martedì 21 dicembre 2010

LA TIGRE E LA NEVE

di Valerio Vagnoli


(Segue dal blog principale) Finalmente si rivedono i ragazzi “in frotta” tornare a divertirsi a loro agio in mezzo alle strade e alle piazze, che per il resto dell’anno appartengono ad altri e, soprattutto, alle macchine. Mi è capitato, di ritorno a piedi da una cena presso amici che abitano dall’altra parte della città, d’incontrare bande di ragazze e ragazzi dalla voce da campana fessa tipica dei preadolescenti, anche in un’ora abbastanza tarda, intenti a tirarsi addosso la neve e a divertirsi con quel poco di cui è talvolta fatto il vero divertimento dei ragazzi. Evidentemente una città senza macchine è un’altra città, più sicura e affidabile e certamente in grado di tranquillizzare i genitori nel concedere ai loro figli libertà solitamente impensabili.I marciapiedi tornano ad essere decenti e a portata di bambini: gli escrementi dei cani riappariranno non appena il bianco della neve diventerà poltiglia, quando anche i marciapiedi ritorneranno ad essere quei percorsi ad ostacoli che conosciamo (come sappiamo, in molte nostre città un cane gode di maggior libertà rispetto ad un qualsiasi bambino). Anche le piste ciclabili sono vuote e libere dai ciclisti, senza il timore così di vedersi sfrecciare accanto pistard idioti che rendono a molti, e soprattutto ai bambini, anche il camminare sui marciapiedi una nevrotica e titubante avventura! Già, le piste ciclabili, proprio quelle che nel pensiero di certi amministratori avrebbero dovuto rappresentare il modello di un’altra città, più umana e vivibile, sono invece diventate il simbolo stesso della sconfitta di un simile modello di vita. Anziché essere costruite togliendo spazio alle auto, le si sono relegate sui marciapiedi a togliere spazio ai pedoni, mentre le auto, nelle loro corsie ancora privilegiate, prepotentemente sfrecciano con il loro senso d’impunità accanto a quei temerari o sprovveduti ciclisti che si avventurano in quella sorta di girone della morte che sono le strade cittadine.Non diciamo ovviamente niente di nuovo nel sottolineare come queste città siano nemiche dei bambini e dei ragazzi, vere e proprie tigri e non di cartapesta, purtroppo. Le stesse piccole piazzette di quartiere, soprattutto se ristrutturate di recente da qualche architetto in cerca di originalità ma non dell’uomo (come sarebbe invece giusto nella città culla dell’Umanesimo e del Rinascimento) non sono più per i bambini né per essere vissute, in generale, dalle persone. Talvolta bande di ragazzi le occupano per organizzarvi partitelle di calcetto che richiederebbero ben altri spazi che, ovviamente, non esistono. Forse è venuto il momento che i politici e gli amministratori avvertano l’urgenza di quanto sia fondamentale che le città tornino ad essere a misura dei bambini e dei ragazzi. Le piazze, le strade, i viali stessi, ove da ragazzi giocavamo a calcio, oramai non appartengono più a nessuno se non alle macchine: la vita sociale della città non passa più, per i giovani, da questi luoghi né dalle parrocchie o dai circoli ricreativi che non esistono più e se esistono sono in funzione del tempo libero dei pensionati. Così, di fronte a questa sorta di espulsione dei ragazzi dalla vita quotidiana delle città, i politici hanno pensato bene di delegare alle scuole il compito di sostituire il vuoto lasciato dalla scomparsa dei vecchi e tradizionali centri di aggregazione, compresi i cortili dei palazzi. Le scuole, così, hanno finito per ricoprire altri ruoli rispetto al loro compito fondamentale e i politici non hanno pensato più ai giovani; casomai, come certi genitori, non hanno lesinato critiche alla scuola ogniqualvolta il disagio giovanile esplodeva ritenendo che del disagio se ne dovesse occupare, appunto, solo la scuola. I giovani hanno necessità di spazi aperti, veramente liberi, sicuri e al di fuori del controllo diretto di qualsiasi autorità, purché esista una società che li senta come esseri preziosi e di cui aver cura. La loro dedizione ai videogiochi, a facebook e al computer in genere, non è solo legata alla forza di attrazione che queste nuove tecnologie hanno nei loro confronti. Viene il sospetto che la loro vita davanti al computer sia obbligata, anche perché non hanno altre possibilità di trovarsi con le amiche e gli amici in altri luoghi e in altri spazi che non ci sono e che nessuno ha pensato loro di dare. Non può essere solo la neve, ogni tanto, a farli incontrare e divertire in mezzo alla strada, in quell’età difficile e cruciale che va dalla preadolescenza all’adolescenza vera e propria. Ci deve pur essere un’altra soluzione alla loro esigenza di aggregazione che non sia internet, l’intervallo della scuola e qualche ora di neve fresca!
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giovedì 26 agosto 2010

