giovedì 17 ottobre 2013

SE OCCUPA L'ASSESSORE

Gentile Direttore,
non si finisce mai di stupirsi: all’inizio della scuola fu il ministro Carrozza. Proprio il capo del dicastero dell’istruzione ha invitato gli studenti a ribellarsi ai genitori, ai prof e alla scuola. Ora su “Corriere Fiorentino” leggo che l’assessore all’educazione Cristina Giachi apprezza gli studenti che occupano la loro scuola, vuole “farsi educare” da loro ed è disponibile ad andare a discutere con gli occupanti, invece di proporre un incontro solo dopo che le lezioni siano riprese regolarmente. C’è da rimanere sgomenti nel constatare come si rivolge ai giovani chi dovrebbe dare esempio di consapevolezza del proprio ruolo di adulto e di rappresentante delle istituzioni.  Due anni fa io e un gruppo di colleghi scrivemmo una lettera agli studenti in una situazione analoga, sottolineando che la scuola deve favorire e valorizzare l’interesse dei giovani per la dimensione politica, a condizione però che le forme di protesta siano credibili e non vadano mai a scapito della legalità e del regolare svolgimento delle lezioni. Tanto più che sono spesso esigue minoranze a prendere queste decisioni, come hanno testimoniato tanti studenti in questi anni e anche in questi giorni. È sconfortante, quindi, che dei rappresentanti delle istituzioni considerino le occupazioni alla stregua di diritti acquisiti degli studenti, invece di richiamarli alla responsabilità e al rispetto delle regole. I giovani  non hanno bisogno di trovare negli adulti la compiacenza, ma un solido punto di riferimento, che li richiami costantemente alla necessità di rispettare le istituzioni democratiche e i diritti degli altri. Nella scuola, interrompere e impedire le lezioni significa  anche penalizzare i propri compagni, soprattutto quelli più svantaggiati. Non sarebbe più serio invitare i ragazzi a trovare altre forme di protesta in momenti diversi dall'orario scolastico?
Come esempio di come ci si può rivolgere alle giovani generazioni ricordo  il discorso  che Barack  Obama fece  agli studenti nel 2009 all’inizio dell’anno scolastico. Ne riporto solo un breve, ma significativo passaggio:  
“Alla fine noi possiamo avere gli insegnanti più appassionati, i genitori più attenti e le scuole migliori del mondo: nulla basta se voi non tenete fede alle vostre responsabilità. Andando in queste scuole ogni giorno, prestando attenzione a questi maestri, dando ascolto ai genitori, ai nonni e agli altri adulti, lavorando sodo, condizione necessaria per riuscire”.
Ci piacerebbe che chi si occupa di istruzione qualche considerazione del genere, almeno sporadicamente, la proponesse ai giovani e non lasciasse da soli docenti e dirigenti a far fronte a riti ripetitivi che poco hanno a che fare con l'intelligenza creativa e innovativa che dovrebbe essere propria del mondo giovanile. 
Valerio Vagnoli 
Dirigente scolastico 
Gruppo di Firenze 
(“Corriere Fiorentino” del 17 ottobre 2013) 
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sabato 5 ottobre 2013

LA RELAZIONE DI VALERIO VAGNOLI AL CONVEGNO DELLA GILDA SU SCUOLA E LAVORO

In attesa che si avveri la mitica età dell’oro, a cui, sotto diverse specie, molti si sono riferiti in questi decenni, converrebbe che governanti e responsabili delle strutture portanti della nostra società si abituassero a guardare la realtà e a interpretarla  per quello che essa è, secondo il noto monito di Machiavelli. Invece, dalla fine degli anni sessanta in poi, in molti settori tra cui la scuola, si è affermata sempre di più la tendenza a sognare. Piuttosto che leggere e  interpretare la realtà per renderla progressivamente funzionale a creare condizioni di vita migliori, gran parte della  nostra classe dirigente, soprattutto di sinistra, sembra aver  trasferito la propria utopistica e adolescenziale  formazione di base nella politica, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti noi. Per quanto concerne in particolare la politica scolastica, il fallimento si può dire quasi completo, avendo tutti i governi degli ultimi decenni piegato la scuola al fine principale di  evitare le contrapposizioni con i giovani e con le loro famiglie desiderose di accedere finalmente agli indirizzi di studio un tempo riservati alle classi sociali privilegiate. Mentre la cosiddetta società civile e progressista lanciava anatemi contro la globalizzazione, nello stesso tempo si consumava un’inesorabile  damnatio memoriae nei confronti del lavoro manuale, di qualunque tipo, fosse pure quello artigianale e artistico a cui tanto deve la cultura e l’economia italiana . Allo stesso modo, ripeto, le famiglie entravano finalmente attraverso i loro figli nelle aule dei licei, calpestate un tempo quasi esclusivamente  dai rampolli della borghesia che allora sembrava  irraggiungibile e inamovibile. E per appagarle fino in fondo di questa magra conquista, e anche per liberarle, come è giusto fare nei confronti di una clientela, da possibili fastidi, non si è esitato a facilitare in maniera scandalosa i percorsi scolastici di ogni ordine e grado, colpevolizzando i docenti, soprattutto quelli più rigorosi, e smantellando  così un sistema nazionale in grado di autocontrollarsi e di mantenere standard condivisi in tutte le aree del Paese.
