mercoledì 27 novembre 2013

VALUTAZIONE: DI QUALE MERITO PARLIAMO?

Intervento di Giorgio Ragazzini al convegno Educare alla critica: quale valutazione? organizzato da Unicobas, Unicorno L'AltrascuolA e Liceo Mamiani di Roma, 26 novembre 2013 

Il merito come eccellenza e il merito come serietà 
Quando si parla di puntare sul merito come leva del progresso sociale e civile, ci si riferisce in genere alla valorizzazione dei più bravi; in altri termini, alle cosiddette “eccellenze”. Dico subito che valorizzare i migliori in tutti i campi è giusto e soprattutto necessario, perché la società di oggi e quella che domani sarà dei nostri figli ha bisogno di eccellenti professionisti, imprenditori, politici, tecnici, scienziati, studiosi; e non solo perché operino al meglio ciascuno nel proprio settore, ma anche perché  con la loro azione, con il loro esempio, con i loro scritti, con il loro insegnamento trasmettano alle nuove generazioni, al più alto livello possibile, il nostro patrimonio culturale. Questo per il merito come eccellenza. Ma per la società è altrettanto importante il riconoscere e valorizzare il merito di chi svolge con impegno e serietà il proprio compito, qualunque esso sia. Coltivando i propri talenti, quali che siano. Impegnandosi per fare bene le cose che fa. Purtroppo in Italia il merito come serietà è, se possibile, ancora più misconosciuto del merito come eccellenza. Eppure si tratta di qualcosa che tiene letteralmente insieme la società. Ora, chi fa il proprio dovere verso la società può avere un solo, ma fondamentale premio o riconoscimento: quello di non essere trattato come chi il proprio dovere non lo fa; di non veder tollerare i disonesti e gli incapaci da chi avrebbe la responsabilità di richiamare i primi ai propri compiti (e se necessario sanzionarli) e di proteggere dai secondi chi può avere un danno a causa della loro incapacità. Considero questo un tratto fondamentale di una società più giusta. 

Il merito nella valutazione dei docenti: due priorità   
In linea di massima queste considerazioni valgono anche per la scuola. Anche alla scuola si possono applicare le due idee di merito: come eccellenza e come serietà. Ma la questione della valutazione dei docenti va posta con grande concretezza e con altrettanto buon senso. Dobbiamo avere ben chiari tanto i vantaggi per il sistema scolastico, quanto i possibili effetti indesiderati. 
Per cominciare, è ovvio che quando si insiste sulla valutazione dei docenti si punta a migliorare la qualità media del corpo insegnante. Propongo perciò di partire da questa domanda: per migliorare la qualità della scuola italiana è più utile individuare e premiare economicamente i migliori insegnanti oppure lavorare perché tutti i docenti siano almeno “sufficientemente buoni”? A me pare molto più sensato puntare sulla seconda prospettiva. Dal punto di vista dell’interesse generale, infatti, è dubbio che la qualità media dei docenti crescerebbe premiando chi già lavora molto bene e senza dubbio continuerà a farlo anche senza premi,  in quanto motivato dalle soddisfazioni professionali che ottiene. D’altra parte, le esperienze di altri paesi, per esempio quella del Regno Unito, segnalano una controindicazione che questo tipo di valutazione comporta rispetto al clima che si viene a creare all’interno delle scuole: individuare i docenti più meritevoli (e sorvolo qui sull’attendibilità dei metodi per farlo) significa in pratica tracciare una linea che li separa da quelli appena meno meritevoli e comunque da chi fa dignitosamente il proprio lavoro, con il risultato di demotivare dei buoni insegnanti. Oltre a tutto in questi ultimi si acuirà la consapevolezza di essere retribuiti esattamente quanto quel certo collega assenteista o incapace di cui tutti si lamentano. Questa diversità di retribuzione a parità formale di lavoro tende quindi a danneggiare la possibilità di costruire in ogni istituto un clima positivo e collaborativo e di conseguenza anche quella comunità professionale, la cui assenza viene lamentata da molte parti soprattutto nella scuola secondaria.
