martedì 24 aprile 2012

POCHI FATTI, MOLTA DEMAGOGIA

Con poche idee, con poco interesse per il futuro e senza alcuna intenzione di dare il buon esempio, il ceto politico (senza trascurare le responsabilità sindacali) da anni esprime una "politica" volta a garantire innanzitutto la propria sopravvivenza. Rispetto alle famiglie, mentre la Francia dispiegava politiche di sostegno alle nascite di notevole efficacia, da noi, come sappiamo, si è fatto ben poco, a cominciare dalla scarsa diffusione degli asili nido e delle scuole materne statali (forse perché queste avrebbero insidiato il quasi-monopolio di quelle private?). E se la scuola non funziona, anziché prendersi le proprie responsabilità, ministri e partiti hanno volentieri dato la colpa ai docenti, in quanto attardati su metodologie e mentalità superate, e periodicamente condotto vere e proprie campagne di "rieducazione" didattica, con la connivenza della maggioranza dei sindacati che dovrebbero in teroria rappresentarli e difenderli. 
Ma se si tratta di intercettare il consenso delle famiglie con prese di posizione demagogiche, ecco che, senza un minimo di approfondimento o di confronto con gli addetti ai lavori, anche un ministro “tecnico” non esita a schierarsi a favore di chi vuol essere innanzitutto alleggerito dal peso di doversi occupare dei compiti scolastici (pensate un po') dei propri figli. Innanzitutto accontentare, laddove ciò non costa assolutamente nulla, sembra un vizio evidentemente destinato a persistere in chi si occupa di scelte di carattere educativo e formativo. Questa, purtroppo, appare la strada imboccata anche dal nuovo ministro, a cui consigliamo di guardare al mondo della scuola e alla professionalità dei docenti con molta maggiore attenzione e soprattutto ci permettiamo d’invitarlo a occuparsi dei problemi veri e non rinviabili della scuola, anziché di certe temi più degni di un rotocalco da sala d’aspetto.

Valerio Vagnoli

DANTE SOSTITUITO CON DE ANDRÉ. ANCHE A SCUOLA VINCE IL POPULISMO, di Paolo Di Stefano

All’insegna della modernità, del richiamo mediatico e magari del marketing dell'orientamento scolastico, a Bologna un liceo si spoglia del nome polveroso di Dante Alighieri e lo sostituisce con quello più seducente di Fabrizio De Andrè (con il massimo rispetto per il grande cantautore, viene in mente il Liceo Marilyn Monroe nel film “Bianca” di Nanni Moretti).
A quanto pare la scelta è avvenuta in base all’idea per cui la canzone è la stessa cosa della poesia, negando di fatto il valore e la specificità, dell'una e dell'altra. Non possiamo non esser d'accordo con l'allarme di Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera, che nelle scuole vede i rischi di una deriva populista “per cui tutto va programmaticamente confuso con tutto” e della progressiva perdita della memoria storica e culturale del nostro Paese. (SC)

Un intero consiglio di istituto si mobilita per chiedere alla giunta comunale di Bologna di cambiare nome a una scuola secondaria. Il nome proposto è quello di Fabrizio De Andrè. Quello precedente? Dante Alighieri. E il Comune cosa fa? Approva. Con una magniloquente «delibera»: «La produzione artistica di Fabrizio De Andrè, ponendo l' attenzione verso gli esclusi e verso il senso profondo della libertà interiore, ha saputo dimostrare che anche la canzone, quando è opera di alto livello, si configura come nuova letteratura e nuova poesia popolare e che, proposta ai ragazzi con l' immediatezza del linguaggio musicale, può avviarli ed accompagnarli in un percorso di appropriazione della cultura in tutte le sue forme espressive sino alle più complesse». Niente da dire sulla grandezza di De Andrè, cantante e cantautore eccelso. La solita banalità, però, (lo dimostra la «delibera») lo vorrebbe poeta, come se non gli bastasse la qualifica di ottimo cantante; ma i poeti sono altri, che in compenso non sono cantanti né cantautori, così come gli ottimi pittori non necessariamente sono ottimi imbianchini, anche se questi e quelli lavorano con il colore. Bisognerebbe poter entrare nelle teste dei prof che hanno preso questa iniziativa per capire cosa li ha spinti a rinunciare a Dante Alighieri. Troppo abusato? Poco trendy? Poco pop? Poco intonato? Poco immediato? C' è un intollerabile populismo che ha invaso il tessuto culturale e politico, per cui tutto va programmaticamente confuso con tutto: il che è negativo in linea generale, ma soprattutto è nefasto se applicato alla scuola, dove invece bisognerebbe insegnare (e imparare) a distinguere non solo i valori ma le specificità, anche se le antologie letterarie contemplano, a volte, i cantautori, e anche se sono state consegnate lauree honoris causa alle star del rock e dello sport. E poi, vedersi intitolare un istituto scolastico, probabilmente non piacerebbe neanche al grande Faber, che ha fatto della marginalità anti-istituzionale la sua poetica. Infine, visto che siamo a Bologna: a quando una Università Lucio Dalla?
Paolo Di Stefano
22 aprile 2012

venerdì 20 aprile 2012

ALCUNE RIFLESSIONI SULLA SCUOLA ITALIANA


Torino, 1-3-2006

Caro Ragazzini,
grazie per il testo sui problemi della scuola,
che ho letto con grande interesse.
Nonostante la sua brevità (o forse anche per questo),
mi sembra la migliore diagnosi dei mali della scuola italiana
che mi sia capitato di leggere negli ultimi 10 anni,
insieme a "Segmenti e bastoncini" di Lucio Russo.
[...]
Un cordiale saluto
Luca Ricolfi