Così le stesse forze culturali e politiche che inveivano contro la società consumistica ed edonistica, contrabbandavano come progressiste scelte di politica scolastica che miravano, come abbiamo accennato, a fare della scuola un mondo ove tutto sarebbe stato facile da consumare. E l’idea che la cultura liceale, quella in grado di  formare esseri pensanti, critici e liberi, si dovesse almeno in parte estendere anche agli altri indirizzi, fece sì che nei primi anni novanta si snaturassero totalmente, appunto licealizzandoli, i tecnici e i professionali, cancellando pertanto in modo quasi definitivo la loro identità. In certi istituti  professionali, per esempio, la cattedra d’italiano e  storia  nelle prime tre classi poteva arrivare anche a  9 ore. Questo può essere piaciuto a qualche docente liceale o universitario mancato, ma non ha evitato che molti allievi degli alberghieri ne uscissero, per esempio, senza saper scrivere correttamente un ordine sulla comanda da inoltrare in cucina. Che i docenti siano talvolta poco propensi a fare i conti con la realtà effettuale dei propri allievi, soprattutto nei tecnici e nei professionali è, purtroppo, vero, come è  probabilmente vero che  questo pessimo comportamento didattico è stato alimentato dalla omologazione degli indirizzi  di studio avvenuta, appunto, a partire dai primi anni novanta e contrabbandata da moli come una grande conquista. 
Il campo semantico di parole legate al senso di sogno e di illusione ben si addice al mondo degli insegnanti di questi decenni, che raramente ha rivendicato la necessità di salvaguardare il valore formativo della formazione professionale; mondo che è il miglior paradigma di quel ceto  piccolo borghese che  identificava il futuro di questo nostro Paese innanzitutto nella volontà di cancellare prepotentemente il passato,  piuttosto che portarcelo dietro con tutto quello che anche di nobile  esso  conteneva e  che per fortuna in parte ancora contiene.  Infatti, se  mi guardo alle spalle e se  rifletto su quel poco che ho fino ad ora culturalmente assimilato, posso facilmente discernere come la nostra fortuna  sia legata anche al lavoro manuale, alla fatica secolare che ha portato milioni di italiani, pur dovendo convivere spesso con drammatiche condizioni di povertà, a esprimere  anche attraverso il lavoro alti livelli  di genialità e di creatività.  
Molti ignorano che gran parte della nostra  rivoluzione industriale del secondo dopoguerra, nasce all’interno del mondo contadino e dell’artigianato: da questi settori proveniva la quasi totalità dei piccoli industriali del tessuto, della maglieria, del cuoio, della ceramica, della falegnameria, solo per citare alcuni settori della nostra economia, che hanno permesso a questo nostro paese di uscire da condizioni di povertà spaventose. Ma da questo mondo provenivano anche molti esponenti della grande industria, soprattutto alimentare,  dolciaria ed editoriale: dai fratelli Bagnoli, già contadini della fattoria di Sammontana, ai tipografi Angelo Rizzoli e  Arnoldo Mondadori, da Leonardo del Vecchio a Giovanni Ferrero . Senza escludere naturalmente il settore della moda che si è affermato   grazie a  sarti e sartine, a ciabattini o commessi dei grandi magazzini i cui nomi vanno, tanto per fare degli esempi, da Ferragamo a Gucci,  dalle sorelle Fontana a Giorgio Armani e a molti altri ancora. Insomma, basta una pur minima conoscenza della nostra proto industria per essere consapevoli di quanto sia alto il nostro debito  nei confronti di coloro che dal “nulla” come si diceva un tempo, hanno costruito imperi economici straordinari permettendo così all’Italia, per fortuna, di avere ancora oggi in certi settori dell’economia  un ruolo primario a livello mondiale. Nessun programma informatico si potrà sostituire a molte professioni e a molti mestieri, che si imparano bene, come tutte le cose ben imparate, cominciando ad apprenderli da ragazzi, anche al di fuori delle aule scolastiche. E di sicuro, la nostra più grande rivoluzione culturale, quella umanistico-rinascimentale che trova in Galileo la sua estrema declinazione, non sarebbe pensabile  se non tenessimo conto di quanto sia stata alimentata dalle    botteghe d’arte e in genere artigianali che hanno caratterizzato, fino a pochi decenni fa, la cultura e l’economia di questa città, che oggi ospita questo importante appuntamento. E lasciatemi ricordare tutti quelli che