Quali sono invece le leve che promettono di essere effettivamente in grado di migliorare quello che è il principale patrimonio della scuola in ogni tempo, il cuore dell’offerta formativa, cioè il corpo insegnante?  A nostro parere le due priorità, restando in tema di valutazione, dovrebbero essere due. La prima riguarda il merito come eccellenza, ma intesa in senso diverso, cioè come possesso di ulteriori talenti utili alla scuola, oltre alla capacità di docente in senso stretto. Se non appare produttivo, come ho detto, premiare gli insegnanti migliori a parità di lavoro (tra l’altro non mi pare che in nessun altro settore si sia presa questa strada: si premiano i migliori tra i giudici? I medici e gli infermieri più bravi?), sarebbe invece utilissimo e urgente selezionare tra gli insegnanti le nuove figure professionali indispensabili per un governo efficiente delle scuole autonome (questo sì, in analogia con altre professioni). In altre parole, la scuola ha bisogno di docenti capaci sul piano organizzativo, di responsabili delle attività di aggiornamento, di altri che seguano la formazione dei nuovi insegnanti, magari tramite distacchi all’università, che curino i servizi alla didattica, che coordinino gli interventi di integrazione degli stranieri e dei disabili e via dicendo. In una situazione di risorse molto scarse, gli investimenti necessari per la creazione di questo “ceto di governo” sarebbero a nostro avviso molto più remunerativi rispetto alla politica delle “eccellenze” come sperimentata, non a caso con difficoltà, dal ministero. Non ci si può più accontentare di soluzioni come le funzioni strumentali, mal retribuite e affidate a volte a colleghi bravissimi, ma più spesso a chi è dotato solo  di buona volontà, quasi sempre in assenza sia di una seria progettazione che di una verifica del lavoro svolto. Naturalmente ci saranno tanti ottimi docenti che vorranno continuare a insegnare e basta. 
La seconda leva l’ho già accennata in apertura, è quella che, insieme a una maggiore selettività  in entrata, servirebbe a garantire insegnanti “sufficientemente buoni” a tutti i ragazzi, cioè una valutazione di minima  adeguatezza. In altre parole ci dovrebbe essere la possibilità di prendere provvedimenti  tempestivi e risolutivi nei casi di conclamata inadeguatezza oppure di grave o ripetuta scorrettezza professionale di un docente. Sappiamo tutti bene che oggi non è affatto così. Spesso un pessimo insegnante viene tutt’ al più trasferito da una scuola all’altra: con quale miglioramento per il sistema è inutile sottolinearlo. Anche quei dirigenti che vorrebbero tutelare gli studenti coinvolti,  attualmente si scontrano con una carenza di strumenti e con lungaggini procedurali, e spesso finiscono per darsi per vinti o di rinunciare in partenza di fronte allo stress e alle frustrazioni a cui vanno incontro. Non ignorare il “demerito” significherebbe invece riconoscere indirettamente il merito di tutti quei docenti che fanno almeno dignitosamente il loro dovere e spesso molto di più, un po’ come una lotta efficace all’evasione fiscale rende giustizia e dà soddisfazione ai contribuenti corretti.
Per ammettere che sia giusto basta riflettere sul fatto che nessuno di noi è disposto a farsi curare da un medico notoriamente incapace.  Il fatto che non si ponga rimedio ai casi in cui siamo al di sotto della sufficienza è deleterio per il prestigio della scuola pubblica, per quello della categoria e soprattutto per i ragazzi con cui hanno a che fare. Il superamento di questo vero e proprio tabù costituirebbe un importante passo verso la doverosa rivalutazione della categoria,  che ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione culturale della nazione e che ha al suo interno grandissime risorse di intelligenza, di esperienza e di passione civile che attendono di essere valorizzate anziché mortificate.
Non è certo difficile individuare i docenti che proprio non vanno, anche perché sono spesso oggetto di lamentele e proteste da parte dei genitori. Ma sarà comunque necessario “oggettivare” queste situazioni con una qualche procedura: e io vedrei la soluzione più ovvia in una rinnovata funzione ispettiva, che non a caso è stata letteralmente smantellata negli ultimi decenni. Mentre nel Regno Unito ci sono 1500 ispettori e in Francia 3000  in Italia ce ne sono solo 100. Nel Lazio uno. In Toscana nessuno. Eppure il necessario complemento dell’autonomia scolastica è un sistema efficiente di controlli, come in generale la responsabilità è il pendant della libertà.
