In attesa che si avveri la mitica età
dell’oro, a cui, sotto diverse specie, molti si sono riferiti in questi
decenni, converrebbe che governanti e responsabili delle strutture portanti
della nostra società si abituassero a guardare la realtà e a interpretarla per quello che essa è, secondo il noto monito
di Machiavelli. Invece, dalla fine degli anni sessanta in poi, in molti settori
tra cui la scuola, si è affermata sempre di più la tendenza a sognare.
Piuttosto che leggere e interpretare la
realtà per renderla progressivamente funzionale a creare condizioni di vita
migliori, gran parte della nostra classe
dirigente, soprattutto di sinistra, sembra aver
trasferito la propria utopistica e adolescenziale formazione di base nella politica, con le
conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti noi. Per quanto concerne in
particolare la politica scolastica, il fallimento si può dire quasi completo,
avendo tutti i governi degli ultimi decenni piegato la scuola al fine
principale di evitare le
contrapposizioni con i giovani e con le loro famiglie desiderose di accedere
finalmente agli indirizzi di studio un tempo riservati alle classi sociali
privilegiate. Mentre la cosiddetta società civile e progressista lanciava
anatemi contro la globalizzazione, nello stesso tempo si consumava
un’inesorabile damnatio memoriae nei confronti del lavoro manuale, di qualunque
tipo, fosse pure quello artigianale e artistico a cui tanto deve la cultura e
l’economia italiana . Allo stesso modo, ripeto, le famiglie entravano
finalmente attraverso i loro figli nelle aule dei licei, calpestate un tempo
quasi esclusivamente dai rampolli della
borghesia che allora sembrava
irraggiungibile e inamovibile. E per appagarle fino in fondo di questa
magra conquista, e anche per liberarle, come è giusto fare nei confronti di una
clientela, da possibili fastidi, non si è esitato a facilitare in maniera
scandalosa i percorsi scolastici di ogni ordine e grado, colpevolizzando i
docenti, soprattutto quelli più rigorosi, e smantellando così un sistema nazionale in grado di
autocontrollarsi e di mantenere standard condivisi in tutte le aree del Paese.
Così le stesse forze culturali e politiche che
inveivano contro la società consumistica ed edonistica, contrabbandavano come
progressiste scelte di politica scolastica che miravano, come abbiamo
accennato, a fare della scuola un mondo ove tutto sarebbe stato facile da
consumare. E l’idea che la cultura liceale, quella in grado di formare esseri pensanti, critici e liberi, si
dovesse almeno in parte estendere anche agli altri indirizzi, fece sì che nei
primi anni novanta si snaturassero totalmente, appunto licealizzandoli, i
tecnici e i professionali, cancellando pertanto in modo quasi definitivo la
loro identità. In certi istituti
professionali, per esempio, la cattedra d’italiano e storia
nelle prime tre classi poteva arrivare anche a 9 ore. Questo può essere piaciuto a qualche
docente liceale o universitario mancato, ma non ha evitato che molti allievi
degli alberghieri ne uscissero, per esempio, senza saper scrivere correttamente
un ordine sulla comanda da inoltrare in cucina. Che i docenti siano talvolta
poco propensi a fare i conti con la realtà effettuale dei propri allievi,
soprattutto nei tecnici e nei professionali è, purtroppo, vero, come è probabilmente vero che questo pessimo comportamento didattico è
stato alimentato dalla omologazione degli indirizzi di studio avvenuta, appunto, a partire dai
primi anni novanta e contrabbandata da moli come una grande conquista.
Il campo semantico di parole legate al
senso di sogno e di illusione ben si addice al mondo degli insegnanti di questi
decenni, che raramente ha rivendicato la necessità di salvaguardare il valore
formativo della formazione professionale; mondo che è il miglior paradigma di
quel ceto piccolo borghese che identificava il futuro di questo nostro Paese
innanzitutto nella volontà di cancellare prepotentemente il passato, piuttosto che portarcelo dietro con tutto
quello che anche di nobile esso conteneva e
che per fortuna in parte ancora contiene. Infatti, se
mi guardo alle spalle e se
rifletto su quel poco che ho fino ad ora culturalmente assimilato, posso
facilmente discernere come la nostra fortuna
sia legata anche al lavoro manuale, alla fatica secolare che ha portato
milioni di italiani, pur dovendo convivere spesso con drammatiche condizioni di
povertà, a esprimere
anche attraverso il lavoro alti livelli di genialità e di creatività.