dalle botteghe, dalle fabbriche e dalle campagne percepirono molto prima e meglio di altri più addottorati, la lezione di Gramsci, Gobetti, don Sturzo, Croce, Salvemini, schierandosi in tempi non sospetti contro il fascismo, combattendolo con una dignità che molti intellettuali colti e “laureati” non seppero esprimere per tempo. Tutti i libri letti e meditati da migliaia di intellettuali italiani non servirono a far salire, oltre quello di  dodici, il numero dei docenti universitari che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Non voglio dire con ciò che la cultura astratta e speculativa non serva. Anzi, rivendico fino in fondo il suo alto valore formativo e creativo, perché  sicuramente  senza di essa anche quella popolare avrebbe avuto una evoluzione meno dinamica e meno libera  rispetto ai tanti condizionamenti di ogni sorta a cui era sottoposta.  Ma rivendico nello stesso tempo quel principio  elementare di libertà per cui non  si deve assolutamente accettare che l’intelligenza degli uomini, e la loro dignità, debbano essere valutate in base alla loro formazione scolastica e soprattutto secondo la  professione e il lavoro da essi svolto.  Tocca casomai alla politica evitare che  possano crearsi tra gli uomini condizioni di vita  discriminanti; ed è compito dei politici, anche attraverso il loro esempio, fare del lavoro, qualunque esso sia, uno strumento di libertà. Anzi, insieme al pensiero, il lavoro è forse il solo, autentico strumento di libertà che ci è concesso integralmente vivere, come ben ci hanno spiegato Primo Levi, Solgenitsin e tanti altri sopravvissuti ai campi di concentramento e di prigionia, che pur  nella mancanza assoluta di libertà, lavorando riuscirono a  sopravvivere, anche perché dietro ogni lavoro, qualunque esso sia, vi è sempre un progetto di vita. 
Solo una cultura miserabilmente ripiegata sul compiacimento di se stessa poteva, e ha potuto pensare, che l’esperienza pratica, il lavoro, appunto, la libertà di sceglierlo e di impararlo secondo la propria inclinazione e passione potesse rappresentare una condizione di minorità. Pertanto, di fronte alla “rivoluzionaria e progressista” convinzione che  le attività manuali respingessero l’uomo verso chissà quale  selvatica  condizione,  quei pochi che nel passato hanno invece rivendicato l’alto valore formativo  ed educativo della formazione professionale, auspicandola magari fin dal primo anno delle superiori, hanno dovuto subire a volte, piuttosto che sereni confronti con chi la pensava diversamente, forme di aggressione ideologica e rifiuto pregiudiziale del dialogo.
A nulla è valso, per anni e anni, fare riferimento a quanto accadeva in altri paesi o in regioni come il Trentino, dove il grande sviluppo della formazione professionale ha fatto ridurre il tasso di bocciature e di evasione scolastica  sotto la soglia del 10% e dove peraltro hanno addirittura abolito gli istituti professionali. E a nulla è valso, per molto tempo, mettere sull’avviso gli addetti ai lavori della nostra politica scolastica, che non avremmo dovuto lasciare ad una eventuale crisi economica, che poi è purtroppo davvero comparsa, l’ingrato compito di ridare valore al lavoro  e alla formazione professionale, perché niente è più mortificante e diseducativo che subire il futuro senza avere la soddisfazione di conquistarselo e di prepararselo come meglio si crede. 
Sceglierlo a 14 anni, questo nostro futuro, ci è stato molte volte detto, è ingiusto perché  a quell’età non si è consapevoli in quanto ancora troppo giovani. Rispondere a queste motivazioni affermando che in altri paesi europei è il sistema scolastico che obbliga i ragazzi, secondo le loro inclinazioni e i loro risultati scolastici,  a intraprendere ben prima dei 14 anni percorsi di formazione professionale è tempo perso. Chi ha certezze direi quasi religiose rispetto alla convinzione che, costi quel che costi,  tutti i ragazzi hanno il diritto di fare le stesse cose, non è quasi mai disponibile, come ho già detto, a mettersi in discussione. E a nulla serviva obiettare che, anche iscrivendosi ai licei, i nostri ragazzi finiscono col fare delle scelte ancor più  definitive, in quanto  rischiano di ipotecarsi il futuro con inutili  anni di università. Ma si sa, per certi sacerdoti della pedagogia scegliere a 14 anni i licei è ben più democratico e dignitoso che scegliere a quell’età un percorso di formazione professionale!