1. Una scuola per tutti = una scuola più facile ?



È possibile che una scuola di massa sia anche una scuola seria e rigorosa? Noi pensiamo di sì, e crediamo che sia stata una precisa responsabilità della classe politica italiana nel suo insieme non tanto di non essere stata capace di realizzare questo obbiettivo, quanto di non averlo voluto perseguire.
Con le riforme attuate tra gli anni Sessanta e Settanta, la Scuola media unica (1962), la Scuola materna statale (1968), il tempo pieno (1971), fu avviato un mutamento profondo, che ha sostanzialmente garantito l’accesso allo studio dei ragazzi di tutti gli strati sociali. Era certamente indispensabile anche un complessivo ripensamento dei programmi e della didattica, ma non era inevitabile la progressiva, inarrestabile dequalificazione, che la scuola italiana ha subito negli anni successivi.
La responsabilità primaria di questa decadenza è certamente della classe politica che ha spesso operato secondo l’equazione scuola per tutti=scuola più facile, mirando essenzialmente all’acquisizione del consenso.
Una convergente responsabilità è da attribuire ad una cultura pedagogica (e sociologica) che ha ritenuto coerente con la scolarizzazione di massa l’eliminazione di qualsiasi forma di selezione meritocratica, vista come uno strumento di discriminazione sociale, e ha caricato la scuola di compiti in larga misura impropri, come quello di far fronte a tutte le forme possibili e immaginabili di disagio, individuale e sociale, salvo poi colpevolizzare la scuola stessa, e in particolare gli insegnanti, quando appariva inadeguata allo scopo.
Questa cultura, che schematicamente si definisce cattocomunista, consiste in una miscela di paternalismo, spirito missionario, buonismo, egualitarismo acritico, quanto di più lontano insomma da una visione laica e realistica della scuola e dell’individuo, e ha prodotto una visione sostanzialmente assistenziale della scuola, luogo primario di “socializzazione”, piuttosto che di crescita culturale e civile e di maturazione dello spirito critico. E, cosa ancora più grave, ha provocato una grave crisi dei ruoli educativi (genitori e insegnanti), tutti e due fortemente indeboliti nella loro capacità di guidare i giovani con la fermezza indispensabile alla loro maturazione emotiva. La giusta critica all’autoritarismo e alla selezione di classe sono degenerate in una svalutazione del merito, dell’impegno, della responsabilità individuale, del rispetto delle regole, dell’idea che in una collettività i comportamenti scorretti comportino una sanzione.
Oggi, come è naturale, le originarie motivazioni ideali (o ideologiche) si sono assai attenuate, ma molti aspetti di quella visione si sono profondamente radicati nella scuola e costituiscono il substrato comune alle scelte politiche dei due schieramenti, presente sia nella Riforma Berlinguer che nella Riforma Moratti.
Ci riferiamo all’idea di scuola come di un “servizio” da “erogare” in funzione delle esigenze del “cliente-studente”; ad una didattica largamente depurata da difficoltà concettuali e sempre meno finalizzata allo sviluppo di strumenti critici; alla progressiva invasione di tutte le possibili educazioni (alla salute, alla legalità, stradale, sessuale, alimentare, all’uguaglianza, alla diversità...), non di rado proposte da enti e operatori esterni, con l’intento di portare il mondo dentro le aule scolastiche, mentre prendono la fuga ben più rilevanti contenuti disciplinari.
Il processo degenerativo si è aggravato con l’introduzione dell’Autonomia scolastica (1997/99), utilizzata quasi esclusivamente per promuovere l’immagine della scuola, proponendo agli studenti-clienti un variegato ventaglio di attività aggiuntive pomeridiane, in gran parte di limitato spessore culturale e formativo (con qualche rara e meritoria eccezione). Così i progetti più discutibili, le associazioni di ogni tipo, gli esperti di qualsiasi argomento, si sono impossessati di una fetta consistente dell’istruzione (e del relativo business).
Con la Riforma Moratti la centralità dello studente-cliente e il coinvolgimento delle famiglie nelle scelte didattiche e formative sono entrati nella scuola per legge, secondo una filosofia che è in sostanziale continuità con il percorso che abbiamo tratteggiato.
In conclusione: il diritto allo studio, che è anche diritto dei “capaci e meritevoli anche se privi di mezzi....di raggiungere i gradi più alti degli studi” è divenuto diritto al successo formativo, concetto in cui finalmente si azzera qualunque responsabilità dei discenti.
Ma un sistema di istruzione dequalificato, ancorché gratuito, sarà di fatto un sistema classista, se non sarà in grado di fornire ai “capaci e meritevoli” gli strumenti culturali e professionali necessari per raggiungere le mete a cui aspirano.


2. “Liberalizzare” la pedadogia e la didattica


È urgente liberare la scuola dall’idea che i docenti si debbano conformare a verità pedagogiche e didattiche imposte dall’alto. Va detto a chiare lettere che negli ultimi decenni si è dispiegata una pervasiva operazione politico-culturale da parte di una potente lobby, che comprende i sindacati confederali, le facoltà di scienze dell’educazione, gli IRRE e che ha ispirato tutti i Ministri della Pubblica Istruzione. Obbiettivo: diffondere capillarmente una pedagogia e una didattica di Stato, trasformando in suoi esecutori i docenti italiani, considerati in maggioranza impreparati e neghittosi. Si è trattato di una vera e propria campagna di rieducazione, che ha finito per creare un autentico regime culturale. Leggi, decreti, ordinanze e circolari hanno riversato sulla scuola orientamenti e prescrizioni di carattere metodologico a cui conformarsi in modo acritico: dall’ossessione programmatoria e valutativa al portfolio, dall’orientamento come chiave di tutto alla mitizzazione della continuità tra i diversi ordini di scuola, dalla svalutazione dei contenuti disciplinari all’informatizzazione come salvezza di una scuola arretrata.
Contro questa cappa dirigista e statalista e a favore del libero confronto delle idee e delle esperienze professionali è necessario impegnarsi per una vera e propria “liberalizzazione della didattica”. Nella formazione dei futuri docenti, questo significa incardinarla su un ampio confronto fra le più varie impostazioni, senza ortodossie di alcun genere. Nella pratica professionale, va garantita agli insegnanti la più ampia libertà metodologica, come vuole la Costituzione. Quanto all’aggiornamento, va basato essenzialmente sul metodo seminariale tipico del lavoro scientifico-culturale, con l’adeguata valorizzazione delle competenze interne alle scuole, in alternativa all’ invasione di esperti esterni. Nella legislazione scolastica, infine, si dovrà sempre fare la massima attenzione a non interferire nella sfera delle scelte di metodo, che spettano ai singoli docenti, così come spetta al medico scegliere le terapie appropriate.


3. Liberare la professionalità dei docenti


Accanto ai provvedimenti per garantire la necessaria libertà nella scuola, che certo non significa rifiuto di ogni limite e controllo, sono indispensabili quelli – in un certo senso complementari – relativi a una compiuta “professionalizzazione” del corpo docente.
Come per le altre categorie di professionisti, proprio in un’autentica autonomia professionale si radica il diritto-dovere di partecipare sia all’elaborazione dei principi etico-deontologici a cui ispirarsi nel proprio lavoro, sia di essere consultati come categoria professionale in merito alle politiche scolastiche al di fuori delle logiche puramente sindacali fin qui dominanti. In questa direzione sarebbe importante rilanciare l’idea di un organismo tecnico come quello ipotizzato da alcune associazioni professionali (con il nome di Consiglio Superiore della Docenza) e già proposto in due progetti di legge sullo Stato giuridico presentati in questa legislatura, lasciandosi alle spalle lo sclerotico Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, fondato sulla cosiddetta “partecipazione democratica” (associazioni di genitori, sindacati confederali, enti vari e via dicendo).
Per quanto riguarda la valutazione dei docenti, infine, anziché avventurarsi sul terreno impraticabile delle distinzioni di merito (e di stipendio) a parità di lavoro, come tentò di fare Berlinguer con il “concorsaccio”, si dovrà alla fine arrivare a definire, questo sì, il demerito: e cioè quali comportamenti costituiscano gravi inadempienze o inadeguatezze sul piano professionale e quali provvedimenti – più seri e tempestivi di quelli attuali – esse dovrebbero comportare.