DON MILANI: PER FORTUNA NON FU L'UNICO MAESTRO

di Valerio Vagnoli


Fu un prete ultratradizionalista e mai e poi mai avrebbe sostenuto, come abbiamo visto nella citazione, una contrapposizione con la Chiesa fino al punto da esserne cacciato, perché alla fine era l’unica istituzione che gli permettesse di stare tra i poveri avendo nei loro confronti un ruolo doppiamente egemone: quello di pastore e quello di educatore, ruoli che trovavano una sintesi essenziale in quello di guida di una comunità come la minuscola Barbiana. Anzi, come notò a suo tempo Pier Paolo Pasolini, la curia fiorentina non avrebbe potuto fargli dono di una parrocchia a lui più consona. Anche perché, questo è però un mio pensiero, quella gente di montagna corrispondeva in pieno a quello che per lui era il testo chiave del suo cristianesimo. Un testo che si contestualizzava, guarda caso, proprio in un’altra montagna: quella delle beatitudini.
Inoltre, a uno come lui, dal carattere intrattabile e spesso isterico e violento (non solo nel linguaggio), prepotente e sprezzante con chi non rientrasse nelle sue grazie, per niente incline a misurarsi con umiltà nei confronti di chiunque, neanche con i poveri, la Chiesa offriva quello che nessun’ altra esperienza gli avrebbe potuto garantire: una sponda in grado di permettergli una personale “gestione” di profondi sensi di colpa che egli si portava dietro e che senz’altro trovavano uno dei riferimenti essenziali nelle proprie radici familiari. Sugli aspetti del suo carattere non possiamo prescindere, tra le tante altre testimonianze, dalla bellissima lettera che il 25 gennaio del 1966 gli indirizzò l’arcivescovo di Firenze, Ermenegildo Florit, insigne biblista e, ironia del destino, figlio di un minatore e fratello di contadini, uno dei quali morto sul lavoro. Scrive, tra le altre cose, Florit: “Tu potrai magari scuotere le coscienze, ma resta vero che l’aceto converte pochi, e una goccia di miele ogni tanto attirerebbe forse più anime a Dio...Tu, don Milani, sei per natura un assolutista, e rischi di produrre, specialmente tra i più sprovveduti di cultura e di fede, dei veri classisti, di destra o di sinistra non importa... Il fatto poi che sei rimasto per anni parroco di Barbiana, credo che sia dipeso da questo: i tuoi superiori hanno creduto di non riconoscere in te la necessaria disposizione alla carità pastorale, ma piuttosto lo zelo fustigatore che ti fa apparire dominatore delle coscienze prima ancora che padre.”
L’ingresso nella Chiesa gli permise di riconoscersi costantemente e direi quasi esclusivamente nei Vangeli (soprattutto e non a caso quello di Matteo), nei quali avrebbe ritrovato riferimenti pressoché esclusivi per la sua esperienza pastorale “dalla parte degli ultimi”, tesa a riscattarli culturalmente e cristianamente (in lui i due termini finivano per coincidere) dal fardello dell’umiliazione storica e umana in cui erano relegati. Infatti, alla cancellazione delle sue origini ebraiche si accompagnò in lui quella, pressoché totale, del Vecchio Testamento.
Riconobbe essenzialmente nello Stato il maggior responsabile dell’abbrutimento in cui si trovavano i contadini e gli operai. Quando si trattò di attaccare la scuola, attaccò con forza e disprezzo quella statale e non quella religiosa, che allora più di oggi prosperava attraverso strutture floride e solide. Mi spiego meglio: se don Milani fosse stato interessato alla promozione scolastica dei suoi ragazzi, li avrebbe potuti mandare in qualche scuola privata di religiosi, come gli Scolopi fiorentini, ove operava un altro uomo di chiesa, padre Balducci. Il quale, anche se impegnato nella formazione religiosa e sociale dei rampolli della borghesia democristiana fiorentina e per questo poco stimato da don Milani, aveva tuttavia la giusta sensibilità per valorizzare il retroterra culturale di ragazzi che magari sapevano come figliavano i “coniglioli”, ma ignoravano del tutto, per esempio, “i parenti di Enea”, identificando il prete di Barbiana in questa definizione una cultura classica inutile, mnemonica, priva di senso e soprattutto di attinenza col presente. No, a don Milani non interessava solo la promozione dei suoi figlioli, né si preoccupava abbastanza delle frustrazioni a cui li sottoponeva mandandoli agli esami con evidenti lacune nei programmi statali, comuni, allora più di oggi, a tutti gli studenti italiani. A don Lorenzo Milani interessava anche far scoppiare lo scandalo legato alla distanza che lo Stato manteneva nei confronti delle “barbiane” italiane e dei loro abitanti. Obiettivo nobile e condivisibile, allora come oggi, ma di cui non erano certamente responsabili i docenti e i dirigenti di quelle scuole (definiti da lui poco cristianamente “bestie e boia”) in cui andavano a dare gli esami, bocciando, i suoi “figlioli”.
Questi docenti, malgrado la violenta polemica del prete fiorentino, non promuovendo gli studenti di Barbiana perché impreparati, invece di trattarli in modo diverso dagli altri, non facevano altro che il loro dovere e rispettavano la deontologia essenziale che uno Stato laico richiede ai suoi dipendenti. Erano studenti realmente svantaggiati socialmente e culturalmente, ma assolutamente inadeguati, in virtù della preparazione che la scuola di don Lorenzo aveva dato loro, a superare gli esami che servivano per diventare maestri.
Ma a don Milani questo non interessava: anzi, la sua idiosincrasia nei confronti della scuola di Stato era tale che finiva col prendersela, e in modo davvero pretestuoso e pretenzioso, anche con i giovanissimi docenti precari dei vari doposcuola mugellani, in primis quelli di Vicchio, perché secondo lui, impreparati e scioccamente portati a far giocare e divertire i bambini dei doposcuola, facendoli così diventare - secondo lui - poco più che dei cretini. Dietro tanto astio, verrebbe da pensare che vi fosse in lui il risentimento per una carriera scolastica non proprio brillante prima dell’entrata in seminario.
Bersaglio delle sue polemiche diventavano anche le stesse supplenti che il primo giorno di nomina arrivavano in ritardo nelle scuole di montagna, oltre a stigmatizzare in generale, il fatto che i docenti, anziché rimanere celibi e nubili, si sposavano, togliendo così tempo alla scuola alla quale avrebbero dovuto invece votarsi completamente; come, questo però era solo sottinteso, aveva fatto lui e soltanto lui!
No, per don Milani la scuola di Stato era in mano a maestri irresponsabili e viziati, anche perché piccolo-borghesi e geneticamente vicini alla classe dominante e neghittosamente distanti dai poveri e dagli ultimi, destinati dalla scuola statale a subire, in linea di massima, solo umiliazioni. Vale invece la pena di ricordare come, negli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, la scuola statale italiana diventò finalmente di massa raggiungendo per la prima volta e spesso con risultati straordinari, i bambini di tutte le barbiane italiane. Proprio negli anni in cui don Milani tuonava contro i docenti italiani, migliaia e migliaia di maestre e maestri passavano gli inverni, talvolta senza neanche tornare a casa per il fine settimana, in camere di fortuna dei molti paesini italiani in cui avevano avuto la sede di insegnamento; di solito in affitto dal parroco o dal bottegaio, quando nei borghi sperduti delle montagne e delle campagne vi era traccia di una bottega, oppure in casa di contadini. Tutto ciò accadeva anche nel suo Mugello, come ancora possono testimoniare le persone che sono vissute in quegli anni in certi borghi mugellani oggi quasi scomparsi e allora, al pari di Barbiana, dimenticati da dio e dagli uomini.
Don Lorenzo aveva mille ragioni nel condannare le ingiustizie e le disuguaglianze a svantaggio dei poveri, soprattutto della campagna. Ma sulla visione del mondo cittadino, don Milani nutriva, in generale, le diffidenze tipiche di certo populismo e pauperismo cattolico e non solo cattolico, che incontriamo in personalità distantissime che vanno, per citare solo due nomi, dal Savonarola al Pascoli, entrambi portati a vedere la città come luogo di perdizione e di egoismo. Ma credo fermamente sia da respingere in toto il ruolo che egli affidò alla “sua” scuola affinché si potessero, tramite essa, superare tali prepotenti e inammissibili condizioni di arretratezza.
In generale egli pensava che la scuola dovesse, giustamente, essere aperta a tutti, rispettando le diversità culturali che i ragazzi si portavano dietro, perché un ragazzo figlio di contadini, solitamente, aveva minori opportunità di riuscire negli studi rispetto al figlio di un medico o di un insegnante. Ma la soluzione che egli propose, una scuola, cioè, che dovesse abbassarsi alla mediocrità culturale dei più svantaggiati, avrebbe finito col creare delle ulteriori profonde ingiustizie. Ed è andata proprio così, in virtù del largo seguito che certe istanze donmilaniane hanno avuto tra i docenti, tra i pedagogisti e financo tra uomini e donne di primissimo piano della politica italiana, soprattutto di quell’area che, tanto per intenderci, chiameremo catto-comunista; area, quest’ultima, che sul piano della didattica ha, in questo Paese, assolutamente un ruolo ampiamente egemonico da almeno quattro decenni.
