mercoledì 22 ottobre 2014

UNA PAGINA FACEBOOK SUL TEMA “RIDATECI IL SILENZIO”

Per sviluppare l’iniziativa avviata con l’appello “RIDATECI IL SILENZIO. Contro la distruzione della quiete pubblica e la musica imposta”, firmato da oltre settecento cittadini tra i quali importanti esponenti della cultura contemporanea, abbiamo creato un’apposita pagina facebook. Potremo così raccogliere notizie, testimonianze, proposte, iniziative e approfondimenti sull’argomento da parte di tutti gli interessati a rafforzare un movimento di rinnovamento civile. Non solo quindi i cittadini che abitano in zone rumorose, ma tutti i quelli che ritengono fondamentale che venga garantito, come dice l'appello, "il diritto a riposare tranquillamente all’ora che si preferisce, a concentrarsi nella lettura, ad ascoltare musica di propria scelta, a godere la tranquillità e la bellezza di un parco o di una spiaggia". Chi non è iscritto a facebook potrà scriverci all’indirizzo gruppodifirenze@libero.it.
 Esistono già siti e pagine facebook “contro la movida selvaggia”, tra cui una pagina “sorella” espressione di un gruppo di Molfetta già molto attivo. Naturalmente segnaleremo indirizzi e riferimenti di tutti i gruppi e comitati delle varie città costretti a battersi per l’elementare diritto di dormire e vivere tranquillamente. Sappiamo inoltre che si sta lavorando per costituire una grande associazione nazionale dei comitati cittadini (o forse una del nord e un’altra del centro sud), che avrà ovviamente i propri strumenti di lavoro, ma potrà comunque contare anche su di noi.
 “Ridateci il silenzio” vuole quindi essere una pagina di servizio, che potrà anche servire per coordinare eventuali iniziative di carattere nazionale. Buon lavoro a tutti.
NB: È importante cliccare sul pulsante “Mi piace” per poter ricevere gli aggiornamenti della pagina sul proprio profilo di facebook e possibilmente condividerli con i propri amici.

martedì 21 ottobre 2014

IL MITO DELLA PRIVATIZZAZIONE DELLA SCUOLA NELLE PROTESTE DEGLI STUDENTI

L'articolo e l'intervista che segue sono state pubblicati ieri, in ordine inverso, su "Orizzonte scuola". ** 

Una delle parole d’ordine che più ricorrono nelle proteste studentesche è quella contro la “privatizzazione” della scuola pubblica. È un concetto mutuato dalla sinistra più legata al passato (a volte per il tramite di qualche docente che non ha ben chiaro il suo ruolo professionale), il cui significato resta in genere piuttosto vago. Lo spiega così un documento di studenti senesi, a commento della “Buona scuola” del governo Renzi: «La Buona Scuola … è in realtà la continuazione del modello di scuola immaginato dal ddl Aprea e in generale dai precedenti governi. Un modello con il quale i privati potranno influenzare la gestione delle scuole, sottomettendo a logiche di profitto gli indirizzi e gli obiettivi di ogni singolo istituto. Nonostante le lotte degli scorsi anni, quindi, Renzi porta avanti il processo di privatizzazione della scuola e di mercificazione dei saperi, promettendo incentivi e detassazioni a chi finanzia la scuola “pubblica”».  
Non c’è in realtà nulla nella “Buona scuola” (e a dire il vero non c’era neppure nel ddl Aprea) che giustifichi il timore di una svendita della scuola pubblica. Le redini degli istituti resteranno saldamente in mano alla parte pubblica. Il regolamento dell’autonomia fissa le condizioni e i limiti percentuali entro cui si può modificare, ma solo con l’approvazione del Collegio dei docenti, il piano orario, per esempio aumentando le ore di una materia e diminuendo quelle di un’altra. A parte questo, inviterei gli studenti che in questi ultimi giorni, in polemica con Renzi, sono saliti sui banchi in stile professor Keating dell’Attimo fuggente, che incoraggiava in questo modo una varietà di punti di vista, a prenderne in considerazione almeno tre, prima di esprimere giudizi inappellabili. Il primo: la scuola, le aziende e soprattutto i ragazzi stessi hanno un interesse del tutto convergente a far sì che gli istituti tecnici e professionali, a cui soprattutto si pensa per eventuali finanziamenti, siano in grado di fornire una preparazione di alto livello, anche attraverso l’uso di moderni laboratori. Certi testi studenteschi, invece, sembrano quasi auspicare un totale divorzio tra istruzione e economia. Del resto anche in alcune forze politiche è ancora viva e vegeta l’idea di una scuola più o meno licealizzata per tutti fino a diciotto anni, che in realtà garantirebbe soltanto una spettacolare impennata della già massiccia dispersione scolastica.
Secondo punto di vista: proprio chi si batte contro il predominio della logica del profitto dovrebbe apprezzare il fatto che il mondo imprenditoriale venga incoraggiato a destinarne una parte a iniziative di utilità sociale. Negli Stati Uniti molti grandi industriali, come Bill Gates, Mark Zuckerberg, Warren Buffet e Michael Bloomberg, seguendo una lunga tradizione destinano somme enormi a scopi filantropici in patria e nel mondo, con una particolare preferenza proprio per l’istruzione. 
Il terzo e ultimo punto di vista da cui i giovani dovrebbero osservare il rapporto tra scuola e aziende è che questa collaborazione potrebbe aumentare le loro possibilità di trovare un lavoro coerente con i loro studi. Con le cifre della disoccupazione giovanile a livelli stratosferici, l’obbiettivo delle lotte studentesche dovrebbe semmai essere quello di assicurarsi che le esperienze lavorative degli studenti chiamati a mettere alla prova sul campo le proprie capacità siano davvero serie e formative per durata e per qualità, in modo da costituire dei veri e propri trampolini verso il loro futuro professionale
(Giorgio Ragazzini)