4. I “due canali” della Riforma Moratti: una discriminazione classista?


Come è noto, nella Riforma Moratti il Secondo ciclo, cioè la scuola superiore, è costituito da un sistema dei licei e da un sistema di istruzione e formazione professionale, definiti “di pari dignità”. È l’aspetto più aspramente contestato dal centro-sinistra, par di capire senza significative eccezioni, che vede in questa “canalizzazione precoce” una separazione di natura classista tra “ricchi”, destinati agli studi e “poveri”, destinati ineluttabilmente al lavoro, come quella realizzata da Gentile con il Ginnasio e l’Avviamento. Conseguentemente il centro-sinistra pare orientato a proporre un primo biennio unico per tutti, per consentire, si dice, ai ragazzi che escono dalla scuola media e alle loro famiglie una scelta più meditata e consapevole del successivo indirizzo di studi.
Questa posizione a noi pare esclusivamente dettata dal pregiudizio ideologico che contrappone la cultura disinteressata a quella finalizzata all’ingresso nel mercato del lavoro, con una evidente (e molto dannosa) svalutazione della seconda a favore della prima, vista come l’unico possibile strumento di compensazione delle disuguaglianze culturali e sociali.
In ogni caso, agli occhi degli insegnanti che guardino alla propria quotidiana esperienza professionale senza le lenti deformanti dell’ideologia e della polemica politica, questa posizione appare astratta e foriera di ulteriori danni per il sistema scolastico e per tutti i suoi “utenti”.
È sensato ritenere che i ragazzi per i quali durante la scuola media è stato problematico, o addirittura impossibile, persino entrare nell’esperienza dello studio, possano trarre giovamento dal frequentare un biennio in buona parte comune a tutti gli indirizzi di studio? O non ne verranno aggravate inevitabilmente le loro difficoltà, procurandogli ulteriori frustrazioni e il definitivo rifiuto della scuola?
Non sarebbe invece più ragionevole e realistico pensare al sistema di istruzione professionale, piuttosto che come a una bolgia di dannati, come a una chance per tanti ragazzi, come una possibilità di valorizzare altre attitudini e interessi, di ripartire seguendo un percorso magari più personale e gratificante? Non si rischia anche inoltre di soffocare lo sviluppo di una vocazione professionale e di ritardare inutilmente l’inserimento nel mondo del lavoro? Sostiene a questo proposito Giorgio Allulli, dirigente dell’ISFOL, sul sito di “Tuttoscuola”:
“Riproponendo il biennio scolastico a 16 anni si ripropone una soluzione rigida, ignorando tutto il dibattito pedagogico, italiano ed internazionale (vedi l'ultimo numero di Le Monde de l'education) su come rispondere alle necessità di coloro che apprendono secondo stili cognitivi diversi, partendo dalla pratica per arrivare alla conoscenza teorica attraverso la riflessione sulla pratica, e dunque attraverso un processo di apprendimento circolare. Il rischio è quello di perdere i giovani per strada, o di trattenerli fino a 16 anni dentro le aule scolastiche, pluriripetenti esausti e pronti alla fuga da qualsiasi ulteriore proposta formativa.”
Del resto, si può seriamente classificare come una scuola “di serie B” quella che è in grado di fornire adeguati strumenti tecnici e concettuali per progettare e realizzare un gioiello, un manifesto pubblicitario, un circuito elettrico o un software?
A sostegno del “biennio unico” viene addotto l’orientamento maggioritario dell’Europa in questo senso; si dà il caso, però, che negli ultimi anni si registri invece una chiara inversione di tendenza in senso opposto sulla base di risultati non positivi. Scrive Luigi Binanti:
"In Spagna, nel dicembre 2002, è stata approvata una legge che abbassa tale scelta a quattordici anni; in Francia è ormai messo in discussione il College unique (il percorso scolastico uguale per tutti dai quattordici ai sedici anni) che doveva assicurare la diffusione dell'istruzione e che invece, ogni anno, registra tassi di abbandono scolastico che toccano il 30% degli allievi; nel Regno Unito si tende a modificare l'ordinamento che prevede fino a sedici anni un percorso didattico identico per tutti gli studenti".
Risulta invece assai positiva l’esperienza della provincia autonoma di Trento, che ha ridotto drasticamente l’abbandono scolastico (8% contro il 20-25% nazionale) proprio costruendo un sistema a “due gambe” analogo a quello varato dalla riforma Moratti, .
Quello che si deve soprattutto chiedere è che anche il sistema dell’istruzione e formazione professionale sia di qualità elevata, cioè che la “pari dignità” dei due canali sia effettiva e non solo proclamata.
In conclusione ci pare che, al termine del primo ciclo, la possibilità di esercitare una libera scelta sia, come sempre, da preferire all’imposizione di un modello unico, con cui si coltiva solo l’illusione di generare per decreto condizioni di maggiore uguaglianza.


Sergio Casprini, Andrea Ragazzini, Giorgio Ragazzini, Valerio Vagnoli.

Firenze, 17 dicembre 2005


(con alcune successive integrazioni)





martedì 17 aprile 2012

REVOLUTION NUMBER 2, OVVERO IL FUTURO IN STILE ANNI SETTANTA

Niente compiti a casa e per l'estate, no ai temi, no alla lezione frontale, no alle file di banchi, no alle nozioni, sì al metodo di studio (imparare a imparare). E tanto tempo libero per seguire le proprie passioni...
Una vera e propria antologia dei luoghi comuni che hanno infestato e infestano la scuola negli ultimi quarant'anni. È questa la ricetta che Maurizio Parodi - preside e pedagogista comandato all'IRRE della Liguria dal 1988 - espone nel suo libro Basta compiti! Non è così che si impara. Leggi

ECCO L'ENNESIMA "RIVOLUZIONE" DIDATTICA (PER LA SERIE "INSEGNARE AGLI INSEGNANTI")

Che sciocchi a non averci pensato prima. Leggi.

domenica 15 aprile 2012

STUDENTI O CLIENTI?

Riceviamo dal professor Dei, autore del libro Ragazzi si copia, una riflessione della collega Marcella Bellini, docente di italiano e latino nel Liceo scientifico Vito Volterra di Ciampino. Tra le altre cose, l'autrice sostiene che, nei dirigenti e negli insegnanti, il facilitare,  il lasciar copiare e in qualche caso il passare il compito d'esame derivano anche dall'esigenza di tenersi stretti i "clienti".