C’è, onestamente, dell’imbarazzo, nel dover constatare che è stata presa sul serio la “pedagogia” di un maestro che riteneva, per esempio, “nemico dei poveri” un intellettuale come Ugo Foscolo (e che intellettuale! Uno dei pochi tra i nostri, sovente piaggiatori, cortigiani e questuanti, che ebbe il coraggio di affrontare la miseria e l’esilio piuttosto che venire a compromessi, anche minimi, col potere); e questo perché, come affermò il priore di Barbiana con totale convinzione, se li avesse amati avrebbe scritto in modo più chiaro e tale da essere compreso anche da loro. Insomma, don Lorenzo, paradossalmente, finiva col nutrire scarsissima fiducia nelle capacità dei poveri. Li riteneva, in qualche misura, incapaci di confrontarsi con una cultura (peraltro la sua, della sua famiglia, della Chiesa e della classe dirigente in generale) diciamo così, alta, e comunque ineludibile se si vuol aspirare a diventare, come invece aveva evidenziato Antonio Gramsci, classe dirigente.
Per inciso, vale la pena di ricordare che don Lorenzo non parlò mai della scuola come mezzo (forse anche oggi l’unico, ovviamente fra quelli leciti, se vi si applicasse però il principio del merito) per poter permettere, anche ai poveri, un’ascesa sociale. A dire il vero, il priore di Barbiana, come accenno ancora più avanti, non auspicò mai un riscatto sociale ed economico per i poveri. Pensò ad essi esclusivamente come poveri, ai quali era stato negato il diritto di vedersi riconosciuta la loro dignità e la loro cultura; e quest’ultima andava assolutamente salvaguardata e valorizzata prima che quella borghese, “americana” e consumistica la cancellasse del tutto, impedendogli così di sapere, con orgogliosa consapevolezza, che il vangelo era dalla loro parte e che a differenza dei ricchi e dei crapuloni si sarebbero salvati: “Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: «Pipetta hai torto. Beati i poveri perché il Regno dei Cieli è loro»".
Anche se don Milani non riuscì a vedere, e forse fu per lui una fortuna, la profonda rivoluzione economica e sociale che di lì a poco avrebbe completamente svuotato le montagne e le campagne, non fu minimamente sfiorato dal dubbio che solo col benessere anche i poveri avrebbero avuto maggiori possibilità di veder cambiato, in meglio, il proprio destino. Certo, a scapito della perdita della loro cultura e della loro “innocenza”, diciamo così, antropologica.
Chissà cosa sarebbe accaduto se il destino gli avesse permesso di vivere a lungo e di assistere allo sfacelo di quei valori, anche evangelici, a cui aveva dedicato metà della sua vita. Chissà quali approdi gli avrebbe riservato il futuro, e fra questi non è da escludere che avrebbe potuto proseguire la sua missione pastorale, al pari di alcuni suoi amici di seminario, nel Terzo mondo e da lì, probabilmente, avrebbe fatto in tempo ad assistere ad un’altra fuga, di altri poveri, verso una città ancora più grande delle “temute “Prato e Firenze. Una città corrispondente ad interi continenti, ove quei poveri sarebbero andati alla ricerca, come i suoi vecchi parrocchiani di un tempo, di una vita più dignitosa e più giusta, anche a costo di perdere la loro “purezza”, la loro cultura, il loro passato e, troppo sovente, la loro stessa vita.
Ma tornando brevemente al Foscolo, non posso tacere sulla profonda emozione che provocò in tutti noi studenti di prima media (sez. E, anno 1964, scuola Leonardo da Vinci di Lastra a Signa, quasi tutti figli di operai e contadini e quasi tutti provenienti da alcune tra le tante barbiane della Toscana e dell’Italia di allora), l’analisi che del Foscolo ci venne proposta da parte della nostra bravissima insegnante, che ci fece alla fine imparare a memoria alcuni fra i suoi sonetti più belli e più vicini all’animo preadolescenziale di noi ragazzi. Personalmente devo a quei sonetti una parte importante nella formazione della mia anima civile e culturale, di cui peraltro vado ancora oggi assai fiero, tanto per usare un termine foscoliano. E ringrazio quei docenti, soprattutto delle elementari e delle medie, che non rimasero ammaliati dal nostro “primitivismo” e pensarono bene di metterci di fronte ad una cultura alta, impegnativa, senza sconti e decisamente in grado di darci uno spessore critico, a dodici anni, oggi assolutamente impensabile anche in classi terminali di ordini di scuola superiori. Avevamo un passato fin troppo antico alle nostre spalle per non essere attratti dal futuro che si apriva davanti ai nostri occhi, non solo con la televisione, ma anche attraverso l’incontro con “ i parenti di Enea”, l’orgoglio di Dante, la pazzia di Orlando, i capricci del Barone di Rondò e con tutti gli altri antichi miti e cavalieri che ci aiutavano a sognare un mondo migliore e più giusto, lontano però dalle nostre montagne, proprio come stava facendo Ulisse, di cui leggevamo le avventure accompagnandolo nel suo viaggio quasi come se si stesse ancora svolgendo.
Altro che nemico dei poveri, povero Foscolo! Nemico dei poveri è colui che, ai poveri, preconfeziona una scuola misurata essenzialmente sulla contemporaneità, su una visione del sapere basato quasi esclusivamente sulla concretezza e sul criterio, insomma, che pur di non bocciare debba rinunciare ad essere “difficile”, perché una scuola che boccia è una scuola classista, secondo quanto propugnava don Milani e secondo quanto propugnano i suoi numerosi seguaci. Seguaci che spesso tra i meriti, gli riconoscono anche quello di esser stato il primo a sperimentare una didattica, diciamo così, circolare, ove ognuno avesse da insegnare e da imparare dagli altri.
Don Milani, almeno su questo aspetto didattico, non fu un innovatore e su questa struttura circolare della didattica, Firenze aveva sperimentato ben prima e con ben altri maestri quello che alcuni seguaci di don Milani gli riconoscono, invece, come modello didattico esclusivo. Casomai c’è da dire che la didattica “partecipata e collettiva” nella scuola di Barbiana, per dirla con Sebastiano Vassalli, poteva spesso diventare, anche a suon di scapaccioni e ceffoni, vero e proprio indottrinamento.
Che don Milani amasse visceralmente la propria scuola è scontato, e la amava con tanta consapevolezza da essere lui stesso convinto che il suo modello non poteva essere esportato, tantomeno nella scuola statale; tutt’al più, sosteneva, poteva essere fatto proprio da qualche altro prete, si badi bene, di montagna, poiché era evidente che il mondo delle campagne stava già scivolando, inesorabilmente, verso le città, e scomparivano quelle lucciole che si sarebbero portate via secoli di pura miseria e di spaventosa medievale soggezione, che non sarebbe stata certo salvaguardata da qualche scuola di montagna improntata ai valori di testimonianza e fede evangelica.
C’è tuttavia in lui, come era pur presente in un altro dei maggiori tra i nostri intellettuali, Pasolini, anch’egli assai vicino al Vangelo di Matteo ed anch’egli incline ad una visione dei poveri di stampo populista[1], un atteggiamento decisamente illuminista che si ritrova innanzitutto nella splendida prosa dei suoi pamphlet; sebbene il parroco di Barbiana ci voglia far costantemente credere che essi fossero il frutto di quel lavoro circolare e collettivo che si sperimentava (anche) nella sua scuola. Per inciso, così fosse stato, avremmo probabilmente avuto, dopo la sua morte, altri scritti di tanta straordinaria bellezza, anche espositiva, che invece non ci sono stati.
Ma torniamo all’anima illuminista che egli ebbe e che si agitò anch’essa dentro di lui in maniera contraddittoria e conflittuale, fino ad essere, ovviamente, cancellata dal “sacerdote-maestro”. Prendiamo a titolo estremamente esemplificativo quanto egli scrive ad un amico informandolo delle dinamiche che delineano i rapporti tra i suoi “studenti” di San Donato: “Di comune hanno poco... fuorché un bel progresso che han fatto nel cercare di rispettare la persona dell’avversario, di capire che il male e il bene non sono tutti da una parte, che non bisogna mai credere né ai comunisti né ai preti, che bisogna andar sempre controcorrente...”.
Insomma, una linea culturale e didattica senz’altro di chiaro stampo illuminista; che tuttavia quasi sempre scompare ogniqualvolta predomina il maestro autoritario e dogmatico che - non ebbe neanche lui stesso difficoltà ad ammetterlo - in fondo egli fu. Scrive in una lettera del ’59: “Non so se è un errore il fatto di piacere a Malagodi, ma è un fatto che quando si parla di scuola le persone che meglio mi intendono sono i liberali, quelli liberali davvero però... Eppure il presupposto da cui prendiamo il via è diametralmente opposto: io parto sapendo già la Verità, loro partono in quarta contro quelli che sanno già la verità. Ma la maniera di concepire la scuola è identica: un’assoluta indifferenza per i dogmi. Loro non li rammentano mai perché non ci credono. Io non li rammento mai perché ci credo”.