INTERVISTA
Le proteste studentesche prendono di mira l’ingresso dei finanziamenti privati nelle scuole. Come mai tutto ciò le sembra anacronistico? In fondo una buona parte dell’opinione pubblica continua a essere convinta del fatto che l’istruzione debba restare sotto l’egida esclusiva dello Stato.
È anacronistico il riflesso di ostilità indiscriminata nei confronti del privato e in particolare dell’impresa, quasi fossimo ai tempi di Dickens o anche nei nostri anni ’50, in cui peraltro c’erano anche imprenditori illuminati come Olivetti, che oggi tutti lodano, ma allora veniva bollato come un pericoloso paternalista. Prevedere la possibilità di finanziamenti privati non implica affatto, però, mettere in discussione il ruolo guida dello Stato nell’istruzione, di cui noi del Gruppo di Firenze siamo convinti difensori. La scuola pubblica dovrebbe rispondere in primo luogo a un mandato sociale. Se c’è un uso plausibile del termine “privatizzazione” a proposito della scuola, è proprio quello che indica l’indebolimento della sua natura di istituzione che trasmette ai giovani il nostro patrimonio culturale, con il rischio di diventare un puro e semplice servizio ai “privati cittadini”, visti come quindi come clienti con le loro richieste e le loro pretese. Ne è un sintomo la sempre più diffusa conflittualità fra insegnanti e genitori, ma lo è anche l’ossessiva enfasi sulla “personalizzazione” dell’insegnamento.
Perché nel documento che qui riportiamo in calce parla di ‘mito’ della privatizzazione? Quali ideologie lo alimentano? Perché gli studenti ne sarebbero così affascinati?
Uso il termine “mito” nel senso più estensivo di idea che non corrisponde in nessun modo alla realtà. Lei però coglie giustamente anche l’elemento della fascinazione che emana il concetto, è come un idolo negativo di cui si ha bisogno per mobilitare le proprie energie, cosa del resto tipica dell’adolescenza e della giovinezza. La privatizzazione dei “beni comuni” sembra aver sostituito nel ruolo di nemico quello che per i loro (ormai) nonni era la società capitalistica. Solo che in genere la preparazione politica che viene fuori dai discorsi degli studenti non è per nulla adeguata rispetto alla complessità dei problemi di cui si occupano. Fra quelli che partecipano ai cortei non so quanti sanno bene perché lo fanno. Va anche detto che i giornalisti che li intervistano di rado li incalzano perché vadano oltre gli slogan. Anche questo rientra fra le forme di pseudo-benevolenza di cui sono oggetto e che non li fa crescere, come la tolleranza per le occupazioni.
“Certi testi studenteschi, invece, sembrano quasi auspicare un totale divorzio tra istruzione e economia. Del resto anche in alcune forze politiche è ancora viva e vegeta l’idea di una scuola più o meno licealizzata per tutti fino a diciotto anni, che in realtà garantirebbe soltanto una spettacolare impennata della già massiccia dispersione scolastica”. Quale potrebbe essere un modello di giusta integrazione tra istruzione ed economia per il nostro Paese?
È un’integrazione già prevista dall’originario titolo quinto della Costituzione, che assegnava alle regioni la competenza legislativa per l’ “istruzione artigiana e professionale”. Una competenza regionale confermata nella riforma costituzionale del 2001, che parla ora di “istruzione e formazione professionale”. Il motivo è ovvio: bisogna preparare gli studenti per mestieri e professioni legati all’economia di una regione, non si può replicare gli stessi indirizzi di studio in zone completamente differenti dal punto di vista produttivo; e questo vale anche per gli istituti tecnici. Purtroppo negli ultimi vent’anni  negli istituti professionali e in una certa misura anche nei tecnici si sono tagliate le ore di laboratorio e aumentate le materie teoriche in nome di un’errata idea di cultura paraliceale. Ma un mestiere si impara soprattutto (anche se non solo) con la pratica.
A quali condizioni, secondo lei, potrà davvero realizzarsi l’ambizioso piano di integrazione tra mondo della scuola e mondo del lavoro così da assestare un colpo alla dispersione scolastica e da contenere l’aumento della disoccupazione giovanile?
Prima condizione: fare gradualmente una sola cosa dell’istruzione e della formazione professionale. Quest’ultima in molte regioni è praticamente inesistente, mentre ci sono ovunque gli istituti professionali, spesso dotati di laboratori poco utilizzati per via della licealizzazione di cui parlavo prima. Ovviamente bisognerà cambiare i programmi in profondità, diminuendo le materie teoriche e aumentando fortemente l’attività pratica. È una mossa vincente anche contro gli abbandoni scolastici, come dimostra tra le altre l’esperienza del Trentino che è sceso sotto il 10%. Così come sono, i professionali deludono gran parte dei ragazzi che ci vanno pensando di mettere in gioco i loro talenti pratici, una scuola del fare, mentre trovano un sacco di materie teoriche.
Proprio in questa prospettiva ritengo sbagliata la battaglia contro eventuali contributi dei privati, che tra l’altro possono essere anche di singoli cittadini o associazioni, oltre che delle imprese. Non solo perché supplirebbero in parte alle ristrettezze dei bilanci pubblici, rendendo le scuole – soprattutto i tecnici e i professionali – più attrezzate e funzionali, ma anche perché comportano un dialogo tra scuola e economia che può giovare a entrambi e soprattutto al futuro lavorativo dei giovani. Inoltre questo incoraggiamento ad aiutare le scuole può promuovere il mecenatismo, una tradizione ancora debole nel nostro paese, mentre altrove, soprattutto negli Stati Uniti, è molto consolidata, perché chi è ricco sente spesso la responsabilità verso gli altri che gliene deriva. Infine, le garanzie contro la “svendita” della scuola ai privati denunciata dai movimenti studenteschi sono le norme sull’autonomia e i poteri decisionali dei Consigli d’Istituto; e mi sembrano piuttosto solide. (Intervista di Eleonora Fortunato) 