Quando l’ideologia prevale rispetto all’analisi dei fatti, tanto per richiamarci a Machiavelli, si può arrivare ad ignorare il danno profondo che si fa ai ragazzi aprendo loro la strada alla formazione professionale solo a 16 anni e sempre dopo che questi hanno ripetutamente fallito il percorso dell’istruzione. Alla fine, inoltre,  si finisce col trasmettere loero la consapevolezza che la formazione professionale è un percorso per falliti e di conseguenza si continua ad alimentare la distorta mentalità che approdare o scegliere un lavoro manuale è una strada riservata ai perdenti.
Negli ultimi anni sono state queste le motivazioni sostenute, qui in Toscana, da una minoranza di dirigenti e di colleghi oltre che dal Gruppo di Firenze, affinché  di fronte alle percentuali drammatiche dei tassi di bocciatura e di abbandono nel primo biennio dei professionali (30-40% almeno negli istituti alberghieri, nelle prime classi, 15-20% nelle seconde) si riflettesse se era giusto o meno mantenere la scelta del modello integrato di istruzione e formazione professionale, scelto, appunto, dalla  nostra Regione. Per renderci conto di quanto poco peso abbia la formazione professionale in una struttura del genere, basti sapere che uno studente può scegliere anche alla fine della seconda classe di svolgere l’esame di qualifica l’anno successivo. Per non diversificare gli studenti che scelgono di fare l’esame  dai compagni che non lo scelgono, è previsto che tutti debbano convivere all’interno delle stesse classi e che tutti debbano svolgere lo stesso programma. Oltre alle attività di stage appena incrementate rispetto al percorso istituzionale, la Regione finanzia delle ore di compresenza su materie d’indirizzo; compresenze che soprattutto negli alberghieri, a dire il vero diversamente da altri indirizzi professionali, diventano assai problematiche. Non potendo spesso contare sulla disponibilità dei docenti tecnico-pratici interni (solitamente impegnati anche in attività extrascolastiche ), capita altrettanto spesso di dover dare gli incarichi a persone inesperte e magari diplomatesi recentemente. 
Naturalmente una qualifica triennale di tale struttura non è in grado di garantire una preparazione adeguata a quei ragazzi (pochissimi in realtà e solitamente quelli che per talento personale hanno desiderio di cimentarsi rapidamente col lavoro) che escono definitivamente dalla scuola alla fine della terza. Infatti, la quasi totalità degli studenti dei professionali continua, dopo la qualifica, il percorso dell’istruzione (con percentuali, in quarta, di abbandoni e bocciature assai prossime a quelle che si verificano in prima),  anche per rinviare l’incontro col mondo del lavoro, perché quest’ultimo è talmente dequalificato nell’immaginario dei nostri tempi e paradossalmente così poco valorizzato anche all’interno degli istituti professionali, da suscitare nella gran parte degli stessi studenti una scarsa attrattiva. Di fronte ad un quadro del genere risulta quasi beffarda l’analisi  assai articolata e approfondita da parte  della Comunità europea che indica nelle attività manifatturiere la via d’uscita dalla crisi e l’unica vera possibilità per l’Europa di ritornare ad avere, dopo decenni, un ruolo centrale nell’economia e nella cultura (l’affermazione non è mia ) mondiale.
L’esame di qualifica triennale di questi giorni ha confermato peraltro che gli studenti, rispetto ai vecchi esami di qualifica statale  terminati  lo scorso anno scolastico, hanno percepito  che la  prova  è diventata più o meno una mera formalità; e siamo appena all’inizio. D’altra parte la complessa struttura dei percorsi regionali che ha già portato alcuni collegi dei docenti, compreso quello della scuola da me diretta,  a rinunciare definitivamente al percorso integrato, ci obbliga a far sostenere gli esami a settembre, a pochi giorni di distanza da quelli di riparazione, con modalità che si preoccupano maggiormente di accontentare la forma anziché la sostanza. 