Quello che don Milani scriveva, e pensava, era assolutamente vero: un certo modo di concepire la scuola era lo stesso dei liberali: libera in ogni senso dal monopolio dello Stato per entrambi, ma decisamente distante nei fini. Da una parte una scuola che si propone di formare delle coscienze quanto più possibile libere, autentiche e animate dal dubbio, dall’altra il prevalere delle verità assolute e incontrovertibili. Nella scuola di Barbiana, infatti, conta “solo l’opinione del maestro e chi non è d’accordo se ne va”, scrive don Lorenzo in una delle sue lettere, finendo così per rappresentarla alla stregua di quella conchiglia che sembra godere di una autonomia e di una vivacità motoria non riscontrabile in nessun’ altra, salvo poi scoprire che ad agitarla e a darle vita è il crostaceo che vi abita dentro.
Egli fu un maestro che senza vincoli e laccioli creò una scuola che rispondeva, come già detto, ad un fine ben delineato e ad un contesto irripetibile e destinato a non lasciare, malgrado i suoi sforzi, altri veri maestri; come ben sa un accorto studente di prima liceo, la storia è destinata, come gli individui, a non ripetersi.
Il problema è che a non saperlo sono molti tra coloro che dai pellegrinaggi a Barbiana si portano dietro, insieme alla struggente suggestione di un mondo che pur palpitò con forza e passione anche da quei monti (e questo palpito don Lorenzo Milani ebbe il grande e innegabile pregio di testimoniarlo ai coetanei e ai posteri), la certezza che quell’esperienza didattica debba diventare, o continuare ad essere, una sorta di esempio da perpetuare soprattutto nelle scuole che si rivolgono agli umili e agli ultimi con dei risultati a volte esilaranti, se non avessero per oggetto dei bambini, per lo più svantaggiati - non certo gratificati - dall’essere poveri. Si può portare a esempio una puntata dell’Infedele del marzo 2007 proprio dedicata a don Milani. La trasmissione ruotava intorno alla tesi per cui i nuovi poveri di Barbiana sono i figli degli immigrati. Per le maestre presenti in studio e per lo stesso conduttore, era fuori discussione che una classe scolastica composta in gran maggioranza da ragazzi extra-comunitari costituiva una ricchezza per tutti, sia per i ragazzi stranieri che per quelli italiani. A niente erano valse le analisi critiche dell’allora ministro dell’Istruzione Fioroni, che ricordava come una situazione del genere finisse, invece, col penalizzare tutti gli studenti. Ma la trasmissione era stata evidentemente preconfezionata secondo un cliché molto milaniano e di fronte ai rilievi del ministro scattò più volte la risentita affermazione del conduttore, Gad Lerner, secondo la quale in studio era presente il meglio della scuola italiana. Insomma, la trasmissione sanciva ancora una volta come sia stata fatta acriticamente propria da certa cultura, anche politica, l’esperienza scolastica che negli anni cinquanta e sessanta si realizzò intorno ad un maestro difficile, autoritario, dogmatico, ma decisamente carismatico come don Milani .
Don Lorenzo non amava i ricchi e i potenti, malgrado li utilizzasse, quando occorreva, perché aiutassero i suoi ragazzi, che raccomandava a qualcuno di loro ogniqualvolta poteva essere utile. Un privilegio, questo, non da poco, se si pensa che quasi tutti gli interlocutori di don Lorenzo Milani erano ben disponibili a farsi carico delle richieste del sacerdote e ben inseriti anche nel potere politico democristiano che, almeno a parole, egli dichiarava di amare pochissimo.
Si dice che quando veniva a Firenze nella borghesissima casa della madre in via Masaccio, anziché dormire in camera preferisse riposare su una brandina collocata in cantina. Quando fu invece ricoverato, alla fine dei suoi giorni, in ospedale, accettò il ricovero nel reparto paganti, ove ebbe riservate ben tre stanze, una delle quali serviva da anticamera in cui alcuni dei suoi fedelissimi selezionavano i visitatori.
Don Lorenzo non morì a Barbiana; passò i suoi ultimi giorni a casa della mamma, ma non in cantina, a conferma che anche nell’intransigente prete di Barbiana vi fu posto per quelle umane contraddizioni che alla fine rendono i santi ancora più umani e forse proprio per questo più santi. Tuttavia egli fu sinceramente e innegabilmente, anche se a suo modo, vicino ai “suoi” poveri. Ma, come dicevo all’inizio, pur odiando i ricchi e i potenti (vale la pena ribadire che egli proveniva da una delle famiglie più ricche e potenti della Firenze dei primi decenni del secolo scorso), non mise mai in discussione la struttura della società, pur essendo un convinto nemico della civiltà industriale (si veda Esperienze pastorali) e della società del benessere.
Mise invece in discussione la scuola che umiliava i poveri escludendoli, non tanto dall’ascesa sociale, dato che don Milani non auspicava in questo campo, come già detto, alcuna rivoluzione, ma da una cultura che desse loro dignità. Egli riteneva che si dovesse valorizzare il mondo contadino riconoscendo a quel mondo una forte autorevolezza culturale, finendo così per identificare il concetto di cultura con quello più specifico di antropologia culturale.
Perciò la scuola pubblica aveva, per lui, il dovere di accogliere questa cultura per valorizzarla e valorizzare contemporaneamente i suoi ragazzi, ma la cultura tradizionalista della scuola di Stato non contemplava tra i suoi interessi l’esaltazione di quella cultura e, pertanto, non poteva che essere da spazzar via perché nemica dei poveri.
Come ho già detto, don Lorenzo Milani non metteva in discussione il concetto di povertà, forse perché era consapevole che in una società “americana” sarebbe venuto meno il ruolo stesso del prete e della Chiesa, ma riteneva che in questa condizione si trovasse rispecchiata l’umanità più cara e vicina a Cristo. Egli voleva che i montanari e i poveri in generale fossero in grado di misurarsi con i padroni senza alcuna forma di soggezione; dovevano, insomma, imparare ad essere orgogliosi delle loro condizioni e a non essere dei vinti figli di vinti e padri di vinti, salvo non cadessero nella trappola dell’ambizione e della rincorsa ai modelli del benessere, come pure era accaduto a “Bruno... di preferire di fare lo schiavo, anzi il caporeparto, calpestando... il mio lavoro di sedici anni per insuperbirlo”.
Ma, ribadisco, quando don Milani indica come si dovesse costruire questa strada, il disastro didattico è senza ritorno, perché la soluzione che egli propone è essenzialmente quella di una scuola che si abbassi alla concretezza di chi è più svantaggiato, sottomettendolo, in barba ai più elementari principi pedagogici, ad una scuola priva di vacanze, aperta anche la domenica e dalla durata giornaliera di almeno una decina di ore senza alcun intervallo e senza alcun divertimento, fosse pure la ricreazione, come nelle scuole dei più rigidi regimi.
A tale proposito si avverte, leggendo i suoi scritti, che le fughe da parte dei bambini dalla “sua” scuola, non erano infrequenti. E si avverte altresì il paziente lavoro di mediazione che la sua perpetua era costretta a fare con quei genitori che rivendicavano dei risultati e delle aspettative migliori per i propri ragazzi e, forse, anche una maggiore comprensione da parte del loro parroco che accampava sui loro figli una sostanziale egemonia , non solo educativa.
Egli riteneva - e la sua non era certamente una novità, soprattutto nel panorama cattolico fiorentino di allora - che l’unica salvezza fosse nella povertà e che dovessero essere i valori cristiani a dover finalmente creare un’alternativa all’immoralità di una società che si stava irrimediabilmente perdendo. E questa alternativa poteva nascere solo se quel mondo, le barbiane, appunto, d’Italia, fosse stato in grado di resistere alla corruzione di quei modelli che anche attraverso la nuova cultura di massa, la nuova “fiera delle vanità”, si stavano sempre più imponendo. Questa resistenza passava attraverso un percorso scolastico nuovo che avrebbe dovuto formare maestri del tutto diversi, provenienti proprio da quel retroterra col fine di rappresentarlo, di dargli dignità e, malgrado tutto, immobilità.
Egli era fermamente convinto che per diventare buoni maestri occorresse conoscere la montagna con i suoi secoli di oppressione e di sofferenza, scrivere in modo scarno e senza fantasia, avere preparazione sindacale, essere intraprendenti e aver avuto il coraggio d’andare all’estero per imparare le lingue, saper leggere il giornale, sapere come figliano gli animali e così via. Insomma, nuovi maestri formati ad un modello scolastico che, partendo dalla valorizzazione di ciò che è vicino al ragazzo povero, rimanga poi costantemente legato ad una cultura ove l’astrazione lasci il posto all’esperienza diretta e il passato alla contemporaneità.