** Il titolo di "Orizzonte Scuola" forza un po' la tesi dell'articolo e dell'intervista definendo "fondamentale" l'apporto dei privati. Tra l'altro è prevedibile, e non solo per la congiuntura sfavorevole, che non sarà affatto facile trovare aziende disposte a finanziare in modo consistente le scuole. (GR)

martedì 7 ottobre 2014

E SE I NUOVI ASSUNTI NON FOSSERO ALL'ALTEZZA?

Lo scorso 8 settembre su questo blog abbiamo commentato il massiccio piano di assunzioni (148.000) annunciato dal governo, con l’intenzione di risolvere una volta per tutte il problema del precariato. Pur convenendo che un provvedimento eccezionale (da “curatore fallimentare”) si rende a questo punto necessario, sostenevamo che  qualcosa si può e si deve fare almeno per evitare che eventuali docenti inadeguati si aggiungano a quelli che già si trovano negli organici (per lo più indisturbati)”. La nostra proposta era: trasformare l’anno di prova, che oggi nella maggior parte dei casi è una pura e semplice formalità, in una verifica effettiva della presenza o meno di una sufficiente professionalità del nuovo assunto. Non si tratterebbe del resto di una valutazione improvvisata, se si volesse utilizzare a questo scopo un intero anno di lavoro del candidato. Aggiungevamo che, per avere maggiori garanzie di serietà, la commissione di valutazione andrebbe integrata da almeno una qualificata presenza esterna. 
A conferma della sensatezza delle nostre preoccupazioni, il numero 531 di “TuttoscuolaFOCUS” si chiede: “Ma è davvero opportuno svuotare le Graduatorie ad Esaurimento (GAE) in un colpo solo immettendo in ruolo tutti i suoi iscritti dal 1° settembre 2015? Potrebbero essere almeno 30 mila, il 20% degli iscritti GAE, che da un tempo non definito non stanno insegnando. Docenti che forse sanno ormai poco della scuola di oggi, arrugginiti nella lunga attesa, anche se non per colpa loro. E’ opportuno che entrino stabilmente nella scuola senza filtro o controllo?” Secondo la rivista, questi docenti (che potrebbero anche essere di più) “dovrebbero partecipare ad apposito obbligatorio corso formativo durante il prossimo anno scolastico, con verifiche delle situazioni iniziali e finali, superato il quale potrebbero essere confermati  in ruolo dal 2016-17”. Resta però da aggiungere che a una qualche forma di verifica andrebbero sottoposti anche tutti quei docenti che, pur avendo insegnato negli ultimi anni, non sono mai passati attraverso prove selettive. (GR)

