Il professor Michele Zappella,
neuropsichiatra dell’età evolutiva, è noto per avere studiato a lungo l’autismo
nelle sue varie forme. Fin dagli anni sessanta si è occupato dell’integrazione
sociale e scolastica dei disabili, l’argomento che torna in questo intervento
sul nostro blog, insieme a quello del bisogni educativi speciali.
Il
tema del bell’articolo di Giorgio Ragazzini
sui BES del 6 settembre scorso e sull’effetto negativo che le nuove norme probabilmente
avranno in prospettiva su tutta la scuola, riducendo all’individuo ogni
problema e dando a questo una soluzione strettamente personale, si inserisce in una
lunga storia che val la pena di ripercorrere e che risale ai primi anni
settanta quando ha inizio il processo dell’integrazione scolastica in Italia. A
questo riguardo va ricordato che una grande motivazione per chiudere le scuole
speciali e differenziali fu determinata dal rendersi conto che al loro interno
c’era un gran numero di figli di emigrati italiani interni (dal Sud al Nord) ed
esterni (verso altri Paesi d’Europa), messi da parte perché parlavano in
dialetto ed erano culturalmente deprivati. Metterli in classi particolari aveva
il significato di dare a dei bambini normali un percorso educativo di serie B:
ed è bene ricordare che c’erano scuole speciali dove ogni classe (la prima, la
seconda, ecc.) veniva sistematicamente ripetuta per due anni! La conseguenza
era una prospettiva di lavoro sottoqualificato, che inchiodava il bambino ad un
futuro di marginalità. Questo fu il principale argomento che persuase dapprima
i partiti di sinistra e poi tutti i movimenti politici a proporre l’abolizione
dei percorsi differenziali a scuola e a integrare tutti i bambini, compresi
quelli disabili (vedi De Luca G, Zappella M., L’alba dell’integrazione scolastica, a cura di M. De Luca, Roma, Carocci,
2013).
In
quel contesto ci furono due diversi indirizzi. Da un lato c’erano scuole che
cercavano di adeguarsi per l’accoglienza di bambini con disabilità: ricordo
bene, per esempio, una scuola elementare a Monte San Savino, vicino ad Arezzo,
che nel 1971-72 eliminò gli spazi di una classe speciale che aveva avuto al suo
interno, articolando la didattica in
occasioni comuni come musica, teatro e mimica e mantenendo in altre ore i
bambini con disabilità più gravi in ambienti meglio organizzati per loro. Dall’altro,
invece, i bambini venivano messi in classe con gli altri, indipendentemente dal
grado e tipo di disabilità: lo slogan più comune era “devono fare come gli
altri”, per cui i diversi vanno trattati come i normali; una parola d’ordine che
dopo tanti anni non è scomparsa. Anzi è diventata una indicazione politicamente
corretta.
La
prima svolta istituzionale a questo riguardo è nella legge che nel 1977 istituisce
l’insegnante di sostegno e sposa in pieno il secondo tipo di soluzione, assegnando il sostegno per tempi variabili a
seconda della gravità della disabilità e dando al problema una soluzione
individuale o, si usa dire oggi, ‘personalizzata’. Da allora, con poche
eccezioni, avremo scuole in cui, nella maggior parte dei casi, c’è una
stanzetta dedicata ai bambini più gravi e per il resto tutti i bambini, qualunque
sia la loro difficoltà, sono in classe con gli altri. Non importa che siano
iperacusici e che siano molto disturbati dalla confusione come dal suono della
campanella, come spesso succede con i bambini autistici, che siano vittime del
bullismo o che siano con abilità cognitive lontanissime da quelle degli altri:
devono stare nella classe, quasi fosse un rigido plotone: "per non sentirsi
esclusi" .
La
direttiva del Ministero sui BES del 5.3.13 va oltre le disabilità e si occupa
anche dei ragazzi stranieri che non
conoscono la nostra lingua. Per loro, il buon senso e il confronto con altri
Paesi europei avrebbero dovuto far pensare alla priorità assoluta
dell’apprendimento della lingua italiana e quindi a questo scopo a studenti
stranieri organizzati in maniera omogenea, eventualmente sulla base della loro
lingua madre. Ci si aspetterebbero anche riscontri scientifici sui percorsi di
maggiore validità educativa, visto che il problema esiste da molti anni. Invece
per loro si scrive che “è possibile attivare percorsi individualizzati” e
successivamente frasi stupefacenti come quella per cui “le 2 ore di
insegnamento della seconda lingua nella scuola secondaria di primo grado
possono essere utilizzate anche per potenziare l’uso della lingua italiana”(sic!).