Eppure, come ho scritto più sopra, molte maestre e maestri di quegli anni contribuirono a cambiare il volto di questo nostro Paese, sapendo calare le loro istanze pedagogiche nelle tante realtà sociali ed economiche che allora più di oggi differenziavano l’Italia. Ogni frazione, ogni Barbiana ebbe la sua scuola (si stringe il cuore alla vista di borghi di montagna abbandonati con le loro chiese sconsacrate e con i ruderi di vecchie aule ancora riconoscibili) e nelle scuole serali centinaia e centinaia di migliaia di contadini, pastori, operaie e operai, braccianti, massaie e ragazze andavano o tornavano a scuola, nei dopocena, ad imparare a leggere e a scrivere e a conoscere meglio quel nuovo mondo che si stava affermando e col quale volevano misurarsi con dignità e consapevolezza. Ed erano le maestre e i maestri a presentar loro quella nuova realtà; maestre e maestri spesso poco più che ragazzi che per raggiungere, di notte, quei borghi e quei paesi, erano sottoposti a sacrifici a cui un Paese veramente interessato al proprio passato dovrebbe rendere più di un tributo.
Mi corre, invece, l’obbligo di sottolineare come il disprezzo che don Milani manifestò nei confronti dei docenti della scuola di Stato contribuì, oltre a far nascere nell’opinione pubblica una mentalità ancora oggi assai ostile nei loro confronti, a far passare in secondo piano, o forse a cancellare del tutto, il lavoro grandioso che la scuola italiana portò avanti, quasi sempre con risultati straordinari, negli anni a cui facevo sopra riferimento.
Manca, insomma una ricostruzione storica precisa di quello che accadde negli anni Cinquanta e Sessanta nella scuola elementare e media, quest’ultima nel frattempo diventata unica e obbligatoria, a testimoniare come la crescita civile di questo Paese trovasse proprio nella scuola l’elemento cruciale affinché si passasse da un medioevo diffuso ad un Paese moderno, meno povero e anche per questo meno umile rispetto ai poteri di ogni risma che fino ad allora avevano dominato. Di sicuro dovremmo non perdere l’occasione per raccogliere, finché siamo in tempo, le testimonianze di quei docenti che, oggi ancora in vita, vissero quella sorta di epopea che ritroviamo, per esempio, in certe pagine di Zanotti Bianco e nella struggente, e oramai introvabile, testimonianza di Maria Giacobbe, maestra ad Orgosolo negli anni Cinquanta, impegnata ad aprire a quelle bambine e a quei bambini della Barbagia l’anima lebia de sos nostros piseddos, come ebbe a dire di lei un vecchio del luogo.
Leggendo quelle pagine ci si potrà rendere conto di quanto ci siamo permessi di liquidare a proposito della storia sociale e culturale del nostro recente passato. Da quel che mi risulta in nessuna dichiarazione o relazione che parli di scuola fatta da uno dei tanti politici e pedagogisti che in questi decenni sono andati a rendere omaggio e a trovare foscolianamente ispirazione sulla tomba di don Lorenzo Milani, a Barbiana, vi è un pur minimo accenno a quel mondo e a quel contesto di cui parlavo poco sopra. E chissà quali altri frutti potevano scaturire da quelle scuole e da quei maestri, se essi avessero avuto a disposizione i mezzi e le conoscenze del parroco di Barbiana: egli aveva, lo ripeto, dei referenti politici di primo piano e tutti quanti legati ad una corrente della Democrazia cristiana assai potente e ben radicata, in particolare, nel contesto fiorentino.
Altro che riconoscimenti al contributo che i docenti, in particolar modo quelli delle elementari e della media unica, hanno portato allo sviluppo culturale e civile di un Paese distrutto dalla guerra e da secoli di arretratezza e sfruttamento! Il più delle volte gli estimatori del priore esaltano la sua figura e la sua opera in chiave polemica con la scuola statale e i docenti, rei, questi ultimi, di non prendersi, o di non essersi presi adeguatamente a cuore i problemi dei ragazzi come invece aveva fatto il parroco di Barbiana. Senza contare, ovviamente, che alcuni di questi estimatori hanno avuto e continuano ad avere ruoli di primo piano nella politica nazionale, e in virtù di questi loro ruoli hanno fatto di tutto, per fortuna riuscendovi solo in parte, per fare della scuola italiana, in dispregio a quanto don Milani pensava, una sorta di grande e squalificato doposcuola!
È innegabile che il “mito” del priore di Barbiana abbia le sue radici anche nel movimento degli studenti italiani che, alla fine degli anni Sessanta videro in lui, giustamente dal loro punto di vista, il precursore della contestazione del modello scolastico tradizionale e il vero grande propugnatore di una scuola che avrebbe dovuto garantire, a tutti, quello che qualche decennio più tardi sarà orribilmente definito il successo formativo.
Forse altri, e dal loro punto di vista anch’essi giustamente, videro in lui il modello di leader autoritario e autorevole che avrebbe avuto tanta fortuna nei movimenti rivoluzionari di quegli anni, ed altri ancora vi possono anche aver visto un fautore della lotta di classe che gli studenti invocavano davanti alle fabbriche ove gli operai, più che sentirsi gratificati da tanto sostegno, sognavano per i loro figli un futuro da studenti.
Penso, infine, che uno dei motivi per cui la figura del prete di Barbiana abbia avuto e continui ad avere un così largo credito in quella particolare componente politico-culturale definita di matrice catto-comunista, sia legato anche alla necessità che alcuni hanno di riconoscersi in guide autoritarie e dogmatiche in grado di dargli certezze, al punto di permettergli di coniugare tranquillamente e di far coabitare dentro di sé e nella propria visione del mondo l’anima, diciamo così, infantile e cattolica con quella iniziatica e giovanile del comunismo. Comunque sia, è assai singolare come molti trovino nell’opera e negli scritti di don Milani uno degli esempi più alti di educazione agli ideali di libertà, senza rendersi conto che essi eventualmente sono trasmessi da un maestro tra i più autoritari e manichei che la scuola ricordi.
È noto l’episodio della piccola piscina ancora oggi visibile, costruita a Barbiana dai ragazzi più grandi, e che doveva servire esclusivamente ad imparare a nuotare. Uno dei primi giorni in cui la “piscina” era già diventata praticabile, alcuni bambini (il priore si era distratto a parlare con un altro prete già suo compagno di seminario che era andato a trovarlo e che qualche anno più tardi avrebbe raccontato l’episodio ai suoi studenti della magistrali, tra i quali c’ero anch’io) si erano messi a sguazzare divertendosi come si può divertire un bambino che per la prima volta entra, insieme a dei compagni, in una pozza d’acqua. Il priore, l’episodio è accennato anche nei suoi scritti, ebbe uno dei suoi violenti scatti d’ira, perché in quella scuola, nella sua scuola, non ci si poteva permettere il divertimento, il perdere tempo e lo scimmiottamento dei ragazzini borghesi: la piscina doveva infatti servire esclusivamente ad imparare a nuotare!
Lo scatto d’ira del priore turbò non poco l’antico compagno di seminario, prete e docente assillato costantemente dal dubbio e animato dall’umano rispetto per i deboli animi di ciascuno di noi. Infatti non delineò a nessuno dei suoi studenti, come fanno i migliori tra i maestri, cammini e destini da compiere o comportamenti esemplari, ma ci insegnò la delicata arte del cercare di capire gli altri nei loro aspetti peggiori, l’equilibrio incerto della quotidianità e la conquista paziente di una felicità, anche attraverso il gioco e il divertimento, che rende più accettabile la vita. Ma tutto ciò non era contemplato nel programma educativo del priore di Barbiana.
Un’ ultima riflessione a proposito della rimozione pressoché totale che è stata fatta sia da certi politici che da tanti docenti a proposito dei numerosi elementi “pedagogici” assolutamente inaccettabili e pericolosi che pur animarono l’insegnamento di don Milani. Le rimozioni non rappresentano soltanto un bisogno di semplificazione, ma lasciano trasparire un animo infantile e superficiale tipicamente improntato al rifiuto di una realtà spiacevole. Il non voler vedere il peggio di quanto si cela nel pensiero e nelle azioni degli uomini e dei maestri che abbiamo preso a modello è quanto di più indicativo di come il “talento sia sottomesso troppo spesso alla passione”. D’altra parte molte persone amano visceralmente i loro “eroi” senza metterli in discussione, perché amando loro amano incondizionatamente e semplicemente anche se stessi. Altro discorso, come sottolineava il sacerdote compagno di seminario di don Lorenzo, è amare gli altri anche per gli aspetti meno belli e apprezzabili che possono essere presenti in chi si ama. Dote questa, che è assolutamente richiesta nell’amicizia e nella professione di maestro e che era spesso assente nel priore di Barbiana.

