sabato 28 febbraio 2015

RELAZIONE INTRODUTTIVA ALL'INCONTRO-DIBATTITO "UNIFICARE ISTRUZIONE E FORMAZIONE PROFESSIONALE?"

Si è tenuto ieri pomeriggio a Firenze l’incontro-dibattito Unificare l’istruzione e la formazione professionale?, a cui hanno partecipato, oltre al relatore principale, il professor Michele Pellerey, il sottosegretario all’istruzione Gabriele Toccafondi e l’assessore regionale all’istruzione e alla formazione Emmanuele Bobbio, tutte e due autori di ampi interventi. Pubblichiamo la relazione introduttiva di Valerio Vagnoli, membro del Gruppo di Firenze e dirigente dell’Istituto Alberghiero “Aurelio Saffi”.
Buonasera, vi ringrazio per la partecipazione e mi fa piacere notare che diversi di voi furono presenti anche al nostro primo convegno sulla formazione professionale del novembre 2009 all'Istituto degli Innocenti. Dal quell’incontro uscì, di fronte alla constatazione delle evidenti disfunzionalità del percorso statale di istruzione professionale, una proposta ben precisa che l'anno seguente sarebbe stata fatta propria anche da 85 presidi toscani e che consisteva nel richiedere alla costituenda Giunta regionale di avviare in tutte le provincie e in un certo numero di istituti la sperimentazione di percorsi triennali di formazione professionale a cui accedere dopo l'esame di licenza media.
Le cose per un po’ andarono diversamente; la Regione Toscana adottò infatti il sistema integrato che, seppure scelto dalla maggior parte dei ragazzi, non ha evitato che l'abbandono scolastico continuasse ad essere tra i più preoccupanti dell'intero Paese. Negli ultimi anni qualcosa è iniziato a cambiare e finalmente, proprio in accordo con la Regione, si stanno sperimentando in due istituti alberghieri dei percorsi complementari che dal prossimo anno scolastico saranno offerti anche da altre scuole e per altri indirizzi. La sperimentazione, come sapete, è resa possibile grazie alle quote di flessibilità e alla condivisione delle stesse quote con l'Ufficio scolastico regionale. In virtù di tutto ciò è possibile togliere dal curriculum, ore di alcune discipline dell'area comune per far posto ad  altre ore delle cosiddette materie di indirizzo. Tutto all'apparenza sembrerebbe tornare, se non vi fosse alla base la sconcertante realtà dei nostri quadri orari, che ci impongono fino a quindici materie; e pur utilizzando l'intera quota del 25% , alla fine si può tagliare ogni anno al massimo una disciplina e qualche ora all'una o all'altra materia. 
Quello che mi mancherà di più quando lascerò la scuola, sarà l'incontro al mattino presto con i ragazzi nel parco-giardino che porta all'ingresso dell'Istituto. E passando tra i tanti gruppetti di ragazzi che, provenendo da lontano come accadde a me studente sostano fino all'ultimo minuto all'interno dei loro capannelli, così spesso mi capita di scambiare con loro brevi saluti e qualche battuta, e da parte loro avverto un naturale senso di fiducia e di disponibilità ad affidarsi agli adulti, all’istituzione scuola e anche a me che salutandoli e chiedendo loro come va, sento il dovere e la responsabilità di rappresentarla. Un’istituzione, però, che da lì a poco rappresenterà invece per molti di questi ragazzi la loro sconfitta, la loro capitolazione. Alla fine della lunghissima mattinata, li sentirò scappare in rumorosa fuga da una scuola che nel voler dar loro troppo, gli nega alla fine la possibilità di poter apprezzare il poco, ma di grande qualità, che ogni buona scuola deve dare ai propri allievi. E invece nei professionali tutto è troppo: sono troppi i bocciati, troppi i DSA, troppi gli abbandoni, troppi i disabili, troppi i docenti non di ruolo, troppi i problemi di ogni sorta e troppe, assolutamente troppe, le discipline.