Nel corso degli anni si è verificato un significativo cambiamento culturale e terminologico nella scuola media italiana; gli studenti sono diventati progressivamente “utenti” dell’offerta formativa, utenti che a loro volta stanno trasformandosi in “clienti” che acquistano un prodotto. Da diverso tempo assistiamo a una vera e propria “caccia al cliente” nelle scuole medie – sia inferiori che superiori – alimentata dal terrore della contrazione che, se riguarda il numero degli alunni, riguarda pericolosamente anche il numero degli insegnanti.
D’altra parte si discute di quali debbano essere gli indicatori di qualità dell’offerta formativa, per stabilire criteri che distinguano le scuole “buone” da quelle “meno buone”.
Le due questioni poste trovano un punto di convergenza e si fondono nella seguente domanda: può essere considerato indicatore di qualità di una scuola superiore il basso numero di alunni che, nei primi mesi dell’anno scolastico, chiedono il nulla osta per trasferirsi in altro istituto? Il genitore che chiede al preside di poter iscrivere il figlio in altro istituto, con la specifica ed esplicitamente dichiarata motivazione che il ragazzo studia troppo e vorrebbe ottenere valutazioni più alte, pur studiando meno – dando per scontato, ovviamente, di aver trovato una scuola in cui questo è possibile, confermando l’estrema differenziazione dell’offerta formativa della scuola media superiore – può essere definito un cliente insoddisfatto? Il prodotto che gli è stato offerto non è di suo gradimento, pertanto si rivolge altrove per ottenere maggiore gratificazione. Arrivando al caso specifico da cui sono nate queste riflessioni, può dirsi un dirigente attento alla qualità dell’insegnamento chi, per non perdere un “cliente”, avalla le richieste del genitore facendo riflettere i docenti sull’opportunità di non esercitare troppa “pressione” sugli studenti per non farli andare via? O chi reputa “disumano” il docente che richiede impegno e costanza nello studio?
Ritengo che queste situazioni paradossali si creino a causa del generale, profondo degrado in cui versa la scuola italiana. Alla continua, inesorabile e più o meno sotterranea tendenza a delegittimare il ruolo del docente e la sua funzione educativa, culturale, sociale e, perché no, morale, si affianca un’altra componente pericolosa nei trend educativi odierni. Mi sto riferendo alla miscela di iperprotettività e di permissivismo indiscriminato dei genitori nei confronti dei figli. Assisto a ogni giorno a manifestazioni plateali di incapacità di elaborare delusioni e fallimenti – di tipo scolastico, si intende – da parte degli studenti, sempre meno disposti al sacrificio e sempre meno disposti ad accettare che, per ottenere dei risultati, bisogna faticare. Il loro slogan è: raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo, supportati anche dagli esempi che gli si pongono dinanzi ogni giorno in quasi tutti gli ambiti dell’agire sociale. Ecco allora che i docenti e i dirigenti che non vogliono perdere alunni metteranno in atto tutte le strategie necessarie per tenerseli stretti: abbassare il livello dell’insegnamento, convincere gli insegnanti ad essere più morbidi, facilitare le verifiche, chiudere un occhio se un alunno in classe copia e, da ultimo, passare il compito di maturità, visto che con un tale curriculum didattico lo studente difficilmente sarà in grado di svolgere il compito con le proprie forze, senza “aiutini” esterni.
Temo purtroppo che una scuola che educa ancora al lavoro, all’impegno e alla determinazione nel tendere a un obiettivo sia una scuola obsoleta e anacronistica e, nel migliore dei casi, giudicata “bacchettona”. Quello che conta è la soddisfazione del cliente: se un prodotto costa troppo egli si rivolgerà altrove, dove ciò che cerca sarà svenduto a saldo nei nuovi discount della cultura.
Marcella Bellini - Docente di Italiano e Latino - Liceo scientifico Vito Volterra Ciampino - Roma

lunedì 9 aprile 2012

UNA LETTERA (CRITICA) AL "SOLE 24ORE" SULL'USO NELLA SCUOLA DELLE TECNOLOGIE DIGITALI

Ieri il supplemento domenicale del Sole 24 Ore pubblicava la lettera di un insegnante critico nei confronti del giornale, che da diversi numeri fa una campagna a favore dell'introduzione di tecnologie digitali nella scuola, in nome di una didattica alternativa e motivante per i cosidetti "nativi digitali", una didattica che secondo il quotidiano di Confindustria presuppone una nuova figura di docente (vedi l'articolo di Sergio Luzzato sul domenicale precedente).  (SC)
Insegno da 30 anni. Dagli inizi della mia carriera mi sento predicare dal cattedratico di turno che la scuola è fuori dalla realtà, prima perché non inseguiva la tv, poi perché ignorava i video giochi, adesso perché non usa internet e i social network. L’ultima predica viene proprio dagli articoli dell’ultimo numero dell’inserto culturale del Sole 24 ore di domenica 8 Aprile.
Ora lasciamo stare il fatto che quasi tutti gli insegnanti- al contrario di quanto si pensa e con pochissime eccezioni- sono oggi ferrati come i loro studenti nell’uso del computer e dei suoi linguaggi e, quando davvero servono, li usano anche in sede didattica. Lasciamo stare che i tagli alla scuola permettono un uso molto limitato nell’istruzione pubblica del mezzo elettronico, compresa la decantata (e secondo me- si badi bene- utilissima) lavagna interattiva.
Il punto non è questo. Il punto è che Dante o Leopardi, che siano letti su un tablet o su un libro, che siano presentati con PowerPoint o con una lezione tradizionale, per essere assimilati e digeriti (fatti propri) da un ragazzo - di oggi come di ieri - hanno bisogno della sensibilità, del talento e della preparazione dell’insegnante, così come della disponibilità e della fatica dello studente; la fatica di imparare l’italiano letterario, di ragionare sulla forma e sul contenuto di un testo, di confrontarlo con altri testi dello stesso autore, eccetera. Insomma la brillantezza e la potenza tecnologica del mezzo non può eliminare la fatica e il conseguente – possibile- gratificante piacere dell’apprendimento inteso come sistematica, critica e approfondita assimilazione di concetti e di metodi. Un apprendimento che la babele caotica, incontrollabile e puramente informativa del web non può né dare né sopperire. Anzi, per lo più, il web rema in direzione contraria: quella della destrutturazione e della frantumazione del sapere in frammenti dispersi nella rete come i relitti di una nave sulla superficie del mare.
Perciò la tecnologia digitale oggi rimane certo un formidabile strumento informativo e comunicativo, ma non può risolvere affatto il problema educativo proponendosi come alternativa epistemologica. Anzi, lo complica e lo ostacola non poco.
Paolo Mazzocchini

martedì 3 aprile 2012

PRIMO PASSO PER IL NUOVO GOVERNO DELLA SCUOLA. MA RIMANE LA CONFUSIONE DEI RUOLI

Con un intervento di Pierluigi Alessandrini, preside dell’Istituto Comprensivo di Sabbioneta (Mantova), riapriamo la discussione sul governo della scuola, alla luce del testo approvato il 22 marzo scorso in sede referente dalla Commissione Cultura della Camera dei Deputati (in coda al testo di Alessandrini). Naturalmente ci torneremo.
Chi volesse inviarci un commento, può farlo all’indirizzo gruppodifirenze@libero.it .
Ai due indirizzi qui di seguito si possono leggere due nostre note del 2009 in merito alla questione:
http://gruppodifirenze.blogspot.it/2009/08/come-sottolinea-il-commento-di-sergio.html
http://gruppodifirenze.blogspot.it/2009/08/note-sul-governo-della-scuola-2-dal.html