Molti ignorano che gran parte della
nostra rivoluzione industriale del
secondo dopoguerra, nasce all’interno del mondo contadino e dell’artigianato:
da questi settori proveniva la quasi totalità dei piccoli industriali del
tessuto, della maglieria, del cuoio, della ceramica, della falegnameria, solo
per citare alcuni settori della nostra economia, che hanno permesso a questo
nostro paese di uscire da condizioni di povertà spaventose. Ma da questo mondo
provenivano anche molti esponenti della grande industria, soprattutto alimentare, dolciaria ed editoriale: dai fratelli
Bagnoli, già contadini della fattoria di Sammontana, ai tipografi Angelo
Rizzoli e Arnoldo Mondadori, da Leonardo
del Vecchio a Giovanni Ferrero . Senza escludere naturalmente il settore della
moda che si è affermato grazie a sarti e sartine, a ciabattini o commessi dei
grandi magazzini i cui nomi vanno, tanto per fare degli esempi, da Ferragamo a
Gucci, dalle sorelle Fontana a Giorgio
Armani e a molti altri ancora. Insomma, basta una pur minima conoscenza della
nostra proto industria per essere consapevoli di quanto sia alto il nostro
debito nei confronti di coloro che dal
“nulla” come si diceva un tempo, hanno costruito imperi economici straordinari
permettendo così all’Italia, per fortuna, di avere ancora oggi in certi settori
dell’economia un ruolo primario a
livello mondiale. Nessun programma informatico si potrà sostituire a molte
professioni e a molti mestieri, che si imparano bene, come tutte le cose ben
imparate, cominciando ad apprenderli da ragazzi, anche al di fuori delle aule
scolastiche. E di sicuro, la nostra più grande rivoluzione culturale, quella
umanistico-rinascimentale che trova in Galileo la sua estrema declinazione, non
sarebbe pensabile se non tenessimo conto
di quanto sia stata alimentata dalle
botteghe d’arte e in genere artigianali che hanno caratterizzato, fino a
pochi decenni fa, la cultura e l’economia di questa città, che oggi ospita
questo importante appuntamento. E lasciatemi ricordare tutti quelli che dalle
botteghe, dalle fabbriche e dalle campagne percepirono molto prima e meglio di
altri più addottorati, la lezione di Gramsci, Gobetti, don Sturzo, Croce,
Salvemini, schierandosi in tempi non sospetti contro il fascismo, combattendolo
con una dignità che molti intellettuali colti e “laureati” non seppero
esprimere per tempo. Tutti i libri letti e meditati da migliaia di
intellettuali italiani non servirono a far salire, oltre quello di dodici, il numero dei docenti universitari
che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Non voglio dire con ciò che
la cultura astratta e speculativa non serva. Anzi, rivendico fino in fondo il
suo alto valore formativo e creativo, perché
sicuramente senza di essa anche
quella popolare avrebbe avuto una evoluzione meno dinamica e meno libera rispetto ai tanti condizionamenti di ogni
sorta a cui era sottoposta. Ma rivendico
nello stesso tempo quel principio
elementare di libertà per cui non
si deve assolutamente accettare che l’intelligenza degli uomini, e la
loro dignità, debbano essere valutate in base alla loro formazione scolastica e
soprattutto secondo la professione e il
lavoro da essi svolto. Tocca casomai
alla politica evitare che possano
crearsi tra gli uomini condizioni di vita
discriminanti; ed è compito dei politici, anche attraverso il loro
esempio, fare del lavoro, qualunque esso sia, uno strumento di libertà. Anzi,
insieme al pensiero, il lavoro è forse il solo, autentico strumento di libertà
che ci è concesso integralmente vivere, come ben ci hanno spiegato Primo Levi, Solgenitsin
e tanti altri sopravvissuti ai campi di concentramento e di prigionia, che
pur nella mancanza assoluta di libertà,
lavorando riuscirono a sopravvivere,
anche perché dietro ogni lavoro, qualunque esso sia, vi è sempre un progetto di
vita.
