mercoledì 28 novembre 2012

LA PRESIDE SI OPPONE FISICAMENTE AGLI OCCUPANTI: "SIETE FASCISTI"

Una preside di Milano si è piazzata davanti alla porta del suo Liceo e, intonando “Bella ciao”, insieme ai custodi ha impedito ai collettivi studenteschi di occupare le aule. Tra uno spintone e l'altro ha apostrofato gli studenti definendoli fascisti (queste analogie non sono gratuite quando si cerca di imporsi con la forza, anche se certe abitudini non sono certo un’esclusiva dell’estrema destra, anzi uniscono un vasto campionario di fanatici religiosi e politici passati e presenti; alcuni dei quali, fra i nostrani, oggi pontificano sulla loro esperienza e sulla loro epoca). Detto questo, bene ha fatto la collega milanese a far capire quali siano le conseguenze che azioni del genere recano alla credibilità della scuola pubblica. Certi docenti e certi dirigenti scolastici che di fronte alle occupazioni adottano la tecnica del giunco che si china finché non passi la piena, hanno contribuito non poco svalutare nell' opinione pubblica l’istituzione scolastica, se non valeva la pena di difenderla dall'arrembaggio di ragazzotti emuli degli sciagurati riti di un tempo che fu. Troppi sono ancora conniventi o indulgenti, se non altro con il loro silenzio, con "la rabbia degli studenti" per le cose che non vanno dentro e fuori la scuola. E a questi personaggi, spesso afferenti ad organizzazioni politiche e sindacali che non hanno speso una parola rispetto a quanto sciaguratamente accadeva ad ogni inizio di anno scolastico nelle nostre scuole, va ricordato appunto l'esempio della preside del Leonardo da Vinci di Milano, una che parla chiaro e si espone di persona. Quei ragazzi che hanno tentato di entrare a scuola per occuparla si stavano comportando da fascisti, ha detto. E chissà che non manchino in futuro le occasioni, da parte di fascisti o neonazisti dichiarati, di occupare anche loro le scuole, rivendicando lo stesso trattamento di tolleranza e di compiacenza troppo a lungo tenuto da chi ha sempre voluto vedere nelle occupazioni il preludio di un radioso sol dell'avvenire.
Tra i latitanti rispetto alle occupazioni vi sono in genere state anche le forze dell’ordine, che si sono al più limitate a paterni e patetici inviti a non far danni. Ma anche su questo fronte ci sono stati ultimamente diversi segnali di un cambiamento di rotta, come dimostrano le denunce della Digos a Milano nei confronti di decine di studenti delle superiori. (VV)

venerdì 23 novembre 2012

COPIARE È FICO? UNA SCUOLA RIFLETTE SUL COPIARE E MARCELLO DEI ANALIZZA LE RISPOSTE DEGLI STUDENTI

"Education 2.0" pubblica il resoconto di un'iniziativa  dell'Istituto superiore Telesi@ di Telese Terme in provincia di Benevento. Prima è stata letta nelle classi e commentata la recensione di Ragazzi si copia di Marcello Dei firmata da Maurizio Tiriticco; poi gli studenti hanno scritto le loro riflessioni che sono state raccolte e inviate al professor Dei, che le ha analizzate traendone l'articolo Copiare è fico, pubblicato sul sito della scuola. Dopo pochi giorni Marcello Dei ha incontrato a Telese i ragazzi coinvolti  su questo argomento.
Ecco i testi:
Presentazione dell'iniziativa e analisi delle risposte degli studenti
La parola alla Dirigente

CI SONO SCUOLE IN CUI GLI ADULTI FANNO IL LORO MESTIERE

Al liceo Gobetti e al tecnico Volta, alle porte di Firenze, gli studenti che avevano occupato la loro scuola, facendo anche dei danni, potranno avere fra qualche anno un ricordo positivo: quello di adulti che hanno fatto il loro mestiere, aiutandoli quindi a crescere.
Troppo spesso, volenti o nolenti, insegnanti, dirigenti e le stesse forze dell’ordine danno ai ragazzi messaggi che hanno l’effetto di confonderli e disorientarli su ciò che si può e ciò che non si può fare. Qui invece, a quanto riferisce il “Corriere fiorentino”, è stato segnato un confine netto. Si sono visti “professori che annotavano su un foglietto di carta a quadretti i nomi degli studenti indisciplinati”; una preside che dichiara senza giri di parole “Identificheremo gli altri responsabili e avranno la stessa sorte dei loro amici” (sei sono già stati sospesi); e i carabinieri che fotografano per l’identificazione gli studenti, mentre non pochi loro colleghi si sono in passato limitati a esortare gli occupanti a “fare i bravi”. (GR)
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martedì 20 novembre 2012