Intendiamoci, la novità di questi percorsi complementari è comunque rilevantissima, perché costituisce un passo nella giusta direzione, anche se non sufficiente, per dare alla formazione professionale quel senso di completezza a cui pure aspireremmo. Ma sappiamo che nella vita la norma non è conquistare subito il massimo. E infatti, a un anno e mezzo dall’inizio della loro sperimentazione, si possono già cogliere alcune criticità sulle quali è giusto riflettere. Non mi dilungo sugli aspetti positivi, evidentissimi già nell'aver quasi  dimezzato, rispetto al percorso integrato, la percentuale di dispersione scolastica e aver tenuto a scuola, solo in virtù delle loro ottime performance in laboratorio, ragazzi che da tempo avremmo sicuramente perso, qualcuno magari avviato per strade assai pericolose.
La maggiore di questa criticità è data dal rischio di identificare questi percorsi come un'ulteriore differenziazione in negativo dell'istruzione-formazione professionale. Già io stesso, pur attento affinché ciò non accada, ho più di una volta accettato che alcuni ragazzi transitassero alla fine nel percorso complementare, pur di evitare che abbandonassero a metà della prima o della seconda classe la scuola, perché non essendo  magari ancora sedicenni non sarebbero stati accolti nei percorsi per i cosiddetti drop-out; e non passa settimana che qualche consiglio di classe o qualche docente di sostegno non mi chiedano di accogliere ora uno ora l'altro ragazzo in difficoltà. Questo è uno dei motivi che consigliano di andare verso un unico modello, che integri l'istruzione e la formazione professionale avvicinandosi sempre più a quello trentino, che come saprete si basa su tre gambe: i licei, l’istruzione tecnica e la formazione professionale. Quest’ultima si sviluppa verso l’alto fino a poter approdare ad una vera e propria alta formazione. Un modello chiaro, lineare e percepibile come realmente efficace, anche da parte dei ragazzi e delle loro famiglie, ai fini di una adeguata preparazione al lavoro. Solo così si potrà evitare quello che anche da noi troppo spesso accade; e cioè che la scelta di un professionale rappresenti l'ultima scelta, o ancora peggio, una non scelta in attesa che accada qualcosa. Un secondo, importante motivo per puntare in questa direzione mi pare questo: la formazione professionale è ben sviluppata solo in poche regioni, mentre in molte altre è nel migliore dei casi embrionale. Invece, esistono ovunque gli istituti professionali statali, con i loro laboratori, oggi in genere sottoutilizzati, e le loro sperimentate competenze professionali. Da questi si deve ripartire, naturalmente “delicealizzandoli” quanto prima.  D’altra parte essi sono destinati comunque a cambiare, se diverranno presto realtà le 200 ore annue di alternanza scuola lavoro previste dalla Buona Scuola e se si svilupperà l’apprendistato come strumento di apprendimento e insieme di ingresso nel mondo del lavoro. In ogni caso, bisognerà a mio avviso superare il ruolo residuale della formazione professionale, sottoposto, per trovare un suo spazio, al duplice filtro delle scelte regionali e di quelle in capo a ciascuna scuola, in cui le inevitabili preoccupazioni e timori per il proprio immediato futuro, in particolar modo dell'organico preesistente,  fanno comprensibilmente velo all’interesse della scuola nel suo insieme. A noi invece  pare una scelta strategica che dovrebbe essere offerta a tutti i ragazzi su tutto il territorio nazionale. Capita a volte, parlando con colleghi refrattari ad un sistema del genere, che io indichi   come modello a cui guardare, proprio il successo dell'esperienza trentina di fronte al quale,  certi colleghi non potendo argomentare altre critiche, finiscono col rispondere che essa è improponibile perché nessun altra regione ha la fortuna di avere i finanziamenti che lo Stato trasmette al Trentino.  Nessuno si chiede però quanto costi all’erario sostenere un modello che non funziona e che  negli anni lascia per strada  centinaia di miglia di studenti per i quali dovranno poi essere attivati ulteriori e ripetuti corsi  di formazione e di riqualificazione.