Solo una cultura miserabilmente ripiegata sul compiacimento di se stessa
poteva, e ha potuto pensare, che l’esperienza pratica, il lavoro, appunto, la
libertà di sceglierlo e di impararlo secondo la propria inclinazione e passione
potesse rappresentare una condizione di minorità. Pertanto, di fronte alla
“rivoluzionaria e progressista” convinzione che
le attività manuali respingessero l’uomo verso chissà quale selvatica
condizione, quei pochi che nel
passato hanno invece rivendicato l’alto valore formativo ed educativo della formazione professionale,
auspicandola magari fin dal primo anno delle superiori, hanno dovuto subire a
volte, piuttosto che sereni confronti con chi la pensava diversamente, forme di
aggressione ideologica e rifiuto pregiudiziale del dialogo.
A
nulla è valso, per anni e anni, fare riferimento a quanto accadeva in altri
paesi o in regioni come il Trentino, dove il grande sviluppo della formazione
professionale ha fatto ridurre il tasso di bocciature e di evasione
scolastica sotto la soglia del 10% e
dove peraltro hanno addirittura abolito gli istituti professionali. E a nulla è
valso, per molto tempo, mettere sull’avviso gli addetti ai lavori della nostra
politica scolastica, che non avremmo dovuto lasciare ad una eventuale crisi
economica, che poi è purtroppo davvero comparsa, l’ingrato compito di ridare
valore al lavoro e alla formazione
professionale, perché niente è più mortificante e diseducativo che subire il
futuro senza avere la soddisfazione di conquistarselo e di prepararselo come
meglio si crede.
Sceglierlo a 14 anni, questo nostro
futuro, ci è stato molte volte detto, è ingiusto perché a quell’età non si è consapevoli in quanto
ancora troppo giovani. Rispondere a queste motivazioni affermando che in altri
paesi europei è il sistema scolastico che obbliga i ragazzi, secondo le loro
inclinazioni e i loro risultati scolastici,
a intraprendere ben prima dei 14 anni percorsi di formazione
professionale è tempo perso. Chi ha certezze direi quasi religiose rispetto
alla convinzione che, costi quel che costi,
tutti i ragazzi hanno il diritto di fare le stesse cose, non è quasi mai
disponibile, come ho già detto, a mettersi in discussione. E a nulla serviva
obiettare che, anche iscrivendosi ai licei, i nostri ragazzi finiscono col fare
delle scelte ancor più definitive, in
quanto rischiano di ipotecarsi il futuro
con inutili anni di università. Ma si
sa, per certi sacerdoti della pedagogia scegliere a 14 anni i licei è ben più
democratico e dignitoso che scegliere a quell’età un percorso di formazione
professionale!
Quando l’ideologia prevale rispetto all’analisi dei fatti, tanto
per richiamarci a Machiavelli, si può arrivare ad ignorare il danno profondo
che si fa ai ragazzi aprendo loro la strada alla formazione professionale solo
a 16 anni e sempre dopo che questi hanno ripetutamente fallito il percorso
dell’istruzione. Alla fine, inoltre, si
finisce col trasmettere loero la consapevolezza che la formazione professionale
è un percorso per falliti e di conseguenza si continua ad alimentare la
distorta mentalità che approdare o scegliere un lavoro manuale è una strada
riservata ai perdenti.