Vorrei sollevare il problema della riforma degli Organi Collegiali, attualmente in discussione, per porre la questione della presidenza dell'organismo "Consiglio della scuola" (ex Consiglio d'Istituto).
Al suo interno potranno finalmente entrare di diritto i finanziatori (nel primo ciclo gli enti locali, che attraverso il diritto allo studio assicurano la funzionalità delle scuole), ma la presidenza resterà affidata a un genitore. Questo punto mi pesa particolarmente, a seguito dell'ingresso in campo dell'autonomia scolastica.
Qualche buontempone asserisce che "l'autonomia del dirigente esce rafforzata dagli ultimi provvedimenti", ad esempio per l'assegnazione del personale ai plessi e alle classi. Mi vien da ridere: nemmeno le sentenze dei tribunali hanno dato un univoco orientamento, parteggiando ora per l'una ora per l'altra interpretazione e disorientando completamente i dirigenti scolastici.
Ma tornando alla presidenza di un organo così importante, fino ad oggi non si poteva far altro che tenerli in questa forma, in quanto i decreti del 1974 non potevano essere disattesi, anche dopo il sostanzialmente diverso quadro uscito nel 2001 con l'avvento dell'autonomia. Ma oggi il senso della presidenza ad un genitore dove trova il suo fondamento? Lasciamo per un attimo da parte i voli politicamente alti, che solitamente non portano risultati perché scollegati dalla realtà. Quale competenza e disponibilità di tempo potrà avere un genitore per presiedere tale organo? Quale disponibilità potranno avere i membri per far funzionare tale organo in modo diverso da quello odierno, attraverso gruppi di lavoro, commissioni ed altro, per creare le decisioni che oggi vengono proposte, sintetizzate e spiegate al consiglio dal dirigente scolastico?
Ritengo che una legge così nuova, che ci dovremo tenere per un elevato numero di anni, non possa prescindere dal considerare che il populismo deve lasciare il posto all'efficacia e all'efficienza. Chi ha competenze e tempo per elaborare indirizzi culturali, progetti e azioni è corretto che li presieda e li governi, altri soggetti avranno altri compiti che potranno essere di controllo e di valutazione.
Vorrei anche sottoporre alla riflessione la modalità delle elezioni del prossimo organo collegiale: nella informativa ai genitori verrà inserito l'elenco dei compiti del consigliere e del presidente (che necessariamente dovrà essere un consigliere genitore tra gli eletti) e la necessità del presidente di tracciare le linee di lavoro dell'organo collegiale, con tempi, argomenti, attribuzioni di compiti, eccetera.
Sono curioso di sapere quanti genitori si dichiareranno disponibili ad accettare di essere eletti in un tale organo. Perché nella scuola a seguito di questo provvedimento sarà effettivamente quello che dovrà fare.
Una seconda riflessione: la futuribile valutazione del merito dei dirigenti dovrà tenere conto della marginalità della sua figura all'interno del nuovo quadro, che limita la sua funzione all'aspetto esclusivamente gestionale.
I risultati di gradimento scolastico da parte del pubblico, di allocazione di risorse nel programma annuale, di ricerca di fonti di finanziamento esterne non potranno più essere oggetto della valutazione di merito, a causa della marginale influenza del prèside all'interno del Consiglio della scuola, dove vige il principio "una testa un voto".
Faccio l'esempio di alcune voci relative ai compiti del Dirigente inserite nel suo contratto individuale: "Predispone un piano di miglioramento dell'Offerta Formativa della propria scuola...", oppure "promuove e sviluppa... l'autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo...". Tutto questo con un genitore come presidente del Consiglio della scuola!!
È chiaro che si valuta una cosa che deriva dalle decisioni di un organo collegiale e non dalla propria capacità operativa. E non mi si dica che il presidente ed il dirigente lavorano in stretto rapporto per concordare strategie, tempi e modalità: significa che a tu per tu il dirigente spiega, ipotizza, propone e il presidente, dopo domande di approfondimento ed eventuali suoi apporti, assume. In pratica il lavoro è fatto dal dirigente, ma il merito è del presidente. Ancora una volta si predilige la facciata invece della autorevolezza del percorso. Naturalmente, su quasi 11.000 scuole, ci saranno anche situazioni che sono funzionanti grazie a genitori competenti, attivi e disponibili. Ma la maggior parte delle scuole non funziona così.
Non è ancora arrivato il momento di togliere la separazione tra DIRE e FARE? Perché si continuano a ipotizzare situazioni che confliggono in teoria e in pratica? Perché le ipotesi che si fanno considerano i vari ruoli solo in maniera teorica e non considerano l' “effetto domino” di un provvedimento?
Da ultimo sono a sottolineare che la rappresentanza legale dell'istituzione è attualmente del dirigente scolastico. Ma si è mai visto che tale compito venga svolto da chi non detiene la carica di Amministratore Delegato?
Deve essere automatico che chi paga di persona è colui che guida, altrimenti la rappresentanza legale con oneri ed onori deve essere spostata sul presidente del Consiglio della scuola.

Pierluigi Alessandrini


22.3.2012

Norme per l'autogoverno delle istituzioni scolastiche statali
(C. 953 Aprea e abbinate, C. 806, C. 808 e C. 813 Angela Napoli, C. 1199 Frassinetti, C. 1262 De Torre, C. 1468 De Pasquale, C. 1710 Cota, C. 4202 Carlucci e C. 4896 Capitanio Santolini).


TESTO UNIFICATO RISULTANTE DAGLI EMENDAMENTI APPROVATI

Capo I

AUTONOMIA STATUTARIA DELLE ISTITUZIONI SCOLASTICHE STATALI

Art. 1.

(L'autonomia scolastica e le autonomie territoriali).

1. L'autonomia delle istituzioni scolastiche, sancita dall'articolo 117 della Costituzione, è riconosciuta sulla base di quanto stabilito dall'articolo 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, e dal decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275.

