lunedì 30 dicembre 2013

I RAGAZZI E LA SFIDA DELLA RESPONSABILITÀ

di Silvia Vegetti Finzi
(da La lettura, supplemento del “Corriere della Sera” di domenica 29 dicembre 2013)  
Marco non ha mai fatto pace con la scuola. Per lui star seduto nel banco è una tortura assurda, una camicia di forza cui opporsi in ogni modo, dimenandosi, disturbando i compagni, facendo il pagliaccio. Che bello far ridere tutti! Genitori e insegnanti reagiscono rimpallandosi la responsabilità. Per gli uni l'insegnamento è troppo noioso, per gli altri la famiglia di Marco troppo sbilanciata. Al padre assente corrisponde una presenza materna dilagante e oppressiva.  Il duello tra casa e scuola esonera il bambino dall'assumere le proprie responsabilità. Nella sua testa l'insuccesso scolastico riguarda gli adulti, è un problema loro. E questi, finché dura la scuola dell'obbligo, cercano di minimizzare, di reagire cambiando istituto o sperando che, con l'età, le cose si aggiustino. Ma alle superiori può accadere che, da problema marginale, l'insuccesso scolastico di Marco si trasformi in fallimento esistenziale. Il preside manda a chiamare i genitori (di solito si presenta solo la madre) ed espone il problema: il ragazzo non ce la fa. Non si tratta di rimediare a qualche brutto voto, ma proprio di un fallimento strutturale. A questo punto occorre chiedersi "perché", individuare le cause per trovare le risposte. Ma la responsabilità, evitata prima, si presenta ora come senso di colpa, come se al fallimento del figlio corrispondesse quello dei genitori. Così inteso, il fallimento viene vissuto come una catastrofe anziché come un momento di crisi, come una rincorsa che consente di saltare più avanti e più in là. Molto diverso l'atteggiamento assunto dai genitori e dagli insegnanti anglosassoni che considerano l'andar male a scuola una crisi che si può e si deve superare, anche scegliendo un corso di studi più pragmatico e più breve. Che cosa provoca questo divario? Il fatto che spesso da noi la funzione materna - caratterizzata dal contenere, comprendere, giustificare - non è temperata da quella paterna, cui compete invece distinguere, separare sostenere le dinamiche di autonomia e indipendenza dei figli. L'amore parentale, se non viene governato da una strategia evolutiva, diviene adesivo, confusivo, paralizzante. Solo chiedendo ai ragazzi di assumere progressivamente le loro responsabilità potremo renderli capaci di gestire un eventuale fallimento, inserendolo in una prospettiva di vita mobile e complessa, dove si può vincere e perdere, cadere e rialzarsi perché si è consapevoli che le esperienze, adeguatamente elaborate, costituiscono l'unica, vera scuola di vita.
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lunedì 16 dicembre 2013

PER I “BISOGNI EDUCATIVI” MENO BUROCRAZIA E PIÙ SERVIZI ALLA DIDATTICA

Intervento di Giorgio Ragazzini del Gruppo di Firenze all'incontro-dibattito La normativa sui bisogni educativi aiuta la scuola?, tenutosi giovedì 12 novembre a Firenze. 

1. L’illusione procedurale 
Negli anni novanta si cercò di impiantare nelle elementari e nelle medie una metodologia di origine industriale, la programmazione per obbiettivi. Per ogni materia e anche negli ambiti comuni alle diverse discipline, si dovevano stabilire decine di obbiettivi e sotto-obbiettivi, da calendarizzare, corredare di mezzi e strumenti  e poi verificare nel corso dell’anno. E questi obbiettivi esondarono poi nelle schede di valutazione, al punto che i colleghi delle elementari ne dovevano valutare ben 44 a quadrimestre, fino a quando Berlinguer (almeno in questo – va detto – benemerito) fece piazza pulita. C’era chi mi diceva “Beh, finalmente anche certi insegnanti saranno costretti a lavorare”. Ma naturalmente non era così: si potevano produrre bellissime programmazioni, magari scopiazzandole qua e là, che poi rimanevano sulla carta.
Questa moda pedagogica mi è tornata in mente per una caratteristica che la accomuna con le disposizioni di cui ci occupiamo oggi (e potrei citare altri esempi, come il fallito tentativo di introdurre il cosiddetto “portfolio delle competenze”). Ed è l’illusione, che definirei “procedurale”, per cui i problemi si possono risolvere attraverso un insieme di prescrizioni, con un iter burocratico. Si varano delle linee guida, si costituisce una molteplicità di gruppi e comitati (non importa se pletorici e di scarsa qualificazione), si fa riferimento a organismi di supporto non si sa quanto già esistenti e quanto futuribili, infine si riunisce il Consiglio di Classe, che, tenendo conto di tutto questo, dovrebbe decidere se fare o no il PDP, il piano didattico personalizzato.
Come altre volte in passato, ho la sensazione che dietro l’impalcatura delle norme, che rischia di riuscire solo a gravare gli insegnanti di adempimenti burocratici, ci sia la convinzione ministeriale che altrimenti molti docenti non abbiano la volontà, più ancora che la capacità, di fare qualcosa per aiutare gli allievi in difficoltà e che quindi debbano essere costretti a lavorare secondo una metodologia dettata dal ministero o meglio da un gruppo di pedagogisti che ruotano intorno al ministero.