ANCORA MAMME CONTRO I COMPITI A CASA

Per i compiti a casa viene ora chiamato in causa perfino l’Osservatorio per i diritti dei minori, il cui presidente pretende di chiarire il problema interpellando cento studenti e aggiunge che “molte volte [?] i ragazzi devono impegnarsi su argomentazioni [sic] ex novo”, cioè non affrontati in classe. C’è chi invoca una circolare del ministro e ritorna la semplicistica idea che si possa “monitorare il carico dei compiti assegnato dai colleghi” attraverso il registro di classe. Può essere che la brillante iniziativa ministeriale sull’orario di lavoro abbia rinfocolato ben noti pregiudizi e risentimenti, in genere fondati sulla disinvolta generalizzazione di casi particolari. Senza nulla togliere ai possibili eccessi di qualche collega, è certo che la scuola non può rinunciare a chiedere agli studenti di esercitarsi e di studiare a casa. Pazienza se il ministro Profumo non vuole che “si isolino nella loro cameretta”.
Ad ogni buon conto, il rapporto  dell’Unione Europea “Cifre chiave dell’Istruzione 2012” certifica – guarda un po’ – che i compiti a casa sono utili. 
Basta compiti a casa: sono troppi
Ma gli studiosi: utili soprattutto il ripasso e gli esercizi.

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domenica 18 novembre 2012

L'INSEGNANTE, IL MINISTRO, LA FATICA, LA DIGNITÀ

Chi scrive è insegnante di filosofia del liceo Copernico di Bologna, liceo in cui si attua una mobilitazione singolare (esposta più avanti) cresciuta spontaneamente dal basso, per protestare contro la politica di lento ma inesorabile annientamento delle funzioni della scuola pubblica, per dar voce all’indignazione in noi suscitata dai provvedimenti e dai pareri di cui siamo stati oggetto in questi tempi. Siamo dei privilegiati – ci si dice in sintesi - in quanto lavoreremmo part-time (18 ore la settimana).

1. Dignità affermata e negata al tempo stesso.  Insegniamo ai nostri allievi ed allieve il valore della dignità, insegniamo ad esempio cos’era il senso del valore dell’uomo in Socrate, oppure leggiamo il De dignitate hominis di Pico della Mirandola; oppure contestualizziamo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 10: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e in diritti”), siglata nel 1948, dopo che l’umanità era caduta nel baratro della Shoah; commentiamo quel monumento alla dignità dell’uomo che è il libro di Primo Levi, Se questo è un uomo ; oppure stiliamo documenti istituzionali in cui la dignità è un nucleo assiologico essenziale, come nel nostro Patto di corresponsabilità, dove si afferma: … “ buone pratiche sono determinanti per diffondere e contribuire alla crescita di una cittadinanza consapevole della propria dignità. L’istituto Copernico tende a progettare questo tipo di società. (preambolo, art 5). Insomma, siamo coloro che non solo dispensano insegnamenti sui vari saperi, ma , come formatori, vorremmo aiutare a crescere i ragazzi, orientandoli a difendere la dignità, quella propria e quella altrui. Ma se la nostra dignità viene sfibrata, erosa, violata – come sta succedendo con un ritmo progressivo da una ventina di anni da gran parte dell’opinione pubblica e degli istituti di governo - allora ne conseguono a cascata effetti inevitabili. Così come, storicamente, da certe premesse sono conseguiti effetti devastanti. Ciò che enuncia una fonte - in questo caso un insegnante - la cui dignità è smentita nelle pratiche discorsive e fattuali della società (o addirittura dei rappresentanti delle istituzioni) risulta inevitabilmente essere un discorso privo di valore di verità.
Quando ci viene riferito qualcosa, noi, prima di esaminare il contenuto che ci viene riferito, ad esempio la dinamica di un fatto , implicitamente ci disponiamo in un certo modo nei confronti di quel soggetto che ci sta riferendo quel qualcosa. Implicitamente, cioè, compiamo un’ apertura o una chiusura, ci sintonizziamo per dare credito o discredito, ci fidiamo senza filtri o non ci fidiamo affatto, e quindi rimaniamo indifferenti al suo dire. La fonte della comunicazione deve essere degna di credibilità, dicono coloro che fanno indagini –o giornalistiche o giudiziarie.
Gli insegnanti delle materie dell’universo umanistico, che tramandano e riplasmano temi inerenti all’umano e all’etica ( e la dignità delle persone sta dentro questo ambito) cadono vittima della logica che ho esposto. Poiché il loro operare, il loro esercizio viene costantemente eroso, privato – da opinione pubblica e apparati istituzionali- di credibilità e autorevolezza. Il messaggio che loro comunicano nelle lezioni corre il rischio di essere ridotto a puro flatus vocis. Tale argomentazione può essere estesa all’insegnamento delle materie del mondo della scienza ? Non lo so: da un lato quest’ultima - fonte autorevole in sé e riconosciuta nel suo statuto di sapere autoevidente, solido, fondato- parrebbe legittimare di più chi trasmette questa conoscenza. Ma, d’altro lato, lo svaporarsi della dignità del docente della scuola italiana (di I e II grado) sembra comunque ormai sconfinato.
Se è vero che tuttora vediamo molti casi in cui gli insegnanti sono considerati autorevoli dai loro allievi, ciò non significa che questa sia una rendita di posizione scontata e automatica. Solo attraverso un lavoro impegnativo - perché i ragazzi non fanno sconti e nella relazione corpo a corpo e nella apertura del dialogo ci si gioca ogni giorno la nostra reputazione- possiamo riparare a questa erosione di dignità. Ma si deve sapere che lo sforzo compiuto per arginare la deriva a cui le istituzioni, i governi e i mass media ci espongono è sempre più oneroso, sempre più logorante.