2. Ogni istituzione scolastica autonoma, che è parte del sistema nazionale di istruzione, concorre ad elevare il livello di competenza dei cittadini della Repubblica e costituisce per la comunità locale di riferimento un luogo aperto di cultura, di sviluppo e di crescita, di formazione alla cittadinanza e di apprendimento lungo tutto il corso della vita. Lo Stato, le Regioni e le autonomie locali contribuiscono al perseguimento delle finalità educative delle istituzioni scolastiche esercitando le funzioni previste dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e successive modificazioni. Vi contribuiscono, altresì, le realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi, ciascuna secondo i propri compiti e le proprie attribuzioni.

3. Alle istituzioni scolastiche è riconosciuta autonomia statutaria, nel rispetto delle norme generali di cui alla presente legge.

4. Gli statuti delle istituzioni scolastiche regolano l'istituzione, la composizione e il funzionamento degli organi interni nonché le forme e le modalità di partecipazione della comunità scolastica.

5. Gli organi di governo delle istituzioni scolastiche promuovono il patto educativo tra scuola, studenti, famiglia e comunità locale, valorizzando:

a) il diritto all'apprendimento e alla partecipazione degli alunni alla vita della scuola;

b) il dialogo costante tra la professionalità della funzione docente e la libertà e responsabilità delle scelte educative delle famiglie;

c) le azioni formative ed educative in rete nel territorio, quali piani formativi territoriali.

Art. 2.

(Organi delle istituzioni scolastiche).

1. Gli organi delle istituzioni scolastiche sono organizzati sulla base del principio della distinzione tra funzioni di indirizzo, funzioni di gestione e funzioni tecniche secondo quanto previsto al presente articolo. Sono organi delle istituzioni scolastiche:

a) il consiglio dell'autonomia, di cui agli articoli 3 e 4;

b) il dirigente, di cui all'articolo 5, con funzioni di gestione;

c) il consiglio dei docenti con le sue articolazioni: consigli di classe, commissioni e dipartimenti di cui all'articolo 6;

d) il nucleo di autovalutazione di cui all'articolo 8.

2. Nel rispetto delle competenze degli organi di cui ai commi precedenti, lo Statuto prevede forme e modalità per la partecipazione di tutte le componenti della comunità scolastica.

Art. 3.

(Consiglio dell'autonomia).

1. Il consiglio dell'autonomia ha compiti di indirizzo generale dell'attività scolastica. In particolare:

a) adotta lo statuto;

b) delibera il regolamento relativo al proprio funzionamento;

c) adotta il piano dell'offerta formativa elaborato dal consiglio dei docenti ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica n. 275 del 1999;

d) approva il programma annuale e, nel rispetto della normativa vigente in materia di contabilità di Stato, anche il bilancio pluriennale di previsione;

e) approva il conto consuntivo;

f) delibera il regolamento di istituto;

g) designa i componenti del nucleo di autovalutazione, di cui all'articolo 8;

h) approva accordi e convenzioni con soggetti esterni e definisce la partecipazione ai soggetti di cui all'articolo 10.

i) modifica, con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, lo statuto dell'istituzione scolastica, comprese le modalità di elezione, sostituzione e designazione dei propri membri.

2. Per l'esercizio dei compiti di cui alle lettere da c) a g) è necessaria la proposta del dirigente scolastico.

3. Il consiglio dell'autonomia dura in carica tre anni scolastici ed è rinnovato entro il 30 settembre successivo alla sua scadenza

4. In sede di prima attuazione della presente legge, lo Statuto e il regolamento di cui al comma 1, lettera a), sono deliberati dal consiglio di circolo o di istituto uscenti, entro 90 giorni dall'entrata in vigore della legge. Decorsi sei mesi dall'insediamento, il consiglio dell'autonomia può modificare lo Statuto e il regolamento deliberato ai sensi del presente comma.

5. Lo statuto deliberato dal consiglio dell'autonomia non è soggetto ad approvazione o convalida da parte di alcuna autorità esterna, salvo il controllo formale da parte dell'organismo istituzionalmente competente.

6. Nel caso di persistenti e gravi irregolarità o di impossibilità di funzionamento o di continuata inattività del consiglio dell'autonomia, l'organismo istituzionalmente competente provvede al suo scioglimento, nominando un commissario straordinario che resta in carica fino alla costituzione del nuovo consiglio.

Art. 4.

(Composizione del Consiglio dell'autonomia).

1. Il Consiglio dell'autonomia è composto da un numero di membri compreso fra nove e tredici. La sua composizione è fissata dallo Statuto, nel rispetto dei seguenti criteri:

a) il dirigente scolastico è membro di diritto;

b) la rappresentanza dei genitori e dei docenti è paritetica;

c) nelle scuole secondarie di secondo grado è assicurata la rappresentanza degli studenti;

d) del consiglio fanno parte membri esterni, scelti fra le realtà di cui all'articolo 1 comma 2, in numero non superiore a due;

e) un rappresentante dei soggetti di cui all'articolo 10, su invito, può partecipare alle riunioni che riguardano le attività di loro competenza, senza diritto di voto.

2. Le modalità di costituzione delle rappresentanze dei docenti, dei genitori e degli studenti sono stabilite dal regolamento di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b). I membri esterni sono scelti dal consiglio secondo modalità stabilite dal suddetto regolamento.

3. Il consiglio dell'autonomia è presieduto da un genitore, eletto nel suo seno. Il presidente lo convoca e ne fissa l'ordine del giorno. Il consiglio si riunisce, altresì, su richiesta di almeno due terzi dei suoi componenti.

4. Il direttore dei servizi generali e amministrativi fa parte del Consiglio dell'autonomia senza diritto di voto e svolge le funzioni di segretario del consiglio.

5. Gli studenti minorenni che fanno parte del consiglio dell'autonomia non hanno diritto di voto per quanto riguarda il programma annuale e il conto consuntivo. Il voto dei membri studenti non maggiorenni è in ogni caso consultivo per le deliberazioni di rilevanza contabile.

6. In sede di prima attuazione, le elezioni del consiglio dell'autonomia si svolgono entro il 30 settembre dell'anno scolastico successivo all'approvazione dello Statuto.

Art. 5.

(Dirigente scolastico).

1. Il dirigente scolastico ha la legale rappresentanza dell'istituzione e, sotto la propria responsabilità, gestisce le risorse umane, finanziarie e strumentali e risponde dei risultati del servizio agli organismi istituzionalmente e statutariamente competenti.

Art. 6.

(Consiglio dei docenti e sue articolazioni).

1. Al fine di programmare le attività didattiche e di valutazione collegiale degli alunni, lo Statuto disciplina l'attività del Consiglio dei docenti e delle sue articolazioni, secondo quanto previsto dai commi successivi del presente articolo.