giovedì 2 ottobre 2014

UNA BUONA SCUOLA? Capitolo 3: Iniqui e irrazionali gli aumenti “due su tre”. Una modesta proposta sostitutiva

In sintesi, il capitolo Trattamento economico e progressione di carriera della “Buona scuola” prevede che gli scatti automatici in base all’anzianità di servizio lascino il posto a “scatti di competenza” triennali, “legati all’impegno e alla qualità del proprio lavoro”. Riservati, però, solo a due terzi del corpo docente di ogni istituto. Si intuisce che c’è di mezzo un problema di programmazione della spesa, oltre a esperienze di premi distribuiti “a pioggia” nella pubblica amministrazione, invece di andare solo ai meritevoli. Tuttavia il meccanismo è davvero iniquo. E controproducente, se si pensa che ne risulteranno mortificati molti insegnanti che lavorano dignitosamente: non è infatti pensabile che un terzo del corpo docente sia fatto tutto di incapaci e di assenteisti. Gli estensori del progetto se ne rendono conto, ma il rimedio che suggeriscono è tanto avvilente quanto improbabile: “I docenti mediamente bravi [così sono garbatamente definiti gli esclusi dagli aumenti, NdA], per avere più possibilità di maturare lo scatto, potrebbero volersi spostare in scuole dove la qualità dell’insegnamento è mediamente meno buona”. Figuriamoci quanto appeal avrebbe la prospettiva di andarsi a cercare le scuole peggiori, per poter guadagnare, dopo tre anni, sessanta euro in più. La cosa, si dice, migliorerebbe anche il livello di tali istituti. Veramente, come si fa in altri paesi  e come suggerisce il buonsenso, per migliorare le scuole bisognerebbe mandarci non i docenti “mediamente bravi”, ma quelli migliori (e per questi è giusto prevedere una congrua indennità). Inoltre, perché la stessa scommessa non dovrebbero tentarla anche gli insegnanti scadenti? Si otterrebbe così un risultato addirittura opposto a quello voluto. 
Proviamo allora a immaginare un sistema alternativo. Per prima cosa non ci devono essere quote prefissate per la progressione stipendiale, per i motivi che abbiamo già spiegato. Inoltre è sbagliato eliminare l’anzianità come criterio retributivo; sarebbe, come sottolinea “Tuttoscuola”, l’unico caso in Europa. Il numero di anni di servizio non è una garanzia assoluta di miglioramento, ma non si può per questo negare il valore dell’esperienza, soprattutto se si lavora con impegno e in un ambiente scolastico che favorisce la crescita professionale. Si può però evitare il completo automatismo della progressione stipendiale affiancando all’anzianità il correttivo del demerito. Per il demerito grave (sul piano delle capacità o su quello della deontologia professionale) ci deve essere la possibilità di allontanare dall’insegnamento i docenti inadeguati, come abbiamo più volte ribadito. Nei casi meno gravi, invece, soprattutto per ripetute mancanze ai propri doveri professionali (nei confronti di alunni, colleghi, genitori), si può prevedere il mancato scatto stipendiale o una sua decurtazione. Sarebbe anche da valutare una parallela incidenza del demerito sul punteggio in graduatoria.
Con un sistema di questo tipo avremmo di fatto un riconoscimento del merito di chi lavora con serietà, cioè della grande maggioranza dei docenti, finora trattata allo stesso modo di una minoranza – probabilmente modesta – che non fa altrettanto. Tutto questo implica naturalmente una forma di valutazione periodica che, con le dovute garanzie, certifichi un livello sufficiente o meno di professionalità. A questo proposito, speriamo che si colga l’occasione per definire finalmente un codice di comportamento degli insegnanti; dai quali, anzi, ci auguriamo che vengano sollecitazioni e proposte in merito.
Inoltre, il superamento di un determinato numero di “soglie stipendiali” potrebbe costituire uno dei requisiti necessari, insieme ad altri che attestino le competenze richieste, per l’accesso selettivo a ruoli di coordinamento, di progettazione o di supporto, e anche a distacchi presso le facoltà universitarie per formare i futuri docenti.
In conclusione, riteniamo che un sistema di questo genere, oltre a essere molto più equo di quello prospettato nella “Buona Scuola”, sia anche in grado di favorire una maggiore consapevolezza delle responsabilità inerenti al proprio ruolo e a prevenire quindi la maggior parte dei comportamenti poco professionali.