1. Lavoro in absentia. Per esprimere la nostra indignazione, per alzare la voce, per non mostrare ancora una volta un atteggiamento rinunciatario o remissivo, di fronte alle offese rivolteci dal “nostro” ministro e da molta parte dell’ opinione pubblica [si veda per esempio l’articolo di Nicola Porro], nel convincimento di situarci nel terreno della Costituzione ( l’Art. 36 della Costituzione Italiana recita “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro...“), abbiamo deliberato di attuare, dalla fine di ottobre 2012, varie forme di protesta – in primis il rifiuto delle ore aggiuntive all’insegnamento. Ma ora parlerò solo di una singolare protesta, la “ settimana bianca” (nel senso di una sorta di sciopero “bianco”), attuata nella settimana dal 5 al 10 novembre. Lo scopo precipuo era quello di far emergere nella vita vissuta – un “mostrare”,  invece che limitarsi a un “dire”- il lavoro, o almeno una parte del lavoro, che un insegnante svolge separatamente, fuori dallo sguardo dei suoi allievi: il lavoro in absentia. Non mi dilungo a enumerare di cosa si compone questo impegno, perché molti lo hanno già espresso, ma mi soffermerò solo su alcuni aspetti.
Dai colloqui intessuti coi ragazzi del liceo, dai risultati scaturiti, il bilancio di questa settimana è positivo: molti ragazzi, e soprattutto i rappresentanti di istituto, ci hanno restituito impressioni e risposte davvero confortanti, a volte entusiasmanti, anche se non mancano i perplessi o quelli che, pur tacendo, si considerano tuttavia colpiti ingiustamente . Ma, come dicevo, per chi si è pronunciato, per lo più è stata un’esperienza di crescita. E vediamo meglio perché.