2. La programmazione dell'attività didattica compete al consiglio dei docenti, presieduto dal dirigente scolastico e composto da tutti i docenti. Il Consiglio dei docenti opera anche per commissioni e dipartimenti, consigli di classe e, ai fini dell'elaborazione del piano dell'offerta formativa, mantiene un collegamento costante con gli organi che esprimono le posizioni degli alunni, dei genitori e della comunità locale.

3. L'attività didattica di ogni classe è programmata e attuata dai docenti che ne sono responsabili, nella piena responsabilità e libertà di docenza e nel quadro delle linee educative e culturali della scuola e delle indicazioni e standard nazionali per il curricolo.

4. Lo statuto disciplina la composizione, le modalità della necessaria partecipazione degli alunni e dei genitori alla definizione e raggiungimento degli obiettivi educativi di ogni singola classe.

5. I docenti, nell'esercizio della propria funzione, valutano in sede collegiale, secondo la normativa e le Indicazioni nazionali vigenti, i livelli di apprendimento degli alunni, periodicamente e alla fine dell'anno scolastico, e ne certificano le competenze, in coerenza con i profili formativi ed i requisiti in uscita relativi ai singoli percorsi di studio e con il Piano dell'offerta formativa dell'istituzione scolastica, presentato alle famiglie, e sulla base delle linee didattiche, educative e valutative definite dal consiglio dei docenti.

Art. 7.

(Partecipazione e diritti degli studenti e delle famiglie).

1. Le istituzioni scolastiche, nell'ambito dell'autonomia organizzativa e didattica riconosciuta dalla legge, valorizzano la partecipazione alle attività della scuola degli studenti e delle famiglie, di cui garantiscono l'esercizio dei diritti di riunione, di associazione e di rappresentanza.

Art. 8.

(Nuclei di autovalutazione del funzionamento dell'istituto).

1. Ciascuna istituzione scolastica costituisce, in raccordo con l'Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (INVALSI), di cui al decreto legislativo 19 novembre 2004, n. 286, e successive modificazioni, un nucleo di autovalutazione dell'efficienza, dell'efficacia e della qualità complessive del servizio scolastico. Il regolamento interno dell'istituzione disciplina il funzionamento del nucleo di autovalutazione, la cui composizione è determinata dallo statuto da un minimo di tre fino a un massimo di sette componenti, assicurando in ogni caso la presenza di almeno un soggetto esterno, individuato dal consiglio dell'autonomia sulla base di criteri di competenza, e almeno un rappresentante delle famiglie.

2. Il Nucleo di autovalutazione, coinvolgendo gli operatori scolastici, gli studenti, le famiglie, predispone un rapporto annuale di autovalutazione, anche sulla base dei criteri, degli indicatori nazionali e degli altri strumenti di rilevazione forniti dall'INVALSI. Tale Rapporto è assunto come parametro di riferimento per l'elaborazione del piano dell'offerta formativa e del programma annuale delle attività, nonché della valutazione esterna della scuola realizzata secondo le modalità che saranno previste dallo sviluppo del sistema nazionale di valutazione. Il rapporto viene reso pubblico secondo modalità definite dal regolamento della scuola.

Art. 9.

(Conferenza di rendicontazione).

1. Sulle materie devolute alla sua competenza e, in particolare, sulle procedure e gli esiti dell'autovalutazione di istituto, il consiglio dell'autonomia, di cui all'articolo 1, promuove annualmente una conferenza di rendicontazione, aperta a tutte le componenti scolastiche ed ai rappresentanti degli enti locali e delle realtà sociali, economiche e culturali del territorio ed invia una relazione all'Ufficio scolastico regionale.

Art. 10.

(Costituzione di Reti e Consorzi a sostegno dell'autonomia scolastica).

1. Le istituzioni scolastiche autonome, nel rispetto dei requisiti, delle modalità e dei criteri fissati con regolamento adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, e di quanto indicato nel decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999 n. 275, articolo 7, possono promuovere o partecipare alla costituzione di reti, consorzi e associazioni di scuole autonome che si costituiscono per esercitare un migliore coordinamento delle stesse. Le Autonomie scolastiche possono altresì ricevere contributi da fondazioni finalizzati al sostegno economico della loro attività, per il raggiungimento degli obiettivi strategici indicati nel piano dell'offerta formativa e per l'innalzamento degli standard di competenza dei singoli studenti e della qualità complessiva dell'istituzione scolastica, ferme restando le competenze degli organi di cui all'articolo 11 della presente legge.

2. I partner previsti dal comma 1 possono essere soggetti pubblici e privati, fondazioni, associazioni di genitori o di cittadini, organizzazioni non profit.

3. A tutela della trasparenza e delle finalità indicate al comma 1, le istituzioni scolastiche devono definire annualmente, nell'ambito della propria autonomia, gli obbiettivi di intervento e i capitoli di spesa relativi alle azioni educative cofinanziate attraverso il contributo economico ricevuto dai soggetti pubblici e privati, fondazioni, associazioni e organizzazioni non profit di cui al precedente comma. Contributi superiori a 5000 euro potranno provenire soltanto da enti che per legge o per statuto hanno l'obbligo di rendere pubblico il proprio bilancio.

Capo II

RAPPRESENTANZA ISTITUZIONALE DELLE SCUOLE AUTONOME

Art. 11.

(Consiglio delle autonomie scolastiche).

1. Con proprio regolamento adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sentite le Commissioni parlamentari, il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca provvede ad istituire a il Consiglio Nazionale delle Autonomie Scolastiche, composto da rappresentanti eletti rispettivamente dai dirigenti, dai docenti e dai presidenti dei consigli delle istituzioni scolastiche autonome, e ne fissa le modalità di costituzione e di funzionamento. Il Consiglio è presieduto dal Ministro o da un suo delegato e vede la partecipazione anche di rappresentanti della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, delle Associazioni delle Province e dei Comuni e del Presidente dell'INVALSI.

2. Il Consiglio Nazionale delle Autonomie Scolastiche è un organo di partecipazione e di corresponsabilità tra Stato, Regioni, Enti Locali ed Autonomie Scolastiche nel governo del sistema nazionale di istruzione. È altresì organo di tutela della libertà di insegnamento, della qualità della scuola italiana e di garanzia della piena attuazione dell'autonomia delle istituzioni scolastiche. In questa funzione esprime l'autonomia dell'intero sistema formativo a tutti i suoi livelli.

3. Le regioni, in attuazione degli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione ed in relazione a quanto indicato nell'articolo 1 della presente legge, definiscono strumenti, modalità ed ambiti territoriali delle relazioni con le autonomie scolastiche e per la loro rappresentanza in quanto soggetti imprescindibili nell'organizzazione e nella gestione dell'offerta formativa regionale, in integrazione con i servizi educativi per l'infanzia, la formazione professionale e permanente, in costante confronto con le politiche scolastiche nazionali e prevedendo ogni possibile collegamento con gli altri sistemi scolastici regionali.