Rispetto ad  una realtà del genere,  sia la Regione che l’Ufficio scolastico regionale  hanno progressivamente dimostrato una maggior disponibilità a misurarsi con le nostre istanze. Naturalmente è  molto apprezzabile che la Regione e l’USR, di fronte all’alto numero di bocciati nelle prime classi, malgrado il percorso integrato,  abbiano deciso di sperimentare un nuovo modello, anche se non in più di dieci classi degli istituti alberghieri toscani. Purtroppo questa loro disponibilità non ha per ora incontrato quella di altre scuole e di altri dirigenti scolastici. Così le classi che sperimentano questo nuovo percorso sono quelle di soli due istituti professionali: il Saffi e il Vasari di Figline.
Il nostro percorso complementare è ispirato a quello  già da tempo avviato in alcune scuole del Veneto, tuttavia con  qualche importante variante, almeno sul piano della strategia didattica. La più significativa di queste consiste senz’altro nell’offrire ai ragazzi l’opportunità di potersi misurare, soprattutto in prima e seconda, con un maggior numero di ore dedicate alle discipline tecnico-pratiche, sottratte a materie come italiano e matematica, eliminando  fisica e chimica a vantaggio delle discipline centrate sull’esperienza pratica. In terza, gli studenti potranno recuperare le competenze di base quando avranno saputo trovare le giuste motivazioni e gli opportuni  equilibri cognitivi per poter finalmente comprendere e utilizzare in modo consapevole e appropriato  i contenuti fondamentali di materie come lettere e matematica. E sempre in terza, saranno attivati corsi aggiuntivi per permettere di acquisire le altre competenze di base in fisica e chimica, non studiate in prima e seconda, a chi desidera rientrare l’anno successivo, in quarta, nel percorso dell’istruzione. 
Tale recupero avverrà diminuendo   le ore delle  discipline tecnico-pratiche, che rimangono tuttavia numerose e già privilegiate in prima e seconda classe,  e  corroborate, sempre in terza, dalle attività di stage.
Il percorso complementare, inoltre, potrà permettere  a quegli studenti del corso tradizionale, che nei primi mesi di scuola si trovino a vivere situazioni di demotivazione per non aver  trovato quello che si aspettavano, di poter passare al percorso maggiormente professionalizzante. Occorre davvero ribadire che i percorsi tradizionali costringono gli studenti a seguire 12-13 discipline, che sarebbero senz’altro insopportabili e didatticamente insostenibili anche per gli stessi percorsi liceali. Insomma, come accade in molti altri paesi europei, abbiamo sentito la necessità di andare incontro alla formazione dei ragazzi piuttosto che alle convinzioni di chi, in nome di principi astratti e forse ideologici, pensa che si diventi adulti sereni e responsabili solo se abbiamo percorso un certo tipo di studi. Da una parte si auspica una scuola sempre più attenta ai bisogni di ciascun studente, dall’altra si costringono migliaia e migliaia di ragazzi  a un tipo di  scuola che finisce per spersonalizzarli. Ecco,  sono davvero alla fine, e  vorrei così chiudere il cerchio richiamando proprio il tema del sogno accennato all’inizio di questo intervento. A tale proposito  mi preme affermare che anche per me  i sogni hanno un   profondo valore, tuttavia non accetterei mai che la mia immagine del mondo e del futuro diventasse una gabbia per gli altri, se gli altri sono in particolare dei giovani ai quali dobbiamo  rispetto e comprensione per  le loro attese; soprattutto  se queste  attese sono finalizzate a un progetto di vita.
Qualsiasi azione educativa  e formativa non può essere ispirata da asserzioni categoriche e, diciamolo pure, prettamente ideologiche. Sia concesso ai ragazzi di fare le loro scelte, rendiamoli liberi dai pregiudizi  sociali e incoraggiamoli a scoprire e a valorizzare i propri talenti e i propri sogni, invece di costringerli a seguire i nostri. Insomma,  come canta Giorgio Gaber nella sua ultima struggente canzone, senza insegnare loro la nostra morale, soprattutto se vogliamo sperare in  un nuovo umanesimo, che poi forse significa, citando Charles Peguy, tornare a scolpire, come accadeva un tempo, gambe di sedie ben fatte non per il salario, né per il padrone, né per i clienti del padrone. Ma ben fatte in sé; una storia, un assoluto, un onore esigevano che quelle gambe di sedia fossero ben fatte e che ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o non visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto. 
E così, a distanza di oltre un secolo da queste importanti e nello stesso tempo suggestive riflessioni di Péguy, la mia sensazione è che si debba ripartire proprio da una consapevolezza dello stesso genere, che esprime un profondo  riconoscimento nei confronti di un uomo che sa trovare il senso più profondo di sé e il suo talento nel fare bene quello che fa, perché ogni lavoro ben fatto, qualunque esso sia, è sempre il frutto di un uomo ben fatto.
Valerio Vagnoli 

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