Per il momento il rischio che dovremmo evitare è quello di creare confusione permettendo alla stessa scuola di affiancare al percorso statale sia il modello integrato che quello complementare. Più in generale, quello che mi preme con forza sottolineare è la necessità di tornare a guardare con il principio di realtà l'anima della stessa nostra Costituzione, che si riferisce direttamente e indirettamente ai nostri giovani laddove essa sottolinea il diritto di ciascun ragazzo ad avere  l’opportunità per crescere secondo le proprie attese e le proprie capacità, per diventare un adulto responsabile e civilmente consapevole. Invece il fallimento è sotto gli occhi di tutti, o almeno di tutti coloro che non sono accecati dalle certezze ideologiche che impediscono di vedere la realtà, di fare i conti con essa perché tesi (in buona fede) a pianificare la vita di intere generazioni appiattendole su un’istruzione voluta uguale per tutti addirittura fino ai 16 anni. Sarebbe questa una scelta alla fine irrispettosa dei giovani, che hanno il diritto di fare delle scelte ben prima della loro giovinezza, prima cioè che sia tardi per imparare bene quello che ci serve per crescere bene, sia pure questo l'apprendimento di una professione e di un lavoro. Di quanto sia diffusa  questa mancanza di rispetto nei confronti della formazione dei ragazzi ne è prova la recente proposta di legge d'iniziativa popolare che prevede addirittura un biennio unico con qualche ora orientativa e nessuna funzione della formazione professionale se non dopo i 18 anni. Positivi invece sono i punti presenti nel documento governativo in relazione alla valorizzazione del rapporto tra scuola e lavoro, anche se, purtroppo, nulla si dice in tutto il documento su una condizione che deve essere ineliminabile per tutti gli indirizzi scolastici; e cioè un richiamo forte all'impegno e alla serietà con cui, nel loro stesso interesse, gli studenti devono affrontare qualunque percorso scolastico, perché è solo la carenza di preparazione che separa le persone e le proietta verso un futuro più o meno svantaggiato. Non è il lavoro diverso che si troveranno a svolgere a farli cittadini più o meno dotati di dignità, ma come lo faranno e con quale consapevolezza e preparazione lo sapranno fare. Nessuno di noi, tantomeno il sottoscritto, vorrebbe cancellare l'importante ruolo formativo che hanno le cosiddette materie di base e comuni a tutti, e fra queste si deve senz'altro oggi annoverare anche la lingua inglese. Ma da insegnante avvezzo a lavorare con ragazzi refrattari alla scuola, quella tradizionalmente intesa in quanto impegnata a trasmettere importanti saperi di base, posso invece dire con tutta franchezza che questa cultura è spesso recuperabile solo se prima appassioniamo certi studenti a qualcosa di pratico, di concreto. Negli anni successivi si potrà fare leva su questa passione per far poi loro apprendere concetti fondamentali del sapere astratto, ancora non fatto odiare del tutto, come spesso accade con l’attuale struttura dei professionali.
Non sto a ripetere quello che da anni ho scritto e detto sulla insufficienza, che in alcune regioni arriva addirittura all'assenza, della nostra formazione professionale: peraltro oggi molto meglio di me ne parleranno altri, in primo luogo il professor Pellerey.  
Ora, seguendo da molti anni, direi da decenni,  l’istruzione e la formazione professionale, difficilmente troviamo, tra coloro che sostengono la necessità di una scuola uguale per tutti almeno fino ai 16 anni, indicazioni convincenti su come superare la catastrofe didattica di cui vi ho parlato poco fa. Salvo il rimandare il problema della formazione ad età comprese tra i 16 e i 18 anni o all'utilizzo della didattica laboratoriale, sarà difficile trovare proposte credibili e realistiche circa il dramma dell'evasione scolastica. E gli stessi dovrebbero pur dirci qualcosa a proposito degli effetti di questo prolungamento dell'adolescenza, in Italia più accentuato che in altri paesi, o forse meglio dire che in tutti gli altri paesi del mondo, e non lasciare solo alla ex ministra Fornero o al compianto Padoa Schioppa il compito di sollevare per un attimo, con una battuta, il velo su questa situazione. Bisogna in ogni caso rifiutare l’idea che si è cittadini veri e fortunati solo se abbiamo studiato ai licei. Agli sfigati i lavori manuali, come era scritto e rimasto a lungo ben in vista lo scorso anno alla finestra di un'aula della scuola ( tecnico e liceo ) dirimpettaia alla mia. Senza parlare poi delle prevenzioni e dei pregiudizi che resistono tra alcuni docenti delle medie: come dimenticare l'umiliazione subita da una ragazzina, lo scorso anno, che avendo la media del dieci fu aspramente redarguita dalla sua docente di lettere perché avrebbe sprecato la sua intelligenza, se si fosse iscritta, come poi avvenne, all'Istituto alberghiero! E qui in sala i docenti dei professionali che fanno orientamento alle medie ne avrebbero di storie da raccontare!!!