[1] Quando non lo fu, nel crudo romanzo postumo Petrolio, più o meno s’impone il silenzio da parte dei suoi antichi cultori, a conferma di quanto il populismo sia ben recepito da certa cultura progressista nazionale.

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martedì 6 aprile 2010

IMPARA L'ARTE...

Il commento di Valerio Vagnoli alla nota del 6 aprile La scuola, il "made in italy" e i mestieri da salvare
"Impara l'arte e mettila da parte", era più di un proverbio per i nostri nonni e genitori che, indipendentemente dalle nostre attitudini, ci facevano capire che imparare un mestiere sarebbe stata una rendita assicurata in qualsiasi momento della nostra esistenza. Sapevano - pur ignorando la maggior parte di essi quanto i mestieri avessero contribuito alla nascita del Rinascimento e di tutta quella tradizione artigianale senza la quale sarebbe impensabile, tanto per fare un esempio, la stessa lingua di Galilei - che imparare un mestiere era, "a prescindere", un investimento. Perché nell'impararlo si "imparava ad imparare", si apprendevano saperi trasversali che avrebbero potuto permettere, durante il corso dell'esistenza, di cambiare professione con estrema facilità. Insomma, imparare un mestiere era una sorta di assicurazione preventiva che le famiglie, almeno quelle più accorte, proponevano ai propri ragazzi e alle proprie ragazze. Accadeva altresì - informarsi per crederlo - che anche i figli dei benestanti ai quali era assicurato il proseguimento degli studi oltre le elementari, fossero tenuti, nel pomeriggio, ad imparare un mestiere. Ed accadeva anche che qualunque artigiano non accettasse assolutamente che un proprio figliolo imparasse il mestiere nell'ambito famigliare. Era molto più formativo sistemarlo in altra bottega, affinché diventasse quanto più possibile autonomo e non condizionato da rapporti falsati, come potevano esserlo quelli tra padre e figlio o tra nonno e nipote. Quanta cultura passava in quelle botteghe! E quanta cultura femminista è passata nelle botteghe delle sarte, delle ricamatrici o delle cappellaie; si legga Gramsci, se occorre avere delle conferme! Oggi, ovviamente, non è pensabile ricreare quel mondo, né è auspicabile. Quello che mi preme sottolineare è ricordare quanto quella cultura abbia prodotto di buono anche sul piano intellettuale e formativo; e come, pensando a tutto ciò, non può che provocare tristezza l'assoluta mancanza di attenzione, da parte di molto mondo della politica e della cultura, verso questo passato il cui recupero si potrebbe decisamente coniugare con tutte le altre istanze, oggi per fortuna irrinunciabili, utili alla formazione dei giovani. La prima di queste istanze è rappresentata dalla scuola, che non può essere abbandonata definitivamente alla fine della terza media. La formazione scolastica, però, può benissimo coabitare con il contemporaneo, vero, inserimento dei ragazzi nel mondo delle professioni e dell'artigianato; un inserimento che possa così permettere di recuperare i mestieri da salvare ma, soprattutto, di recuperare quei ragazzi destinati a perdersi, perché, se costretti a crescere solo con la scuola e solo nella scuola, contro il loro volere e le loro stesse attese, è difficile, se non improbabile, che possano affacciarsi alla vita con fiducia nel prossimo e nelle loro capacità.

lunedì 29 marzo 2010

LETTERA APERTA AI PARTITI E AI CANDIDATI ALLE PROSSIME ELEZIONI REGIONALI

I dati sulle ripetenze e sull’abbandono scolastico indicano il grado di difficoltà che tanti ragazzi incontrano nel passaggio dalle medie alle superiori. Il fenomeno è grave specialmente negli istituti professionali: soltanto nel primo anno tre studenti su dieci vengono bocciati o si ritirano. Il loro insuccesso dipende in molti casi da una scuola non adatta alle loro attitudini; e la frustrazione delle loro aspettative, già dannosa in sé, è a sua volta una causa importante del gran numero di classi difficili, a volte ingovernabili.
Ma è soprattutto l’esperienza sul campo ad averci convinto che la scuola deve offrire ai ragazzi che escono dalla scuola media un ventaglio di scelte ben più ampio di quello attuale, in modo che ciascuno possa imboccare la strada più confacente ai propri talenti. A questo scopo, riteniamo essenziale una rivalutazione della formazione professionale, che in altre regioni, e specialmente nelle province di Trento e di Bolzano, sta dando da anni risultati molto positivi. In Toscana, invece, attualmente l’obbligo si può assolvere solo nel canale dell’istruzione. Per i ragazzi in grave difficoltà è previsto un certo numero di ore di orientamento e di laboratori e, solo al termine del biennio, un anno “professionalizzante”, a cui può accedere un numero limitato di ragazzi. Bisogna fare molto di più.
Il fatto è che, nonostante le tante esperienze di alto livello in Italia e in Europa, ancora oggi molti pensano a questo canale formativo come puro addestramento al lavoro privo di contenuti culturali: insomma una scuola di serie B. Non abbiamo invece dubbi che essa sia scuola a tutti gli effetti e costituisca, se adeguatamente supportata e finanziata, una risorsa strategica per lo sviluppo e una preziosa possibilità di autorealizzazione per molti giovani.
Siamo consapevoli che si tratta di cambiamenti non realizzabili da un giorno all’altro, ma riteniamo indispensabile e urgente cominciare a muoversi in questa direzione. Proponiamo quindi che la Regione Toscana, in collaborazione con le amministrazioni provinciali, avvii quanto prima in tutte le province toscane, all’interno di un consistente numero di istituti professionali, la sperimentazione di percorsi triennali di formazione professionale a cui si possa accedere direttamente dopo l’esame di terza media - preservando comunque la possibilità di chiedere il passaggio all’istruzione superiore sia nel corso del triennio che dopo aver conseguito la qualifica.

I dirigenti scolastici (in ordine di adesione):