2. La “fatica del concetto”.  Ho attuato questa singolare esperienza in varie modalità, a seconda dell’andamento dell’agenda in quella classe, ma due sono i momenti che racconterò.
Il primo è più scontato: la correzione delle loro verifiche insieme. Qui è emerso che gli studenti coinvolti nell’operazione non pensavano che il tempo necessario per correggere una sola domanda di filosofia (cui mediamente si deve rispondere entro lo spazio di 10 righe) fosse quello che è stato consumato per correggere: in un’ora 5 domande. (Tra parentesi: per la correzione delle verifiche di matematica, in una classe ritenevano possibile svolgerla in 5 minuti).
Secondo punto. Ho sperimentato con una classe un momento chiave, la preparazione di una lezione, attività che io ho modulato come lettura di un testo di filosofia. Volevo mostrare dal vivo una questione di metodo, e cioè:
1. che per comprendere un testo filosofico bisogna difendersi dalle abitudini mentali inconsapevoli, che s’affacciano immediatamente alla mente di tutti, quindi anche alla mia.
2. che bisogna abbozzare una prima comprensione, la quale poi va rivista e rielaborata da letture successive.
E così ho portato in classe La vita della mente di Hannah Arendt, che mi serviva in quanto la seconda sezione tratta del Volere. Avrei dovuto valutare se inserirla o meno nello sviluppo del pensiero di Agostino. Mi ero guardata a casa una parte e l’ho riferita a loro, perché svolgesse la funzione di quadro mentale su cui poi collocare i vari concetti (anche questo- si dirà- andava fatto coram populo), e loro non si trovassero immersi nell’ignoto. E fin qui tutto bene. Poi ho iniziato a leggere brani nuovi ed allora le cose si sono complicate. Facciamo una sorta di lettura fenomenologica di questa vicenda metalinguistica: una lezione sulla preparazione della lezione. Dovevo tentare di comprendere il testo, dovevo mostrare a loro il mio lavoro del comprendere, dovevo tentare di restituire loro quello che comprendevo, decidere fra me e me se su alcuni brani che non comprendevo immediatamente fosse opportuno insistere - e intanto la classe manifestava inquietudine e scompiglio-, o passare oltre per un brano meno problematico . Ma soprattutto – e questo l’ho colto dopo - dovevo tenere a bada la mia difficoltà a mostrare un mio lato nascosto – l’altra faccia della luna dell’insegnante – quello del professore che vacilla, fatica, ingaggia il suo sforzo – quotidiano? – per allargare i propri confini di conoscenza. Conoscenza che non solo deve essere allargata, ma riplasmata, ristrutturata. I nessi tra i concetti appresi, ben lo sappiamo, sono in rete, e questa rete deve essere a volte inanellata con legami nuovi. La questione di metodo progettata è stata inghiottita da qualcosa che non avevo previsto. Ora era “evidente”, ma è apparso come una meraviglia: se i ragazzi ci vedono con gli occhi di chi sa tutto, di chi certo non deve sudare molto a casa, è perché questa zona segreta viene loro occultata. Naturale si dirà: anche l’attore deve prepararsi nella parte da portare in scena; e noi ignoriamo – non immaginiamo minimamente- tutto il lavoro alle spalle. Ma i ragazzi in questo modo non colgono ciò che non si mostra: il lavoro di elaborazione, la fatica del percorso. E non deducono che anche per loro si tratta di sottostare a questa dura necessità. Ciò non significa che tutti i ragazzi debbano vivere questa esperienza, o che dobbiamo condonare la loro mancanza di studio serio. Significa che questa settimana ha avuto un grande pregio: quello di mostrare che i risultati si ottengono solo in un modo: assumendo il carico di un impegno non immediatamente appariscente, non immediatamente votato al successo. Cioè nella fatica solitaria. Chi pensa che la "settimana bianca" sia stata un escamotage per fare sciopero senza trattenuta, rifletta invece sulla crescita di consapevolezza e di responsabilità raggiunta da alcuni ragazzi attraverso questo vissuto.

3. La passione.  Ancora un altro elemento insospettato che ha animato i ragazzi è stato il rendersi conto che un insegnante, nell’esercizio della sua professione, non vive solo di rendita. Fa lo stesso programma tutti gli anni – mi dicono – quindi oramai conosce tutto ciò che deve esporre perfettamente… Ci sono tratti della materia che conosco a tal punto da non dovere sottopormi a nessun “ripasso”,  ho risposto. Ma questa è solo un frammento del quadro.
In primo luogo, molte cose vanno rispolverate, e ognuno ha il suo metodo. Ma in secondo luogo, il desiderio di approfondire qualche nuovo argomento, o il recupero di un approfondimento fatto magari nell’estate, o magari anni fa, sempre operano in noi. Potemmo dire che “siamo in ostaggio” di un desiderio irrefrenabile che converte in spunto per un approfondimento didattico i più piccoli eventi/informazioni che intercettiamo nella vita. Se non fossimo animati dalla curiosità sempre inappagata, dalla passione per le questioni che dobbiamo trattare, sforneremmo delle lezioni svaporate di senso vitale. Mi hanno detto una volta che ero invidiabile per la passione di cui posso nutrire e rivestire il mio lavoro. Da questo punto di vista ammetto che siamo privilegiati. Ma, daccapo, tale senso vitale, tale passione che spero di comunicare ai miei interlocutori, non nascono da una “zona franca” ; sono piuttosto il frutto di ore e ore di impegno, non riconosciuto, ahimè, sia in termini giuridico/economici, sia in termini di senso comune. Alcuni obietteranno che anche gli insegnanti hanno le loro pecche. Se ciò è vero, tuttavia non ci esenta dal pretendere le condizioni tali per cui esso possa esercitare il mandato costituzionale di educatore. Un compito alto, se è vero quello che scrive Arendt: “Di fronte al fanciullo [l’insegnante] è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini adulti della terra, che ne indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo”. (Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti).