Da anni sembra diventata un sorta di mantra l'idea che sarà la didattica laboratoriale, beninteso importante, a salvare i ragazzi dai loro fallimenti scolastici. Credo però che insieme a questa vadano ripresi altri modelli di apprendimento, senza escludere quello ripetitivo. Un apprendimento che per certi luminari della pedagogia istupidisce la mente. Ma negli istituti professionali tedeschi, che ho visitato di recente, viene invece considerato indispensabile, perché solo attraverso l’esercizio più volte ripetuto è possibile affinare la tecnica, immedesimarsi alla fine col lavoro che facciamo.  Gli studenti di musica e tutti i bambini che fanno sport, o che si cimentano per la prima volta con un nuovo gioco, sanno bene quanto sia fondamentale l'esercizio ripetitivo per diventare sempre più competenti nelle attività e nelle discipline che si affrontano. È in particolare grazie alla mano che molte cose, molti concetti entrano nella nostra testa.  Ed invece è proprio la mano, il lavoro manuale, beninteso finalizzato anche a riscrivere esercizi e costrutti di ogni sorta o finalizzato al disegno, che abbiamo voluto bandire ad ogni costo dalle aule scolastiche trasformando anche gli istituti professionali in quella sorta di casa degli orrori formativi che sono, appunto, oggi, certi istituti professionali. Limitandomi all'unico professionale che conosco, direi, abbastanza bene, non ho timore di alcuna smentita nell'affermare che alla fine dei cinque anni, magari anche in presenza di pluriripetenze, la maggioranza dei ragazzi che escono col diploma di sala e cucina rifiuta d'impiegarsi, pur essendovi nel settore ampie possibilità d'impiego. Noi stessi che gestiamo un nostro ristorante scolastico e che abbiamo, ingrandendoci, necessità di assumere altri ex nostri studenti,  incontriamo grandissime difficoltà non dico a selezionare, ma addirittura a trovarne qualcuno disposto a impiegarsi pur a tempo indeterminato e con l'assoluta certezza che non andrà incontro a nessun tipo di sfruttamento. Queste sono le conseguenze dell’aver voluto a suo tempo sostituire la tradizionale eccellente formazione alberghiera con una sorta di liceo professionale che aprisse a tutti i diplomati la possibilità di accedere a qualsiasi facoltà universitaria, ma purtroppo non ad un lavoro qualificato. In nome della superiorità della cultura diciamo così astratta, per decenni alla fine della terza si è chiuso qualsiasi rapporto con le attività di laboratorio (solo dall’anno scorso ci sono due ore di laboratorio alla settimana), demandando l'esperienza pratica a due-tre settimane di tirocinio per ciascun rimanente anno. Le medesime due-tre settimane di tirocinio annuale che mi sembra siano rilanciate nella proposta di legge d'iniziativa popolare a cui accennavo poco fa.