mercoledì 1 ottobre 2014

FACILITARE E RISPARMIARE, COSÌ SI RINNOVA L'ESAME DI STATO

“L'esame di maturità deve perdere quell'aspetto da giudizio divino, che tra l'altro lo ha fatto diventare costoso”. Così Stefania Giannini ha annunciato che dall’anno scolastico 2015-2016 l’esame di maturità sarà modificato e nuovamente affidato a una commissione di tutti membri interni. L’affermazione del ministro esprime perfettamente la convergenza (si è tentati di dire la connivenza) tra la pedagogia della facilitazione e le esigenze del bilancio statale, a cui solo ben diverse convinzioni educative avrebbero qualche possibilità di resistere. Dunque, facilitiamo l’esame, smettiamo di intimorire i poveri studenti, così oltre a tutto risparmiamo. In questo modo si assesta il colpo di grazia a un esame sempre più svilito per le scelte di quasi tutti i ministri (con la sola eccezione di Fioroni), ma anche per responsabilità di una parte dei dirigenti e dei docenti, che nel loro ruolo di valutatori praticano una presunta “bontà” e dimenticano la giustizia (naturalmente, alla pratica delle promozioni indebite concorrono anche l’ossessione dei ricorsi e  l’ideologia del “diritto al successo formativo”). Sta di fatto che le percentuali degli ammessi e dei promossi sono da decenni altissime, a fronte di una preparazione degli studenti spesso decisamente preoccupante.
In un Paese serio, governato da gente che si ripromette di investire davvero e non a parole  in una scuola improntata al merito e alla serietà, constatato che l’attuale esame di Stato non funziona, la risposta dovrebbe essere di ben altro respiro. Da anni sollecitiamo, insieme all’Anp e a tantissimi colleghi, disposizioni ministeriali che garantiscano la correttezza degli esami: richiami all’etica della lealtà e del merito, esclusione di chi copia, sorveglianza “senza se e senza ma” da parte dei commissari, prevenzione mediante l’uso di rivelatori di cellulari accesi, chiusura dei siti complici degli imbrogli. E sarebbe solo una parte di quella più complessiva iniezione di rigore e di responsabilità di cui ha bisogno la scuola nel suo complesso, a cominciare dal momento degli scrutini finali, troppo spesso trasformati in un’orgia di condoni.
L’esame, insomma, o lo si elimina del tutto insieme al valore legale del titolo di studio, attraverso una revisione della Costituzione, o lo si rende rigoroso e credibile, davvero in grado di rendere giustizia ai “capaci e meritevoli”. Non dunque un “giudizio divino” né  “un appuntamento di sintesi di un anno scolastico”, secondo la nebulosa e poco promettente definizione del Ministro, ma un serio momento di verifica tanto della preparazione degli studenti quanto del lavoro dei loro insegnanti. Auspicabilmente con una commissione tutta esterna, nella consapevolezza che certi costi non  sarebbero sprechi, ma investimenti.
Naturalmente non è solo l’esame conclusivo degli studi, ma tutto il percorso scolastico ad avere bisogno di essere ripensato in questo senso.  Dovrebbe essere ormai chiaro che non è con la rimozione di tutti gli ostacoli  che si può dare ai  giovani  la fiducia e gli strumenti per affrontarli. Un percorso scolastico scandito da esami, tra i quali senza dubbio quello al termine della scuola primaria, sarebbe molto più corrispondente, come la psicologia certifica ad abundatiam, alle esigenze della crescita morale e intellettuale dei giovani.