4. Le Regioni istituiscono la Conferenza regionale del sistema educativo, scolastico e formativo, ne stabiliscono la composizione e la durata. La Conferenza esprime parere sugli atti regionali d'indirizzo e di programmazione in materia di:

a) autonomia delle istituzioni scolastiche e formative;

b) attuazione delle innovazioni ordinamentali;

c) piano regionale per il sistema educativo e distribuzione dell'offerta formativa, anche in relazione a percorsi d'integrazione tra istruzione e formazione professionale;

d) educazione permanente;

e) criteri per la definizione degli organici delle istituzioni scolastiche e formative regionale.

f) piani di organizzazione della rete scolastica, istituzione, aggregazione, fusione soppressione di istituzioni scolastiche.

5. La conferenza svolge attività consultiva e di supporto nelle materie di competenza delle regioni, o su richiesta di queste, esprimendo pareri sui disegni di legge attinenti il sistema regionale.

6. Le Regioni istituiscono Conferenze di ambito territoriale che sono il luogo del coordinamento tra le istituzioni scolastiche, gli Enti locali, i rappresentanti del mondo della cultura, del lavoro e dell'impresa di un determinato territorio.

7. Le Regioni, d'intesa con gli Enti Locali e le autonomie scolastiche definiscono gli ambiti territoriali e stabiliscono la composizione delle Conferenze e la loro durata. Alle Conferenze partecipano i Comuni, singoli o associati, l'amministrazione scolastica regionale, le Università, le istituzioni scolastiche, singole o in rete, rappresentanti delle realtà professionali, culturali e dell'impresa.

8. Le Conferenze esprimono pareri sui piani di organizzazione della rete scolastica, esprimono, altresí, proposte e pareri sulla programmazione dell'offerta formativa, sugli accordi a livello territoriale, sulle reti di scuole e sui consorzi, sulla continuità tra i vari cicli dell'istruzione, sull'integrazione degli alunni diversamente abili, sull'adempimento dell'obbligo di istruzione e formazione.

Art. 12.

(Abrogazioni).

1. Le disposizioni di cui agli articoli 5, da 7 a 10, 44, 46 e 47 del decreto legislativo del 16 aprile 1994, n. 297, e successive modificazioni, cessano di avere efficacia in ogni istituzione scolastica a decorrere dalla data di costituzione degli organi di cui all’articolo 2 della presente legge. Resta in ogni caso in vigore il comma 1-bis dell’articolo 5 del citato decreto legislativo n. 297 del 1994.

2. Le disposizioni di cui agli articoli da 16 a 22 del decreto legislativo del 16 aprile 1994, n. 297, e successive modificazioni, cessano di avere efficacia in ogni regione a decorrere dalla data di costituzione degli organi di cui all’articolo 11, commi da 3 a 6 della presente legge.

3. Le disposizioni di cui agli articoli da 12 a 15 e da 30 a 43 del citato decreto legislativo n. 297 del 1994, e successive modificazioni, cessano di avere efficacia in ogni istituzione scolastica a decorrere dalla data di entrata in vigore dello statuto di cui all’articolo 1, comma 4, della presente legge.

4. Gli articoli da 23 a 25 del citato decreto legislativo n. 297 del 1994, e successive modificazioni, sono abrogati a decorrere dalla data di insediamento del Consiglio nazionale delle autonomie scolastiche, di cui all’articolo 11 della presente legge.

Art. 13.

(Norma transitoria).

1. Fino alla completa attuazione del Titolo V della Costituzione l'Ufficio scolastico regionale esercita i compiti di organo competente di cui all'articolo 3, commi 5 e 6.

Art. 14.

(Clausola di neutralità finanziaria).

1. Le amministrazioni competenti provvedono all'attuazione della presente legge nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

lunedì 2 aprile 2012

SIGNOR MINISTRO, I COMPITI A CASA COMPLETANO L'IMPEGNO SCOLASTICO

Signor Ministro, una parte del governo di cui lei fa parte, compreso il presidente Monti, è legato ad una delle più prestigiose università italiane, la Bocconi. Per accedervi occorre superare una prova di accesso che si basa esclusivamente sul merito e, salvo pochi bravissimi studenti che possono vincere una borsa di studio, sul reddito delle loro famiglie.
Il successo scolastico, che in un paese normale dovrebbe avviare ad altri successi, lo si ottiene attraverso l'impegno sui libri e sui fogli di quaderno e meglio sarebbe che a garantirlo continuassero a essere anche le scuole e le università pubbliche.
Certo, è pur vero, come Lei dice, che la formazione dei ragazzi passa anche da altri fattori: par d’intendere da viaggi, rapporti civili e culturali con altre persone, internet, sport, musei, musica, teatro e altro ancora; ma questo elenco deve rimanere subalterno rispetto ai tradizionali strumenti della conoscenza, perché non sono i primi ad integrarsi con questi, ma esattamente il contrario. Insomma, si può essere poveri e sfigati, nati in famiglie umili e poco inclini a disquisire con i figli dei problemi della vita e del mondo; ma se si ha la fortuna di trovare qualcuno, magari un docente, che ci fa appassionare alla cultura, ecco che i libri e i quaderni diventano lo strumento attraverso il quale tutti gli altri elementi che per lei hanno e dovrebbero avere il sopravvento sulla formazione di questi nostri giovani, acquistano il giusto senso, si inseriscono in un ordine, in una gerarchia di saperi. Mi creda, e lei non sa quanto mi duole doverlo puntualizzare al mio ministro, è senz’altro con l’impegno sui libri e sui quaderni che ci si può impossessare di tutti gli altri elementi della formazione.
Diamo per scontato che sia vero quanto lei afferma, e cioè che i ragazzi acquisiscono l’ottanta per cento delle loro conoscenze al di fuori della scuola. Anche se così fosse (ma non lo è, mi creda: si faccia raccontare dal sottosegretario Rossi Doria qual è la situazione di molti nostri giovani del sud, delle periferie delle grandi città, di parte dell’utenza degli istituti professionali e dei ragazzi che seguono i corsi di formazione professionale), come si fa ad ignorare che quel venti per cento di competenza della scuola ha comunque un ruolo prioritario nella formazione di base dei ragazzi e perciò da non svalutare?
La scuola a questo serve: a dare l’alito vitale a tutta quella ulteriore declinazione delle esperienze che poi saranno utili a completare la nostra formazione. Pensare che il richiamare i ragazzi a un ulteriore impegno casalingo che sia la continuazione di quello scolastico possa apparire del tutto inutile o marginale, nella migliore delle ipotesi è - lo dico in senso bonario e pertanto lo ritenga un’aggravante - da veri e propri sprovveduti.


Valerio Vagnoli