1. Valerio Vagnoli
Istituto superiore “Giorgio Vasari” di Figline Valdarno* (Fi)
2. Anna Maria Addabbo
Istituto d’Arte di Sesto Fiorentino e Montemurlo*
3. Anna Rita Borelli
Istituto superiore “Leopoldo II di Lorena” di Grosseto*
4. Ivan Gottlieb
Istituto superiore “Alessandro Volta” di Bagno a Ripoli
5. Fiorenza Giovannini
Scuola media “Giovanni della Casa” di Borgo San Lorenzo
6. Mario Sladojevich
Istituto tecnico Agrario e professionale per l’Agricoltura di Firenze*
7. Daniela Nuti
Istituto comprensivo di Reggello
8. Andrea Marchetti
Istituto superiore “Virgilio” di Empoli
9. Eda Bruni
Scuola media “Di Cambio-Angelico” di Firenze e I.C. di Calenzano
10. Tiziana Torri
Circolo didattico di Pontassieve
11. Giuliana Cinni
Istituto superiore “Enrico Fermi” di Empoli
12. Anna Maria Barbi
Liceo scientifico “Antonio Gramsci” di Firenze
13. Paola Mencarelli
Istituto superiore “Salvemini- D’Aosta” di Firenze
14. Giulio Mannucci
Istituto superiore “Ernesto Balducci “ di Pontassieve
15. Arnolfo Gengaroli
Istituto comprensivo “Ernesto Balducci” di Fiesole.
16. Massimo Primerano
Liceo classico “Michelangiolo” di Firenze
17. Giancarlo Fegatelli
Istituto superiore “Giuseppe Peano” di Firenze
18. Paolo Collini
Istituto superiore “Elsa Morante-Ginori Conti” di Firenze*
19. Anna Pezzati
Circolo didattico di Rignano sull’Arno
20. Barbara Zari
Scuola media “Bacci-Ridolfi” di Castelfiorentino
21. Valeria Bertusi
Istituto superiore “Giovanni Caselli” di Siena**
22. Maria Giovanna Lucchesi
Scuola media “Maria Maltoni” di Pontassieve
23. Andrea Menchetti
Istituto superiore “Matteo Civitali” di Lucca*
24. Giovanni Marrucchi
Istituto professionale “Luigi Einaudi” di Pistoia*
25. Aldo Piras
Istituto professionale “Antonio Pacinotti” di Pistoia*
26. Daniela Giovannini
Istituto Superiore “L. Da Vinci” Arcidosso, Grosseto
27. Michele Totaro
Circolo didattico 12 di Firenze
28. Marco Mori
Liceo scientifico “Leonardo da Vinci” di Firenze
29. Maria Delle Rose
Istituto professionale “Cellini-Tornabuoni-De Medici” *
30. Alessandro Marinelli
Istituto superiore “Arturo Checchi” di Fucecchio*
31. Gino Artuso
Istituto superiore “Del Rosso-Alighieri” di Orbetello
32. Clara Pistolesi
Liceo scientifico “Piero Gobetti” di Firenze
33. Marco Parri
Istituto superiore “San Giovanni Bosco” di Colle Val d’Elsa
34. Barbara Figliolìa
Istituto comprensivo 2 di Bagno a Ripoli
35. Fiorella Fambrini
Istituti superiori “Barsanti” di Massa e “Pacinotti” di Bagnone (Ms)*
36. Oliviero Appolloni
Istituto comprensivo “Cecco Angiolieri” di Siena
37. Anna Oragano
Scuola media unificata di Sansepolcro (Ar)
38. Fabrizio Poli
Istituto Superiore “ Guglielmo Marconi” San Giovanni Valdarno*
39. Santi Marroncini
Istituto tecnico commerciale “Aldo Capitini” di Agliana (Pt)
40. Sandro Marsibilio
Istituto comprensivo "Lorenzetti" di Sovicille (Si)
41. Lucia Capizzi
Istituto tecnico e scientifico “Galilei” di Viareggio
42. Cristina Grieco
Istituto tecnico commerciale “Amerigo Vespucci” di Livorno
43. Diana Marchini
Istituto comprensivo “Fossola-Gentili” di Carrara
44. Marta Paoli
Istituto tecnico commerciale “Sallustio Bandini” di Siena
45. Concetta Battaglia
Istituto comprensivo “Vincenzo Galilei” di Pisa
46. Andrea Simonetti
Istituto comprensivo “Leonardo Da Vinci” di Avenza Carrara (Ms)
47. Massimo Dal Poggetto
Istituto comprensivo “"Centro Migliarina Motto" di Viareggio
48. Loretta Borri
Istituto comprensivo di Roccastrada (Gr)
49. Marco Panti
Istituto comprensivo “Piero della Francesca” di Firenze
50. Enio Lucherini
Scuola media “Guido Cavalcanti” di Sesto Fiorentino
51. Luciano Tagliaferri
Istituto superiore “Giovagnoli” di Sansepolcro e Anghiari* e "Piero della Francesca" di Arezzo
52. Gianna Valente
2° Circolo didattico “Antonio Benci” di Livorno
53. Lida Sacconi
Ist. compr. “Gereschi” di Pontasserchio e San Giuliano Terme (Pi)
54. Eva Bianconi
Circolo Didattico di Cerreto Guidi (Fi)
55. Ruggiero Dipace
Istituto tecnico commerciale e per geometri “Toniolo” di Massa
56. Aldo Pampaloni
Ist. compr. “F. Mochi” di Levane-Montevarchi e ITI “Ferraris” di S.
57. Daniela Travi
Istituto comprensivo “Gandhi” di Pontedera (Pi)
58. Gino Cappè
Istituto superiore “Artemisia Gentileschi” di Carrara
59. Maria Cristina Calamai
Istituto comprensivo di Pelago (Fi)
60. Donatella Frilli
Istituto comprensivo “Manzoni- Baracca” di Firenze
61. Maria Josè Manfré
Istituto tecnico commerciale “Dagomari” di Prato
62. Maria Pina Cirillo
3° Circolo didattico di Carrara
63. Anna Rugani
Scuola media “Del Prete-De Nobili-Massei” (Lucca)
64. Maria Beatrice Capecchi
Scuola media “Giovanni Pascoli” di Montepulciano (Si)
65. Sandro Orsi
Istituto comprensivo di Pietrasanta 1 (Lu)
66. Simonetta Ferrini
Istituto comprensivo di Certaldo (Fi)
67. Vito Pace
Scuola media “Giusti- Gramsci” di Monsummano Terme (Pt)
68. Fabrizio Martinolli
Istituto superiore “Einaudi-Ceccherelli” di Piombino*
69. Ave Marchi
Istituto tecnico commerciale “Francesco Carrara” di Lucca
70. Rosa Celardo
Istituto comprensivo “Francesco Petrarca” di Montevarchi (Ar)
71. Giovanni Parente
Scuola media “Leonardo da Vinci” di Figline Valdarno
72. Cinzia Machetti
Istituto comprensivo di Civitella Paganico (Gr)
73. Milvia Gugnali
Istituto comprensivo “John Lennon” di Sinalunga (Si)
74. Maria Cristina Tundo
Scuola media “Masaccio-Calvino-Don Milani” di Firenze
75. Marco Coretti
Istituto comprensivo “O. Vannini” di Casteldelpiano (Gr)
76. Sonia Cirri
Scuola media “Botticelli-Puccini” di Firenze
77. Stefano Pagni Fedi
2° Circolo didattico di Firenze
78. Daniela Venturi
Istituto superiore “Sandro Pertini” di San Concordio (Lu)
79. Elisabetta Pastacaldi
Istituto d’Arte “Policarpo Petrocchi” di Pistoia
80. Giuseppina Cappellini
Istituto comprensivo “Mazzoni” di Prato
81. Patrizia D’Incalci
Istituto comprensivo “Ghiberti” di Firenze
82. Rolando Casamonti
Istituto superiore “Agnoletti” di Sesto Fiorentino
83. Eleonora Pagni
15° Circolo didattico di Firenze
84. Nicola Lofrese
Istituto tecnico commerciale e per il turismo "Carlo Piaggia" di Viareggio
85. Adelina Franci
Istituto comprensivo di Signa (Fi)

* Istituti professionali o comprendenti indirizzi professionali

martedì 23 marzo 2010

RISPOSTA AI FIRMATARI DELLE "RIFLESSIONI SULLA LETTERA APERTA DEI 61 DIRIGENTI SCOLASTICI DELLA TOSCANA"