2. Motivare e demotivare. 
Questo ci porta direttamente a porsi una domanda: al ministero lo sanno che in qualsiasi organizzazione uno dei compiti della dirigenza è quello di saper motivare chi ci lavora, tanto più se si tratta di un mestiere tra i più difficili e logoranti (anzi uno dei tre mestieri “impossibili”, diceva Freud)? Sembra proprio di no, perché da molto tempo a questa parte hanno fatto di tutto per ottenere il risultato opposto, l’aumento della disaffezione e dello scoraggiamento!
Cito solo l’episodio più clamoroso: dopo una brutale riforma pensionistica, sulle cui conseguenze quanto a stress professionale il Miur non ha sentito l’esigenza di fare almeno un’indagine, un ministro della pubblica istruzione è arrivato a certificare ufficialmente di fronte alla nazione che quello dei docenti è un part time, per cui è ovvio e perfettamente lecito aumentargli - su due piedi - di un terzo l’orario di lavoro, s’intende senza incrementi retributivi di sorta.
Da questo punto di vista, quale messaggio danno la direttiva e le circolari sui BES? Potenziano e sostengono i docenti? Li valorizzano? O li rendono più preoccupati, più incerti, più timorosi di possibili ricorsi, più inclini a risolvere i problemi abbassando ulteriormente l’asticella?
Preoccupazioni e interrogativi che (anche un po’ inaspettatamente) sono  simili a quelli di un pedagogista come Maurizio Tiriticco, sostenitore convinto di individualizzazione, personalizzazione, insegnamento per competenze e didattica laboratoriale, che ritiene superflua e anzi dannosa questa normativa. Dopo aver notato che a questo punto qualsiasi cosa può diventare un BES, dice: 
“Invece di intimidire i nostri insegnanti come se fossero degli sprovveduti di fronte ai bisogni educativi di ogni tipo, si  provveda a sostenerli stanziando le necessarie risorse!
Dopo decenni di tagli, vogliamo anche colpevolizzarli perché sarebbero incapaci di affrontare situazioni di disagio?
Intimidiamoli con i Bes, e il gioco è fatto!!!
L’amministrazione è salva!   
E ancora:  “Poiché per  ogni alunno BES occorre un Piano di Studi Personalizzato, quindi orientato a competenze di livello inferiore a quelle delle Indicazioni Nazionali, il rischio è che…l'ignoranza dei nostri studenti e dell’intera popolazione aumenti!!! 
E infine: “Si vuole andare verso una scuola “più facile?”.

