L'articolo e l'intervista che segue sono state pubblicati ieri, in ordine inverso, su "Orizzonte scuola". **
Una delle parole d’ordine che più ricorrono nelle proteste studentesche è quella contro la “privatizzazione” della scuola pubblica. È un concetto mutuato dalla sinistra più legata al passato (a volte per il tramite di qualche docente che non ha ben chiaro il suo ruolo professionale), il cui significato resta in genere piuttosto vago. Lo spiega così un documento di studenti senesi, a commento della “Buona scuola” del governo Renzi: «La Buona Scuola … è in realtà la continuazione del modello di scuola immaginato dal ddl Aprea e in generale dai precedenti governi. Un modello con il quale i privati potranno influenzare la gestione delle scuole, sottomettendo a logiche di profitto gli indirizzi e gli obiettivi di ogni singolo istituto. Nonostante le lotte degli scorsi anni, quindi, Renzi porta avanti il processo di privatizzazione della scuola e di mercificazione dei saperi, promettendo incentivi e detassazioni a chi finanzia la scuola “pubblica”».
Non c’è in realtà nulla nella “Buona scuola” (e a
dire il vero non c’era neppure nel ddl Aprea) che giustifichi il timore di una
svendita della scuola pubblica. Le redini degli istituti resteranno saldamente
in mano alla parte pubblica. Il regolamento dell’autonomia fissa le condizioni
e i limiti percentuali entro cui si può modificare, ma solo con l’approvazione
del Collegio dei docenti, il piano orario, per esempio aumentando le ore di una
materia e diminuendo quelle di un’altra. A parte questo, inviterei gli studenti
che in questi ultimi giorni, in polemica con Renzi, sono saliti sui banchi in
stile professor Keating dell’Attimo fuggente, che incoraggiava in questo
modo una varietà di punti di vista, a prenderne in considerazione almeno tre,
prima di esprimere giudizi inappellabili. Il primo: la scuola, le aziende e
soprattutto i ragazzi stessi hanno un interesse del tutto convergente a far sì
che gli istituti tecnici e professionali, a cui soprattutto si pensa per
eventuali finanziamenti, siano in grado di fornire una preparazione di alto
livello, anche attraverso l’uso di moderni laboratori. Certi testi
studenteschi, invece, sembrano quasi auspicare un totale divorzio tra
istruzione e economia. Del resto anche in alcune forze politiche è ancora viva
e vegeta l’idea di una scuola più o meno licealizzata per tutti fino a diciotto
anni, che in realtà garantirebbe soltanto una spettacolare impennata della già
massiccia dispersione scolastica.
Secondo punto di vista: proprio chi si batte contro
il predominio della logica del profitto dovrebbe apprezzare il fatto che il
mondo imprenditoriale venga incoraggiato a destinarne una parte a iniziative di
utilità sociale. Negli Stati Uniti molti grandi industriali, come Bill Gates, Mark Zuckerberg,
Warren Buffet e Michael Bloomberg, seguendo una
lunga tradizione destinano somme enormi a scopi filantropici in patria e nel
mondo, con una particolare preferenza proprio per l’istruzione.
Il terzo e ultimo punto di vista da cui
i giovani dovrebbero osservare il rapporto tra scuola e aziende è che questa
collaborazione potrebbe aumentare le loro possibilità di trovare un lavoro
coerente con i loro studi. Con le cifre della disoccupazione giovanile a
livelli stratosferici, l’obbiettivo delle lotte studentesche dovrebbe semmai
essere quello di assicurarsi che le esperienze lavorative degli studenti
chiamati a mettere alla prova sul campo le proprie capacità siano davvero serie
e formative per durata e per qualità, in modo da costituire dei veri e propri
trampolini verso il loro futuro professionale
(Giorgio Ragazzini)
INTERVISTA
Le proteste
studentesche prendono di mira l’ingresso dei finanziamenti privati nelle
scuole. Come mai tutto ciò le sembra anacronistico? In fondo una buona parte
dell’opinione pubblica continua a essere convinta del fatto che l’istruzione
debba restare sotto l’egida esclusiva dello Stato.
È anacronistico il riflesso di ostilità indiscriminata
nei confronti del privato e in particolare dell’impresa, quasi fossimo ai tempi
di Dickens o anche nei nostri anni ’50, in cui peraltro c’erano anche
imprenditori illuminati come Olivetti, che oggi tutti lodano, ma allora veniva
bollato come un pericoloso paternalista. Prevedere la possibilità di
finanziamenti privati non implica affatto, però, mettere in discussione il
ruolo guida dello Stato nell’istruzione, di cui noi del Gruppo di Firenze siamo
convinti difensori. La scuola pubblica dovrebbe rispondere in primo luogo a un
mandato sociale. Se c’è un uso plausibile del termine “privatizzazione” a
proposito della scuola, è proprio quello che indica l’indebolimento della sua
natura di istituzione che trasmette ai giovani il nostro patrimonio culturale,
con il rischio di diventare un puro e semplice servizio ai “privati cittadini”,
visti come quindi come clienti con le loro richieste e le loro pretese. Ne è un
sintomo la sempre più diffusa conflittualità fra insegnanti e genitori, ma lo è
anche l’ossessiva enfasi sulla “personalizzazione” dell’insegnamento.