Paola Cavallari Marcon
Bologna, 11 novembre 2012

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venerdì 16 novembre 2012

LA SMENTITA DELLA PRESIDE DEL LICEO OCCUPATO

(Segue) Prendo doverosamente atto della smentita della dirigente e comprendo senz’altro il suo stato d’animo per il giudizio che io stesso ho definito “piuttosto ruvido” nel modo in cui è stato espresso. Magari avrei potuto premettere “Se questo è veramente accaduto” (il cosiddetto “beneficio d’inventario”), vorrei però ribadire che i miei giudizi, di cui mi assumo la responsabilità, si basavano su quanto era stato riportato su "La Repubblica" da Mario Neri. Non è quindi molto logico risentirsi solo con chi ha commentato delle notizie e non prioritariamente con chi le ha scritte, il quale soltanto è responsabile della loro veridicità. Lascio ai lettori il compito di valutare la legittimità delle conclusioni che ne ho tratto. 
Ho proposto di pubblicare sul blog una smentita con lo stesso rilievo del post, ma la dirigente ha rifiutato, per non alimentare polemiche, e per lo stesso motivo non invierà nessuna smentita a “Repubblica”, come io le suggerivo. In un secondo momento ha però detto che avrei potuto sintetizzare il contenuto della telefonata, cosa che ho cercato di fare, sperando di essere stato passabilmente fedele. (Giorgio Ragazzini)

Aggiungo a quanto scritto ieri che ho spiegato alla preside di aver usato il termine "colludere" nel senso in cui lo si fa in psicologia, per indicare un atteggiamento che contribuisce a rafforzare (o non giova a modificare) un comportamento;  e lo avevo già precisato precedentemente in un commento. Le ho detto che non lo pensavo affatto come sinonimo di "complicità". Davo quindi per scontata la buona fede. Del resto il mio testo parla esplicitamente di scarsa conspevolezza dei propri ruoli. C'è una sentenza del '91 che chiarisce bene cosa intendevo dire e che ho già ricordato nel commento al post citato più sopra. La pretura di Pistoia, in un caso di occupazione, affermava che c'erano stati i reati di invasione e di interruzione del pubblico servizio, ma al tempo stesso si osservava come “da parte del preside, della polizia e del corpo docente siano stati posti in essere comportamenti tali da indurre in errore i giovani studenti in ordine all’antigiuridicità della condotta". Pertanto "appare evidente che gli studenti abbiano erroneamente supposto" di fare qualcosa di lecito (e per questo furono assolti). A mio parere dall'articolo di Mario Neri si poteva trarre una simile conclusione. Per dirne una: se l'assemblea è senz'altro un diritto degli studenti, l'ordine del giorno dovrebbe a mio avviso essere approvato dal dirigente, come infatti stabiliscono molti regolamenti d'istituto. Nel caso che vi figuri un reato, a mio parere un  dirigente non dovrebbe consentire di discuterne, proprio per dare un segnale chiaro in merito alla gravità dei propositi degli studenti.

mercoledì 14 novembre 2012

CONDANNATO IL MINORE CHE AVEVA OCCUPATO L’ISTITUTO SCOLASTICO

Da "La Letterina" n. 341 - giovedì 22 novembre 2012, dell'Associazione delle Scuole Autonome Siciliane.