Perché la cultura del controllo di legalità è così carente in quasi ogni settore? Io credo che, per una serie di motivi storico-politici e ideologici che non ho il tempo elencare, il rigoroso rispetto delle regole è stato associato non alla giustizia e alla libertà, come sarebbe ovvio perché sulle regole si basano, ma piuttosto all’autoritarismo, all’oppressione dello Stato o delle classi dominanti;  e addirittura alla mancanza di umanità; chi fa rispettare una regola viene spesso percepito come poco sensibile o comprensivo.
A questo punto credo di avere risposto dal mio punto di vista alle domande posteci dagli organizzatori,  per quanto riguarda la valutazione dei docenti. Certo, comprendo benissimo le riserve e le resistenze alla valutazione quando sento questo o quell’esperto sostenere come pacifica la possibilità di valutare  gli insegnanti in base ai risultati dei propri allievi.
Ma quando un’esigenza si afferma, è bene prendere un’iniziativa, fare delle proposte concrete, dire dei sì, che legittimino anche alcuni no, altrimenti c’è il rischio di trovarsi a combattere le stesse battaglie nelle condizioni meno favorevoli. Riassumendo, la proposta del mio gruppo è semplice: da un lato cominciare dal basso la valutazione degli insegnanti, affinché agli studenti italiani, se non potranno mai avere insegnanti tutti eccellenti, possiamo garantirne di “sufficientemente buoni” o adeguati che dir si voglia; dall’altro fare in modo che la crescente complessità della scuola possa essere governata e arricchita da nuove specializzazioni della funzione docente. 
Grazie dell’attenzione.
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lunedì 18 novembre 2013

TOSCANA: IL RISCATTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE

È  molto apprezzabile che la Regione e l’USR, di fronte all’alto numero di bocciati e di abbandoni nelle prime classi degli istituti professionali, malgrado il percorso integrato,  abbiano deciso di sperimentare un nuovo modello, anche se non in più di dieci classi degli istituti alberghieri toscani. Purtroppo, questa loro disponibilità non ha per ora incontrato quella di altre scuole e di altri dirigenti scolastici. Così le classi che sperimentano questo nuovo percorso sono quelle di due soli  istituti professionali:  il Vasari di Figline con una   e il Saffi con due.
Il nostro percorso complementare è ispirato a quello  già da tempo avviato in alcune scuole del Veneto, tuttavia con  qualche importante variante, almeno sul piano della strategia didattica. La più significativa di queste consiste senz’altro nell’offrire ai ragazzi l’opportunità di potersi misurare, soprattutto in prima e seconda, con un maggior numero di ore dedicate alle discipline tecnico-pratiche, sottratte a materie come italiano e matematica, eliminando  fisica e chimica a vantaggio delle discipline centrate sull’esperienza pratica. In terza, gli studenti potranno recuperare le competenze di base quando avranno saputo trovare le giuste motivazioni e gli opportuni  equilibri cognitivi per poter finalmente comprendere e utilizzare in modo consapevole e appropriato  i contenuti fondamentali di materie come lettere e matematica. E sempre in terza, saranno attivati corsi aggiuntivi per   far acquisire le altre competenze di base in fisica e chimica, non studiate in prima e seconda, per chi desidera rientrare l’anno successivo, in quarta, nel percorso dell’istruzione. 
   Tale recupero avverrà diminuendo   le ore delle  discipline tecnico-pratiche, che rimangono tuttavia numerose e già privilegiate in prima e seconda classe,  e  corroborate, sempre in terza, dalle attività di stage.