Si possono immaginare le conseguenze di tutto ciò sul turismo e sulla qualità dell'ospitalità anche gastronomica, tanto che ogni anno, anche per questo, scivoliamo sempre più in basso nelle graduatorie internazionali. Tanti turisti stranieri, spesso  i migliori perché viaggiano osservando oltre che consumando,, rimangono sbalorditi dal pessimo servizio che in genere incontrano in questo Paese  nei ristoranti, nei bar e negli hotel ove pur pagando, sembrano trattati da chi riscuote come se si trattasse di ruoli invertiti. Ma una approssimazione nella preparazione professionale in genere non reca s danni soltanto  all’economia e all’occupazione.  Gli istituti professionali hanno il fine d'insegnare ai ragazzi a svolgere bene un lavoro e, citando Richard Sennet “a mettere in grado gli individui di governarsi e dunque di diventare bravi cittadini. La cameriera industriosa tenderà a dimostrarsi una brava cittadina assai più della sua annoiata padrona. […] Nel corso della storia moderna, la convinzione che il lavoro ben fatto sia il modello di una cittadinanza consapevole andò deformandosi e pervertendosi, per finire nelle vuote e deprimenti menzogne dell'impero sovietico. […] Il nostro intento è quello di recuperare in parte lo spirito dell'Illuminismo adattandolo al nostro tempo. Vogliamo che l'attitudine al fare, che è comune a tutti gli uomini, ci insegni a governare noi stessi e a entrare in relazione con altri cittadini su tale terreno comune”. ( L'uomo artigiano, Feltrinelli ) Così Richard Sennet!
Per quel che mi riguarda, non rinuncio a sperare che quanto prima i miei studenti che saluto al mattino prima di entrare a scuola abbiano addosso, all'uscita, solo la fretta per la corriera che parte e non la rumorosa rabbia di chi non ha avuto quello che si aspettava dalla sua scuola, dalla nostra scuola. I modelli per cambiare esistono, in Italia e in altri paesi europei, ed esistono le persone in grado di farlo. E deve alla fine pur esistere la concreta consapevolezza che la scuola professionale ha il compito straordinario di trasmettere ai ragazzi il senso più profondo di sé e il loro  talento nel fare bene il lavoro che fanno, il lavoro  che faranno.  Ed è questo e solo questo, per dirla con Vittorini, che fa l'uomo più uomo, e può rendere un’adolescenza ricca di aspettative e di contentezza di se stessi. Così i ragazzi restituiranno alla collettività, che ha investito su di loro, la certezza di essere dei bravi cittadini perché aiutati a trovare la loro strada senza, appunto, abbandonarli alla strada,  come non è più tollerabile debba continuare ad accadere.
Beata la scuola e la società che contribuiranno a formare cameriere industriose piuttosto che persone frustrate e annoiate come spesso, sempre più spesso invece accade.
Valerio Vagnoli

venerdì 6 febbraio 2015

LETTERA AI GENITORI DELL'ISTITUTO ALBERGHIERO "SAFFI" DI FIRENZE

Cari genitori,
su mia richiesta, stamattina è intervenuta la Polizia con i cani antidroga per controllare sia gli spazi esterni che quelli interni, comprese alcune classi  scelte casualmente a campione.
Grazie a questo intervento sono state trovate alcune sigarette (spinelli) e piccole quantità di marijuana  nascoste nei luoghi più impensati dell’edificio. Sono stati però rinvenuti alcuni trita marijuana e questo fa pensare ad un discreto consumo quotidiano da parte di più studenti.
Ci tengo a dire che la nostra non è una eccezione e nei giorni scorsi altre quantità di droga sono state trovate in altri istituti a conferma che quello della droga è un problema generalizzato, come era del resto già noto.
Ho sempre ritenuto giusto che per debellare il problema, o almeno cercare di farlo, sia necessario affrontarlo alla luce del sole, senza timore di aprire le porte alle forze dell’ordine che, peraltro, si sono dimostrate professionalmente ineccepibili e rispettose dei ragazzi e dell’ambiente scolastico.
Sono certo che questo intervento, che non resterà isolato, trasmetterà ai ragazzi un messaggio molto concreto sui rischi che essi corrono, anche penalmente, facendo uso di droghe.
Come sapete, la scuola si adopera anche con altre iniziative per mettere in guardia i ragazzi dai rischi degli stupefacenti. Confido naturalmente  che anche Voi cogliate questa occasione per mettere in guardia i vostri figli. Sono certo, come Dirigente scolastico,  che le famiglie siano meglio tutelate e rassicurate dall’affrontare apertamente il problema anche attraverso l’aiuto delle Forze dell’Ordine.
              
Firenze, 4 Febbraio 2015                                     Il Dirigente scolastico
                                                                                  Valerio Vagnoli