3. La responsabilità del discente 
Il terzo punto a cui vorrei accennare è la scomparsa dei ragazzi svogliati. Dove sono finiti? Risposta: non sono scomparsi, sono diventati tutti, senza eccezione, ragazzi che la scuola è incapace di motivare. In altre parole, siamo passati in poco tempo da un’istituzione che esigeva l’impegno degli allievi e  si interrogava troppo poco su se stessa, a quella di oggi che ritiene sempre un proprio fallimento l’insuccesso scolastico. Nella riflessione pedagogica ministeriale e nei suoi provvedimenti, l’iper-responsabilizzazione della scuola è andata di pari passo con la più o meno completa de-responsabilizzazione dei ragazzi. Manca del tutto e da tempo il tema dell’impegno, della volontà, dello sforzo che la scuola deve richiedere, pena l’abdicazione dalla sua funzione formativa.
Torno brevemente a Freud e ai tre mestieri impossibili, che sono governare, educare, psicoanalizzare. In che senso Freud diceva che sono impossibili? Lo diceva nel senso che il risultato non è garantito senza la collaborazione del soggetto a cui è rivolta l’attività del governante, dell’educatore, dello psicoanalista. Era una messa in guardia rispetto alle illusioni di onnipotenza. Il ferro, il legno, l’argilla, materiali dei mestieri “possibili”, possono essere manipolati a piacimento; i bambini no, per non parlare degli adolescenti. Ci vuole anche la loro partecipazione attiva.
Naturalmente è ovvio che parte integrante dei compiti dell’istituzione educativa è la ricerca di un suo continuo miglioramento, tuttavia è essenziale che ogni ragazzo abbia il sentimento della responsabilità individuale rispetto ai propri successi e ai propri insuccessi. Adolfo Scotto di Luzio scrive a questo proposito che abbiamo a che fare con una pedagogia in cui “l’esito è concepito non come il risultato – da conseguire, e dunque sempre incerto –dell’impegno di un individuo in carne e ossa, ma come lo sbocco prevedibile di un sistema ben congegnato”. Qualcosa di molto simile all’illusione di cui ho parlato all’inizio.
Allora io faccio fatica a comprendere che cosa significa fare un Piano Didattico Personalizzato a uno studente che si rifiuta di studiare. Anche perché contemporaneamente viene sempre più accarezzata l’idea luminosa di garantire la promozione a tutti, eliminando così anche quel tanto di deterrenza costituita dall’ “inutile”, anzi “dannosa” e soprattutto antieconomica bocciatura. Con l’ulteriore vantaggio che in questo modo il problema sparisce. Poi ci sarebbe un’alternativa alla ripetenza così com’è, ma non è il caso di parlarne in questa sede.

4. La crisi ignorata 
Ma se allarghiamo lo sguardo, vediamo che dall’orizzonte della pedagogia ministeriale non è assente soltanto il tema dell’impegno. È assente in blocco il tema dell’educazione in senso proprio; e lo è anche nella direttiva e nelle circolari sui BES. Nelle quali i “bisogni educativi” sono in realtà sinonimi di “difficoltà di apprendimento”, mentre paradossalmente non viene sfiorata neppure per un attimo proprio la crisi dell’educazione. Non pochi bambini arrivano alla scuola dell’infanzia senza aver fatto minimamente i conti con il principio di realtà, che dell’educazione è il fondamento. E di cosa è fatta la realtà? È fatta della presenza degli altri bambini con cui bisogna imparare a convivere; è fatta di regole da rispettare affinché la scuola funzioni, di limiti ai desideri individuali. Questo accade perché molti genitori, disorientati dall’assenza di una tradizione educativa condivisa e spesso afflitti dalla paura di non essere abbastanza amabili, sono stati indotti – come scrive il pediatra e psicanalista Aldo Naouri – a trasmettere ai figli un messaggio opposto al principio di realtà: «Non solo puoi avere tutto, ma ne hai anche diritto».
Privi di una sufficiente educazione di base, questi bambini diventano un grosso problema per la scuola; e tanto più lo sono i cosiddetti “bambini tiranni”, quelli che hanno preso il potere in famiglia e che cercano di imporre anche in classe la loro volontà: tendono a fare quello che vogliono, non sanno stare fermi, non “danno retta”, come si dice a Firenze, e quindi fanno perdere un’enorme quantità di tempo e di energie agli insegnanti. Diventano poi preadolescenti intrattabili e supponenti nelle scuole medie e spesso naufragano alle superiori.
Mi chiedo: con questo tipo di bambini e di ragazzi che vanno male a scuola perché non abituati alla costanza dell’impegno in vista di un risultato; che non stanno attenti perché tutti presi da se stessi, con cui probabilmente è già fallito più di un tentativo di interessarli, quale Piano Didattico Personalizzato è immaginabile, se non quello di abbassare gli obbiettivi fin quasi al livello zero?
Sono anzi convinto che una causa non secondaria di molte forme di “BES” e della loro cronicizzazione sia proprio la rimozione di questo tema da parte del governo della scuola e della cultura pedagogica prevalente. E si illude chi pensa che i problemi di comportamento possano essere completamente riassorbiti da una didattica più accattivante, più moderna.
È quindi indispensabile che, sia pure con grave ritardo, la scuola a tutti i livelli, a partire dal vertice, si faccia carico in modo esplicito e responsabile del problema educativo, nella convinzione che si tratta delle fondamenta stesse della formazione.
Sentite cosa dice l’Ocse nella sua analisi dei dati PISA 2012. Cito dalla sintesi che si trova sul sito dell’Associazione Docenti Italiani (ADi): 
(Focus n. 4) La disciplina della classe sembra avere grande influenza sul livello degli apprendimenti. Dove la disciplina è allentata, gli insegnanti sprecano tempo e gli studenti non sono concentrati anche a causa delle numerose interruzioni.
A queste conclusioni PISA è arrivata a partire dai dati di tutte le rilevazioni; 
(Focus 32) La maggior parte degli studenti è contenta quando c’è la disciplina in classe.  [Quindi si sta meglio a scuola, si ama di più la scuola] 
Le classi in cui vige la disciplina di solito hanno risultati migliori, indipendentemente dalle condizioni socio-economiche degli allievi. [Con la disciplina, una scuola più giusta socialmente]
In sostanza abbiamo una riforma a costo zero a disposizione solo che la si voglia e la si persegua con perseveranza: una scuola che ridia autorità agli insegnanti e sappia fare l’interesse dei ragazzi riscoprendo e coltivando la virtù della fermezza educativa. E riscoprendo anche il ruolo delle sanzioni, previste in ogni modello educativo che sia tale.
Pochi giorni fa ho letto un libro-intervista a Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano, a cura di un giornalista del Manifesto, a cui lo stesso intervistato collabora. A un certo punto Recalcati sostiene che esiste senza dubbio “il diritto a essere puniti”, facendo naturalmente trasecolare l’intervistatore. E spiega: Ti faccio l’esempio di una mia paziente cleptomane che ruba nei supermercati. […] Il suo passaggio all’atto del furto è l’invocazione che esista un adulto, qualcuno, un padre, un poliziotto, una cassiera, che le dica: “Fermati, hai rubato!” […]
Ecco, anche un allievo “onnipotente” spesso non desidera altro, in fondo, che essere fermato.