  Il percorso complementare, inoltre, potrebbe permettere  a quegli studenti del corso tradizionale, che nei primi mesi di scuola si trovino a vivere situazioni di demotivazione per non aver  trovato quello che si aspettavano, di poter passare al percorso maggiormente professionalizzante. Tuttavia, a conferma di quanto in didattica non vi debbano essere asserzioni categoriche e definitive o presunzioni di aver trovato formule risolutive, mi preme informarvi che in queste settimane ho negato ai due studenti  ripetenti e iscritti al percorso statale che me l’avevano chiesto, la possibilità di trasferirsi nel complementare. Infatti ho pensato che si debba evitare che il nuovo modello possa apparire  come una scorciatoia e una sorta di refugium peccatorum, perché tutti i percorsi formativi devono avere pari dignità,  anche se un po’ tutti, in questi decenni,  abbiamo  contribuito a trasmettere l’idea completamente opposta, e cioè che al vertice del nostro sistema formativo vi siano i licei e poi a scendere i tecnici, i professionali e infine la formazione professionale.
 Ai due ragazzi ho chiesto d’impegnarsi per essere promossi e l’anno prossimo potranno così accedere   al complementare.
 Ad oggi una delle due mie classi prime dimostra, in buona sostanza, i problemi canonici dei professionali: e cioè una buona parte dei ragazzi si caratterizza per una scarsa scolarizzazione, nel senso di mancanza del necessario adattamento ai requisiti di atteggiamento e di metodo che la scuola richiede.  La stessa situazione di questa mia classe si riflette in quella di Figline Valdarno come mi ha fatto presente il collega Marchetti col quale ci confrontiamo frequentemente anche su questo percorso.
Tuttavia, per entrambe le classi non sussistono grossi problemi disciplinari  che sono invece  tipici delle altre. Tanto per fare un esempio, se nelle prime “statali” chiamiamole così,  i  provvedimenti disciplinari sono all’ordine del giorno, queste nostre due prime,  pur essendo composte da ragazzi da scolarizzare, come sopra abbiamo visto, tuttavia forse proprio in virtù del maggior numero di ore in laboratorio, quindi di una loro maggior soddisfazione personale, riescono a mantenere un comportamento decisamente gestibile.
Se l’esiguo numero delle classi non ci autorizza ad esprimere giudizi definitivi ( non  a caso non approfondisco la realtà dell’altra prima in assoluto la migliore tra le tredici), tuttavia questi elementi devono incoraggiarci ad andare avanti e magari  a potenziare questa sperimentazione  aumentando ulteriormente le ore di laboratorio in prima e in seconda e anche aumentando, se le scuole lo chiederanno, il numero delle classi.   
A mio parere sarebbe davvero opportuno che la Regione Toscana continuasse a scommettere, anche per altri indirizzi, sul modello complementare, magari snellendone l’apparato gestionale, e  credo sia un danno profondo  aprire ai ragazzi  la strada della formazione professionale solo a 16 anni e sempre dopo che questi hanno ripetutamente fallito il percorso dell’istruzione. Un sistema del genere    finisce col trasmettere loro la consapevolezza che la formazione professionale è un percorso per falliti e di conseguenza si continua ad alimentare la distorta mentalità che approdare ad un lavoro manuale è una strada riservata ai perdenti.
    Occorre davvero ribadire che i percorsi tradizionali costringono gli studenti a seguire 12-13 discipline, che sarebbero senz’altro insopportabili e didatticamente insostenibili anche per gli stessi percorsi liceali. A questo proposito, permettetemi di non gioire affatto per l’ora in più di Geografia che è stata recentemente introdotta dal Decreto scuola. I Tecnici e soprattutto i Professionali hanno bisogno di ben altre modifiche dei loro piani di studio. Sono anzi convinto che la prospettiva più giusta  sia quella di andare verso la fusione a livello nazionale dell’ Istruzione professionale statale e della formazione professionale regionale: una fusione basata in maniera accentuata sull’alternanza scuola-lavoro. E di questo obiettivo a mio parere dovrebbero essere proprio le regioni a farsene carico anche perché la Costituzione, come sappiamo, assegna questa materia  alla competenza regionale. E in una auspicabile rivoluzione di questo ambito, sarebbe davvero importante non rinunciare all’aspetto forse più originale del nostro Complementare; e cioè quello di recuperare i valori della cultura astratta soprattutto nell’ultimo anno, anche perché allora i ragazzi saranno in grado di legare questi saperi al saper fare e sapranno riconoscerne così l’importanza anche in riferimento al loro futuro.