Il 13 novembre alle ore 9,30, al Tribunale dei minorenni di Palermo, si è tenuta l’udienza n.245/12 R.G.U.P. che vedeva imputato uno degli studenti che avevano guidato l’occupazione di un istituto superiore di Palermo nei mesi di novembre e dicembre 2010. Lo studente era già stato rinviato a giudizio il 26 marzo 2012 dal GIP dott.ssa Valeria Spadafora. In apertura di udienza, l’imputato ha cercato di sottrarsi alle proprie responsabilità (diversamente da come aveva ammesso nel corso dell’udienza del 26 marzo) sminuendo il proprio ruolo nell’occupazione. Il Giudice, dott.ssa Antonina Pardo, gli ha letto i verbali precedenti che, insieme alle prove allegate al fascicolo, evidenziavano il contrario. Il preside ricordava che nessuno può chiudere la scuola agli altri studenti e al personale, interrompere un pubblico servizio, negare il diritto allo studio a chi vuole andare a scuola per studiare. L’avvocato della difesa interveniva con argomentazioni generiche del tipo: “c’era un contesto di malessere negli studenti … i docenti sarebbero potuti intervenire per educare … non era il solo che occupava … etc.”. Il Pubblico Ministero richiamava i valori della democrazia e della Costituzione, che impongono di rispettare la libertà degli altri e  i beni pubblici. La Corte si riuniva quindi in camera di Consiglio e rientrando in aula condannava lo studente minore a “due mesi di giustizia riparatrice” presso l’Azienda Sanitaria Provinciale, in pratica lavori socialmente utili. Riconvocava quindi le parti al 22 gennaio 2013 per verificare se la pena avesse generato effetti positivi. Uscendo, lo studente e il padre non ricambiavano il saluto del preside, non comprendendo che nella vicenda non vi era nulla di personale, ma solo il tentativo di far rispettare la legge. 

[...]
La redazione

lunedì 5 novembre 2012

SILVIA VEGETTI FINZI RISPONDE ALLA CRITICHE

Gentile signora Barberio, 
mi dispiace molto che il mio breve articolo l'abbia indignata. Non era certo questa la mia intenzione. Avendo specificato subito che non conosciamo le cause del suicidio attuato dal bambino, consideravo implicitamente assurda la ricerca di colpevoli a tutti i costi.
Tuttavia la mia costante attenzione all'età evolutiva mi fa cogliere l'estrema fragilità delle ultime generazioni. Ed è questa la motivazione che mi induce a segnalare la necessità di rinnovare l'atteggiamento di alcuni docenti (non tutti, probabilmente non lei) che restano fedeli alla tradizione della nostra scuola, centrata sull'apprendimento intellettuale
più che sullo sviluppo affettivo. Basta pensare alla poca importanza attribuita alle attività espressive: pittura, musica, canto, danza,recitazione. Se lei, come credo, è impegnata nell'insegnamento, conoscerà colleghi, magari competenti e motivati, che tuttavia si attengono strettamente all'ambito della loro disciplina. Viviamo in un'epoca difficile, contrassegnata dalla crisi della società e della famiglia, ed è per questo che, a mio avviso, si rende necessario affinare la sensibilità e condividere le responsabilità educative. Sono pienamente d'accordo con lei ( provengo da una famiglia di insegnanti, ho insegnato per trent'anni e mio figlio continua la nostra genealogia) per quanto riguarda il valore della Scuola - un pilastro di civiltà nel generale degrado - e il rispetto che dobbiamo ai docenti.
Prendo comunque atto della sua reazione e cercherò, nei limiti dello spazio concesso, di chiarire meglio il mio punto di vista.  

Grazie dell'attenzione. 
Silvia Vegetti Finzi

Commento: Vedo confermata la mia impressione: la dottoressa Vegetti Finzi dimostra di avere un’idea piuttosto schematica della scuola, quanto meno delle medie (è vero che ha insegnato per tanti anni, ma all’università, che è tutt’altro mondo). Questa insistenza sul fatto che molti docenti “si limitano” a insegnare la propria materia (come se fosse inevitabilmente un esercizio privo di connotazioni affettive!) sembra non tenere conto della varietà di stili relazionali con cui lo si può fare, mettendosi in grado di sintonizzarsi il più possibile con gli allievi e dando via via spazio all’espressione di sé da parte loro: attraverso i temi (strumento importantissimo), le discussioni, la possibilità di commentare e via dicendo. Non è quindi solo attraverso la pittura, la musica e la recitazione che gli alunni hanno l’occasione di esplorare il proprio mondo interiore e i loro rapporti con gli altri. In ogni caso il fatto di impostare un discorso di carattere generale a partire da un caso specifico, in cui nulla autorizzava a sospettare inadeguatezze e deficienze degli insegnanti del ragazzo suicida, rimane un grave errore, al quale la risposta della Vegetti non toglie purtroppo niente. Tra l’altro stupisce quanto poco sia sottolineato il ruolo che hanno le vicende e i rapporti familiari nella costruzione di una personalità fragile; e questo mentre invece si insinua che un solo mese di scuola sia bastato a provocare questo tragico gesto. Infine: non fa parte questo sgradevole episodio della tendenza a sovraccaricare la scuola di troppe responsabilità, a volte anche improprie?
Giorgio Ragazzini 
  
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