5. Un’alternativa 
Detto questo sul fronte educativo, vengo infine a un abbozzo di modello alternativo a quello che ci viene proposto da queste norme per affrontare le difficoltà di apprendimento. È molto semplice. Fare come nelle altre professioni: quando un medico generico si trova in difficoltà si rivolge o a un collega più esperto di lui o a uno specialista, oppure invia a quest’ultimo il paziente. Uno psicoterapeuta va dal suo supervisore e gli chiede consiglio su quel certo caso.
Quindi anche nella scuola, via le formalità burocratiche, via le procedure, via i Piani Annuali per l’Inclusività e tutto quello che rischia di essere solo generico e declamatorio; sì  all’estensione di qualificati servizi di consulenza (il logopedista, lo psicologo, il neuropsichiatra, l’assistente sociale). Con formalità ridotte al minimo e naturalmente nel rispetto dei due diversi ruoli. Da un modello, quindi, che per più motivi appesantisce il lavoro dei docenti a uno che lo alleggerisce e lo sostiene. È quello che avviene, per esempio, in Finlandia, dove gli insegnanti possono consultare frequentemente figure di supporto e appunto di consulenza.
Vale anche la pena di ricordare che soprattutto nella scuola secondaria manca un elemento essenziale della cultura professionale, che invece dovrebbe essere intensamente promosso, cioè il sistematico confronto di carattere seminariale, dunque fra pari, come fonte di arricchimento, di scambio di esperienze, come base dell’aggiornamento e come occasione di aiuto reciproco nell’affrontare i casi difficili.
Infine, questa impostazione tiene conto, a differenza di quella prospettata da queste norme, del fatto che molto spesso le difficoltà di apprendimento di un ragazzo si radicano in situazioni esterne alla scuola, soprattutto nella situazione familiare; ed è ovviamente in queste situazioni, più che direttamente sul piano didattico, che si deve cercare di intervenire  con assistenti sociali, psicologi e servizi educativi esterni.
Ecco, penso che sia in questa direzione che dovremmo far sentire la nostra voce. 

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