Siamo tutti convinti che  dietro a  ogni lavoro, qualunque esso sia, vi è sempre un progetto di vita: progetto di vita che, invece, è difficile individuare in quelle migliaia e migliaia di ragazzi che sono letteralmente espulsi, in particolare dagli istituti professionali, in mezzo alle strade, nei giardini di qualche periferia e frequentemente verso l’incontro con forme di trasgressione destinate, per dirla con Umberto Saba, ad aprire loro “solchi di dolore”: scuole che pur adottando tutte le strategie didattiche possibili non potranno tuttavia coinvolgere ragazzi e ragazze che nelle scuole, appunto, non trovano la misura giusta e idonea alle loro attese, ai loro veri talenti e perché no, alle loro stesse difficoltà che sappiamo benissimo da dove, nella maggioranza dei casi, esse provengono. E spiace constatare che il modello integrato, da quel che mi risulta oltre alla mia personale esperienza, anche a  livello nazionale non riesce a soddisfare questa fondamentale  esigenza e spiace anche constatare che ha dei costi veramente molto alti, non solo sul piano dell’evasione scolastica. Ha infatti  dei costi pesantissimi anche nello sviluppo dell’economia che potrebbe trovare proprio in un’adeguata formazione professionale l’investimento migliore  per rilanciare mestieri e professioni che fanno parte della nostra tradizione e del nostro potenziale economico e culturale: non sto naturalmente pensando solo alle professioni legate all’enogastronomia e all’ospitalità, ma anche a quelle artistiche e artigianali. Valga fra tutti l’esempio della liquidazione degli istituti d’arte che inseguendo il presunto maggior prestigio dell’istruzione liceale, sono stati, appunto, letteralmente eliminati. E anche su questo sarebbe necessario, soprattutto in Toscana, per i motivi che tutti  noi conosciamo, adoperarsi per non disperdere definitivamente saperi, competenze e maestri che rappresentano un patrimonio irrinunciabile. A tale proposito so che proprio qui a Firenze si sta pensando  di chiedere la possibilità di inserire all’interno dei licei artistici derivati dagli istituti d’arte, provvisti quindi dei laboratori e delle competenze necessarie, un percorso triennale professionalizzante nell’ambito dell’artigianato artistico. Ci stanno lavorando la dirigente dell’Istituto di Porta Romana e due colleghi del Gruppo di Firenze.
Come mi diceva, quand’ero ragazzo, un vecchio maestro artigiano (e che maestro!) un mestiere non si impara a 18 anni perché a quell’età è tardi per poter sperare di diventare, almeno in molti campi, un bravo professionista. Non a caso, tanto per fare degli esempi, la danza, la musica lo sport si iniziano da piccoli e solo iniziando da ragazzi si ha la possibilità di poter diventare in questi settori dei professionisti. Allo stesso modo non ci preoccupiamo se i ragazzi a 14 anni scelgono il liceo: decisione che spesso rappresenta anch’essa una scelta di vita definitiva, in quanto iscrivendosi ai licei si rischia di ipotecarsi il futuro con inutili  anni di università che costringono sempre più spesso e sempre in numero maggiore i nostri giovani-adulti a dover  poi subire lavori di scarso appeal e  che non richiedono una  specifica  preparazione.
 Non dobbiamo perciò temere di avviare  un ragazzo verso la formazione professionale fin dai suoi 14 anni; il diploma al quarto anno del complementare e la possibilità del quinto anno “integrativo” che apre agli studenti della formazione professionale l’ opportunità del diploma  di Stato quinquennale, rappresentano ottime occasioni per permettere a chi lo voglia, di continuare gli studi. D’altra parte ci incoraggiano verso una scelta del genere le esperienze del Trentino, ma anche numerosi esempi europei tra i quali il grosso successo di quello tedesco che assicura ai giovani un lavoro qualificato e, come accennavo sopra, un consequenziale progetto di vita.
 Insomma, non dobbiamo aver paura di educare un ragazzo fin dai suoi 14 anni al lavoro; dobbiamo aver paura, anzi il terrore, di non educarlo affatto.
Valerio Vagnoli
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