Negli ultimi anni sono state queste le
motivazioni sostenute, qui in Toscana, da una minoranza di dirigenti e di
colleghi oltre che dal Gruppo di Firenze, affinché di fronte alle percentuali drammatiche dei
tassi di bocciatura e di abbandono nel primo biennio dei professionali (30-40% almeno negli istituti alberghieri,
nelle prime classi, 15-20% nelle seconde) si riflettesse se era giusto o meno
mantenere la scelta del modello integrato di istruzione e formazione
professionale, scelto, appunto, dalla
nostra Regione. Per renderci conto di quanto poco peso abbia la
formazione professionale in una struttura del genere, basti sapere che uno
studente può scegliere anche alla fine della seconda classe di svolgere l’esame
di qualifica l’anno successivo. Per non diversificare gli studenti che scelgono
di fare l’esame dai compagni che non lo
scelgono, è previsto che tutti debbano convivere all’interno delle stesse
classi e che tutti debbano svolgere lo stesso programma. Oltre alle attività di
stage appena incrementate rispetto al percorso istituzionale, la Regione
finanzia delle ore di compresenza su materie d’indirizzo; compresenze che soprattutto
negli alberghieri, a dire il vero diversamente da altri indirizzi
professionali, diventano assai problematiche. Non potendo spesso contare sulla
disponibilità dei docenti tecnico-pratici interni (solitamente impegnati anche
in attività extrascolastiche ), capita altrettanto spesso di dover dare gli
incarichi a persone inesperte e magari diplomatesi recentemente.
Naturalmente una qualifica triennale di
tale struttura non è in grado di garantire una preparazione adeguata a quei
ragazzi (pochissimi in realtà e solitamente quelli che per talento personale
hanno desiderio di cimentarsi rapidamente col lavoro) che escono
definitivamente dalla scuola alla fine della terza. Infatti, la quasi totalità
degli studenti dei professionali continua, dopo la qualifica, il percorso
dell’istruzione (con percentuali, in quarta, di abbandoni e bocciature assai
prossime a quelle che si verificano in prima),
anche per rinviare l’incontro col mondo del lavoro, perché quest’ultimo
è talmente dequalificato nell’immaginario dei nostri tempi e paradossalmente
così poco valorizzato anche all’interno degli istituti professionali, da
suscitare nella gran parte degli stessi studenti una scarsa attrattiva. Di
fronte ad un quadro del genere risulta quasi beffarda l’analisi assai articolata e approfondita da parte della Comunità europea che indica nelle
attività manifatturiere la via d’uscita dalla crisi e l’unica vera possibilità
per l’Europa di ritornare ad avere, dopo decenni, un ruolo centrale
nell’economia e nella cultura (l’affermazione non è mia ) mondiale.
L’esame di qualifica triennale di questi
giorni ha confermato peraltro che gli studenti, rispetto ai vecchi esami di
qualifica statale terminati lo scorso anno scolastico, hanno
percepito che la prova
è diventata più o meno una mera formalità; e siamo appena all’inizio.
D’altra parte la complessa struttura dei percorsi regionali che ha già portato
alcuni collegi dei docenti, compreso quello della scuola da me diretta, a rinunciare definitivamente al percorso
integrato, ci obbliga a far sostenere gli esami a settembre, a pochi giorni di
distanza da quelli di riparazione, con modalità che si preoccupano maggiormente
di accontentare la forma anziché la sostanza.
Rispetto ad una realtà del genere, sia la Regione che l’Ufficio scolastico
regionale hanno progressivamente
dimostrato una maggior disponibilità a misurarsi con le nostre istanze.
Naturalmente è molto apprezzabile che la
Regione e l’USR, di fronte all’alto numero di bocciati nelle prime classi,
malgrado il percorso integrato, abbiano
deciso di sperimentare un nuovo modello, anche se non in più di dieci classi
degli istituti alberghieri toscani. Purtroppo questa loro disponibilità non ha
per ora incontrato quella di altre scuole e di altri dirigenti scolastici. Così
le classi che sperimentano questo nuovo percorso sono quelle di soli due
istituti professionali: il Saffi e il Vasari di Figline.
Il nostro percorso complementare è
ispirato a quello già da tempo avviato
in alcune scuole del Veneto, tuttavia con
qualche importante variante, almeno sul piano della strategia didattica.
