuola non potrà mai veder garantiti merito e responsabilità se questi principi non si applicano innanzitutto a chi la dirige.