Come se non conoscere la lingua parlata in classe fosse piccola cosa che si può
risolvere utilizzando le ore della seconda lingua o con percorsi
individualizzati che non vengono definiti. Nei fatti ci si può immaginare che per
molte ore i ragazzi stranieri siano costretti a stare in classe anche se non
capiscono nulla di quello che si dice. Se questo fosse vero anche in piccola
parte, questo tipo di ‘personalizzazione’ riuscirebbe paradossalmente ad avere
per i figli degli immigrati precisamente quello che le scuole differenziali
ottenevano per i figli dei nostri emigrati prima di quarant’anni fa: li porterebbe
in un percorso educativo deprivato. Come allora i figli degli immigrati italiani,
bambini normali il cui limite era nel dialetto e nella deprivazione culturale
familiare, lasciati in classi differenziali erano condannati a un percorso
lavorativo di quart’ordine, lo stesso verrebbe prospettato per i figli degli
immigrati stranieri. La vera esclusione difatti non è nello spazio, ma nel tipo
di percorso educativo: in questo caso del tutto inadeguato al punto di non capire
nulla di quanto si dice o scrive in classe e gravemente impoverito rispetto
alle possibilità di questi ragazzi che sono normali e hanno diritto a conoscere
innanzitutto la lingua e la cultura del Paese dove vanno, per poter avviare un
percorso educativo valido come gli altri.
Qualche
commento aggiuntivo merita il GLI (Gruppo di lavoro per l’Inclusione) che
verrebbe ad avere nella scuola un ruolo predominante su vari aspetti
dell’inclusione. Non è una novità: in Toscana abbiamo già avuto negli anni
ottanta nelle USL il GOIF (Gruppo Operativo Istituzionale Funzionale), un
gruppo numeroso e composto da diverse professionalità che si riuniva
mensilmente. Lì i vari casi di disabilità venivano passati in rassegna da
persone che in grande maggioranza non li conoscevano, spesso con proposte del
tutto inadeguate, danneggiando così l’alunno in questione, in quanto nel
rapporto tra insegnanti di classe e specialisti si inseriva come un corpo
estraneo questo sciagurato raggruppamento. Il GLI appare come un simile
collettivo giudicante, del tutto inadatto a gestire sia il singolo alunno in
difficoltà che grandi fenomeni come, per esempio, il bullismo, che riguarda sia
alunni normali (in particolare quelli più bravi) sia quelli con disabilità, come i
ragazzi con ADHD (iperattivi) e i soggetti autistici di discreta intelligenza. Ebbene,
se si guarda la letteratura internazionale, le strategie più efficaci per contrastare
questo fenomeno, presuppongono il coinvolgimento dell’intera scuola,
comprendendo tutti i docenti, gli studenti e i rappresentanti dei genitori, per
strutturarsi poi, con precise strategie e sanzioni, nelle singole classi (Olweus
Dan, Promoting Education, 1, 27-31, 1994;
Vreeman R.C. et al, “Archives Pediatric and Adolescent Medicine” 161, 78-88,
2007).
In
questo modo nei Paesi scandinavi il bullismo è potuto scendere a valori sul 6%. Non è dunque strano che l’Italia, che da
decenni si trastulla tra prospettive ‘personalizzate’ e collettivi giudicanti
del genere sopra indicato, abbia insieme alla Lituania il primato del bullismo tra
i Paesi occidentali, con percentuali attorno al 40% (Due P. et al, “European Journal
of Public Health” 15, 128-32, 2005).
Questo
perché, ripeto, vi sono problemi, come quello appena citato, che vanno
affrontati dall’intera comunità scolastica e poi suddivisi in tempi e modi
successivi più specifici. Altre questioni relative, per esempio, a luoghi ben
attrezzati di tempo libero di cui vari alunni con disabilità hanno, periodicamente,
bisogno vanno anch’esse valutate a livello di comunità scolastica: se, invece,
questi e altri bisogni sono ignorati, l’alternativa è passeggiare nel
corridoio. Lo stesso discorso può essere fatto per intolleranze sensoriali e
anche per particolari esigenze
didattiche.
Non affrontare questi problemi vuol dire avere
una scuola rigida, incapace di modularsi e adattarsi rispetto a difficoltà e
devianze. Legata a stereotipi della parte più rozza di un periodo
antistituzionale ormai lontano nel tempo. Troppo spesso la scuola propone solo
la classe come luogo elettivo di socialità e in questo modo rischia di non
garantire la crescita intellettuale, emotiva e sociale di chi è diverso per
lingua madre o per difficoltà e disabilità di qualunque genere.
Michele
Zappella
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