La più significativa di queste consiste senz’altro nell’offrire ai ragazzi
l’opportunità di potersi misurare, soprattutto in prima e seconda, con un
maggior numero di ore dedicate alle discipline tecnico-pratiche, sottratte a
materie come italiano e matematica, eliminando
fisica e chimica a vantaggio delle discipline centrate sull’esperienza
pratica. In terza, gli studenti potranno recuperare le competenze di base
quando avranno saputo trovare le giuste motivazioni e gli opportuni equilibri cognitivi per poter finalmente
comprendere e utilizzare in modo consapevole e appropriato i contenuti fondamentali di materie come
lettere e matematica. E sempre in terza, saranno attivati corsi aggiuntivi per
permettere di acquisire le altre competenze di base in fisica e chimica, non
studiate in prima e seconda, a chi desidera rientrare l’anno successivo, in
quarta, nel percorso dell’istruzione.
Tale recupero avverrà diminuendo le ore delle
discipline tecnico-pratiche, che rimangono tuttavia numerose e già
privilegiate in prima e seconda classe,
e corroborate, sempre in terza,
dalle attività di stage.
Il percorso complementare, inoltre, potrà permettere a quegli studenti del corso tradizionale, che
nei primi mesi di scuola si trovino a vivere situazioni di demotivazione per
non aver trovato quello che si
aspettavano, di poter passare al percorso maggiormente professionalizzante.
Occorre davvero ribadire che i percorsi tradizionali costringono gli studenti a
seguire 12-13 discipline, che sarebbero senz’altro insopportabili e
didatticamente insostenibili anche per gli stessi percorsi liceali. Insomma, come accade in molti altri paesi
europei, abbiamo sentito la necessità di andare incontro alla formazione dei
ragazzi piuttosto che alle convinzioni di chi, in nome di principi astratti e
forse ideologici, pensa che si diventi adulti sereni e responsabili solo se
abbiamo percorso un certo tipo di studi. Da una parte si auspica una scuola
sempre più attenta ai bisogni di ciascun studente, dall’altra si costringono
migliaia e migliaia di ragazzi a un tipo
di scuola che finisce per
spersonalizzarli. Ecco, sono davvero alla fine, e vorrei così chiudere il cerchio richiamando
proprio il tema del sogno accennato all’inizio di questo intervento. A tale
proposito mi preme affermare che anche
per me i sogni hanno un profondo valore, tuttavia non accetterei mai
che la mia immagine del mondo e del futuro diventasse una gabbia per gli altri,
se gli altri sono in particolare dei giovani ai quali dobbiamo rispetto e comprensione per le loro attese; soprattutto se queste
attese sono finalizzate a un progetto di vita.
Qualsiasi azione educativa e formativa non può essere ispirata da
asserzioni categoriche e, diciamolo pure, prettamente ideologiche. Sia concesso
ai ragazzi di fare le loro scelte, rendiamoli liberi dai pregiudizi sociali e incoraggiamoli a scoprire e a
valorizzare i propri talenti e i propri sogni, invece di costringerli a seguire
i nostri. Insomma, come canta Giorgio
Gaber nella sua ultima struggente canzone, senza insegnare loro la nostra
morale, soprattutto se vogliamo sperare in
un nuovo umanesimo, che poi forse significa, citando Charles Peguy,
tornare a scolpire, come accadeva un tempo, gambe di sedie ben fatte non per il
salario, né per il padrone, né per i clienti del padrone. Ma ben fatte in sé;
una storia, un assoluto, un onore esigevano che quelle gambe di sedia fossero
ben fatte e che ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della
sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che
si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. Il lavoro stava là.
Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o non visti. Era il lavoro in
sé che doveva essere ben fatto.
E così, a distanza di oltre un secolo da
queste importanti e nello stesso tempo suggestive riflessioni di Péguy, la mia
sensazione è che si debba ripartire proprio da una consapevolezza dello stesso
genere, che esprime un profondo
riconoscimento nei confronti di un uomo che sa trovare il senso più
profondo di sé e il suo talento nel fare bene quello che fa, perché ogni lavoro
ben fatto, qualunque esso sia, è sempre il frutto di un uomo ben fatto.
Valerio Vagnoli
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