Perché nel
documento che qui riportiamo in calce parla di ‘mito’ della privatizzazione?
Quali ideologie lo alimentano? Perché gli studenti ne sarebbero così
affascinati?
Uso il termine “mito” nel senso più estensivo di idea
che non corrisponde in nessun modo alla realtà. Lei però coglie giustamente
anche l’elemento della fascinazione che emana il concetto, è come un idolo
negativo di cui si ha bisogno per mobilitare le proprie energie, cosa del resto
tipica dell’adolescenza e della giovinezza. La privatizzazione dei “beni
comuni” sembra aver sostituito nel ruolo di nemico quello che per i loro
(ormai) nonni era la società capitalistica. Solo che in genere la preparazione politica
che viene fuori dai discorsi degli studenti non è per nulla adeguata rispetto
alla complessità dei problemi di cui si occupano. Fra quelli che partecipano ai
cortei non so quanti sanno bene perché lo fanno. Va anche detto che i
giornalisti che li intervistano di rado li incalzano perché vadano oltre gli
slogan. Anche questo rientra fra le forme di pseudo-benevolenza di cui sono
oggetto e che non li fa crescere, come la tolleranza per le occupazioni.
“Certi testi
studenteschi, invece, sembrano quasi auspicare un totale divorzio tra
istruzione e economia. Del resto anche in alcune forze politiche è ancora viva
e vegeta l’idea di una scuola più o meno licealizzata per tutti fino a diciotto
anni, che in realtà garantirebbe soltanto una spettacolare impennata della già
massiccia dispersione scolastica”. Quale potrebbe
essere un modello di giusta integrazione tra istruzione ed economia per il
nostro Paese?
È un’integrazione già prevista
dall’originario titolo quinto della Costituzione, che assegnava alle regioni la
competenza legislativa per l’ “istruzione artigiana e professionale”. Una
competenza regionale confermata nella riforma costituzionale del 2001, che
parla ora di “istruzione e formazione professionale”. Il motivo è ovvio:
bisogna preparare gli studenti per mestieri e professioni legati all’economia
di una regione, non si può replicare gli stessi indirizzi di studio in zone
completamente differenti dal punto di vista produttivo; e questo vale anche per
gli istituti tecnici. Purtroppo negli ultimi vent’anni negli istituti professionali e in una certa
misura anche nei tecnici si sono tagliate le ore di laboratorio e aumentate le
materie teoriche in nome di un’errata idea di cultura paraliceale. Ma un
mestiere si impara soprattutto (anche se non solo) con la pratica.
A quali
condizioni, secondo lei, potrà davvero realizzarsi l’ambizioso piano di
integrazione tra mondo della scuola e mondo del lavoro così da assestare un
colpo alla dispersione scolastica e da contenere l’aumento della disoccupazione
giovanile?
Prima
condizione: fare gradualmente una sola cosa dell’istruzione e della formazione
professionale. Quest’ultima in molte regioni è praticamente inesistente, mentre
ci sono ovunque gli istituti professionali, spesso dotati di laboratori poco
utilizzati per via della licealizzazione di cui parlavo prima. Ovviamente
bisognerà cambiare i programmi in profondità, diminuendo le materie teoriche e
aumentando fortemente l’attività pratica. È una mossa vincente anche contro gli
abbandoni scolastici, come dimostra tra le altre l’esperienza del Trentino che
è sceso sotto il 10%. Così come sono, i professionali deludono gran parte dei
ragazzi che ci vanno pensando di mettere in gioco i loro talenti pratici, una
scuola del fare, mentre trovano un sacco di materie teoriche.
Proprio
in questa prospettiva ritengo sbagliata la battaglia contro eventuali
contributi dei privati, che tra l’altro possono essere anche di singoli
cittadini o associazioni, oltre che delle imprese. Non solo perché supplirebbero
in parte alle ristrettezze dei bilanci pubblici, rendendo le scuole –
soprattutto i tecnici e i professionali – più attrezzate e funzionali, ma anche
perché comportano un dialogo tra scuola e economia che può giovare a entrambi e
soprattutto al futuro lavorativo dei giovani. Inoltre questo incoraggiamento ad
aiutare le scuole può promuovere il mecenatismo, una tradizione ancora debole
nel nostro paese, mentre altrove, soprattutto negli Stati Uniti, è molto
consolidata, perché chi è ricco sente spesso la responsabilità verso gli altri
che gliene deriva. Infine, le garanzie contro la “svendita” della scuola ai
privati denunciata dai movimenti studenteschi sono le norme sull’autonomia e i
poteri decisionali dei Consigli d’Istituto; e mi sembrano piuttosto solide. (Intervista di Eleonora Fortunato)
** Il titolo di "Orizzonte Scuola" forza un po' la tesi dell'articolo e dell'intervista definendo "fondamentale" l'apporto dei privati. Tra l'altro è prevedibile, e non solo per la congiuntura sfavorevole, che non sarà affatto facile trovare aziende disposte a finanziare in modo consistente le scuole. (GR)
** Il titolo di "Orizzonte Scuola" forza un po' la tesi dell'articolo e dell'intervista definendo "fondamentale" l'apporto dei privati. Tra l'altro è prevedibile, e non solo per la congiuntura sfavorevole, che non sarà affatto facile trovare aziende disposte a finanziare in modo consistente le scuole. (GR)