Nelle vostre riflessioni sulla lettera dei Dirigenti scolastici - che a oggi sono ormai 81 - abbiamo apprezzato il pieno riconoscimento non solo dell’esistenza, ma anche della drammaticità dei problemi che sono all’origine dell’iniziativa e che voi correttamente individuate. Il vostro dissenso è sulla proposta avanzata nella lettera, che noi invece riteniamo adeguata non solo per avviare a soluzione quei problemi, ma per rispondere anche alla vostra principale preoccupazione, quella di evitare “l’uscita dal percorso scolastico”.
La vostra prima obbiezione è che iniziare dopo la scuola media un corso di formazione professionale sarebbe una scelta “eccessivamente precoce”. Ma non comprendiamo per quale motivo a quattordici anni ci si possa iscrivere senza problemi a un istituto professionale per poi fare il cuoco o l’elettricista, mentre sarebbe troppo presto per chi vuole diventare, ad esempio, “operatore dell’abbigliamento” o “riparatore di autoveicoli”. Qualsiasi scelta del resto, anche quella di frequentare un liceo, è in qualche misura condizionante, specialmente se si rivela sbagliata. L’essenziale è che sia previsto, come ormai è ovunque, il modo di correggerla, “preservando la possibilità di chiedere il passaggio all’istruzione superiore”, dice appunto l’appello dei prèsidi. Ma soprattutto, cosa offriamo oggi in alternativa a tanti ragazzi? Una precoce, determinante e preclusiva espulsione dalla scuola; oppure, per pochi di loro e solo dopo aver accumulato frustrazioni e fallimenti, la possibilità di un terzo anno professionalizzante.
La proposta degli 81 prèsidi si colloca realisticamente nel contesto toscano e lascia agli istituti professionali la guida dei nuovi corsi. “L’alternativa suggerita” non è quella di Trento, che abbiamo voluto citare soprattutto per il drastico ridimensionamento della dispersione scolastica ottenuto negli ultimi anni con l’offerta di una qualificata formazione professionale, anche per l’assolvimento dell’obbligo scolastico. Anche qui, però, dobbiamo rispondere a un’altra vostra obbiezione, secondo la quale “la formazione professionale fatta a Trento e Bolzano ha una ragion d’essere se non è in parallelo con l’istruzione professionale”, altrimenti rischia di trasformarsi in una sorta di ghetto; e che proprio per questo la provincia di Trento ha chiuso gli istituti professionali. Ma questi ultimi spariranno solo a partire dal prossimo anno scolastico, mentre la loro presenza non ha finora impedito lo straordinario successo della formazione professionale, a cui si iscrive già oggi il 20% della popolazione scolastica, con un tasso di dispersione sceso fino al 9%.
In tutta sincerità ci sembra infine da escludere che i problemi di cui parliamo possano essere affrontati in modo efficace solo con il cambiamento delle metodologie didattiche (che tra l’altro voi stessi, con onestà intellettuale, considerate “un processo lungo e laborioso”); ed è un po’ singolare che nell’auspicarlo facciate riferimento al Regolamento dei nuovi professionali, a nostro avviso la parte più debole della Riforma, che, mentre parla di didattica laboratoriale, riduce a livelli minimi le ore di laboratorio. Non illudiamoci: per i tanti ragazzi che fin dalle medie hanno un piede fuori dalla scuola non c’è metodologia che tenga. È necessario e urgente disegnare per loro un percorso scolastico che, riconsiderando i confini tra formazione e istruzione, preveda un elevato monte ore di attività laboratoriali, stage ecc., e che abbia quindi realmente la possibilità, come ha scritto Giorgio Allulli, “di rispondere alle necessità di coloro che apprendono secondo stili cognitivi diversi, partendo dalla pratica per arrivare alla conoscenza teorica attraverso la riflessione sulla pratica, e dunque attraverso un processo di apprendimento circolare”. Diversamente “il rischio è quello di perdere i giovani per strada, o di trattenerli fino a 16 anni dentro le aule scolastiche, pluriripetenti esausti e pronti alla fuga da qualsiasi ulteriore proposta formativa.” [1]
Noi e i firmatari della lettera siamo naturalmente disponibili a ulteriori momenti di confronto; nel frattempo vi mandiamo i nostri più cordiali saluti.

Sergio Casprini, Andrea Ragazzini, Giorgio Ragazzini, Valerio Vagnoli

[1] Giorgio Allulli, Risposta a Maurizio Tiriticco, da “Tuttoscuola.com”, 23 gennaio 2006

RIFLESSIONI SULLA LETTERA APERTA DEI 61 DIRIGENTI SCOLASTICI DELLA TOSCANA

Nei giorni scorsi un gruppo di 61 dirigenti scolastici della Toscana ha espresso, attraverso una “lettera aperta”, una proposta ai partiti ed ai candidati alle prossime elezioni regionali. Questa invita la prossima Amministrazione Regionale, in accordo con le Province, ad avviare in un “consistente numero di istituti professionali” la “sperimentazione di percorsi triennali di formazione professionale a cui si possa accedere dopo l’esame di terza media”.

La proposta nasce da considerazioni importanti e, indubbiamente, corrispondenti alla verità:
1. la difficoltà di una rilevante quantità di studenti ad adattarsi alle regole ed ai metodi di insegnamento/apprendimento della attuale scuola superiore, anche se “professionale”;
2. la conseguente difficile governabilità di alcune classi prime (ma anche, talora, seconde) degli Istituti Professionali con relativo “burn out” dei docenti;
3. l’altissima percentuale (oltre il 30%) di “non promozioni” nelle prime classi degli istituti superiori (ed in particolare degli Istituti Professionali) che produce un rilevante tasso di dispersione scolastica e un conseguente abbandono degli studi;

Pur condividendo questi punti di partenza riteniamo che la proposta fatta sia discutibile:
-> Essa parte dal presupposto che a 14 anni, in alternativa alla scuola, ci sia una “strada più confacente ai propri talenti”, mentre noi riteniamo che a quell’età difficilmente possano essere fatte scelte, che rischiano, in quanto eccessivamente precoci, di essere determinanti e preclusive rispetto a ciò che potrebbe essere individuato in età più adulta e consapevole
-> L’alternativa suggerita, ossia la formazione professionale fatta a Trento e Bolzano, ha una ragion d’essere se non è in parallelo con l’istruzione professionale, in caso contrario rischia di essere solo un contenitore funzionante da ricettacolo per coloro che, per motivi vari (dalle capacità alle motivazioni), scelgono volontariamente o meno, di lasciare il percorso scolastico.
Proprio per evitare questo pericolo, infatti, le Province di Trento e Bolzano hanno contemporaneamente provveduto alla chiusura degli istituti professionali di Stato e investito notevoli risorse (i docenti hanno una retribuzione maggiorata di circa il 30%) sulla qualità e la metodologia dell’insegnamento.
Sempre in questo ambito, visto che nella “lettera” si citano “esperienze di alto livello in Italia e in Europa” vale la pena di ricordare il caso della Germania (dove è in vigore un sistema scolastico simile a quello auspicato per l’Italia: un “gymnasium”, corrispondente al liceo, una “realschule” ed una “gesamtschule”, corrispondenti ai tecnici e professionali, e una “hauptschule”, ossia l’istruzione professionale. l’UNESCO, dopo i pessimi risultati tedeschi rilevati da PISA 2004, ha ingiunto alla Germania di rimediare al basso livello della “hauptschule” considerata un vero e proprio “ghetto per immigrati” (dalla relazione di Patroncini al Forum nazionale su scuola secondaria superiore: istruzione tecnica, istruzione professionale, Piacenza 11.01.2008).

Ma la nostra riflessione non tende a mettere la testa sotto la sabbia e fingere che i problemi citati nei tre punti iniziali non esistano, sappiamo bene che ci sono e che sono seri, perciò… come intervenire in modo incisivo?
Ritenendo che l’uscita dal percorso scolastico possa solo acuire i fenomeni di emarginazione, pensiamo ad una scuola qualitativamente diversa per gli studenti meno motivati verso gli studi basati sull’astrazione dei concetti. Pensiamo che la proposta vera sia puntare sulla metodologia dell’insegnamento, cosa che viene individuata anche nel recente decreto di riordino dell’Istruzione Professionale; in esso infatti si dice che i percorsi degli istituti professionali (art.5, punto 2, comma d) “si sviluppano soprattutto attraverso metodologie basate su : la didattica di laboratorio, anche per valorizzare stili di apprendimento induttivi; l'orientamento progressivo, l'analisi e la soluzione dei problemi relativi al settore produttivo di riferimento; il lavoro cooperativo per progetti; la personalizzazione dei prodotti e dei servizi attraverso l'uso delle tecnologie e del pensiero creativo; la gestione di processi in contesti organizzati e l'alternanza scuola lavoro”. Questo necessariamente deve prevedere un incremento dell’attività laboratoriale nel biennio dei professionali con anche, se non dei veri e propri stage, la possibilità di progetti guidati per attività nell’ambito lavorativo.
Si tratta quindi di intraprendere con coerenza, impegnando le risorse necessarie, la strada dell’innovazione didattica necessaria ad assicurare il maggior livello di apprendimento possibile ai giovani meno motivati allo studio, a quelli appartenenti agli strati sociali più marginali, agli studenti immigrati.

Certo la scuola non può essere sola a sostenere questo impegno, il cambiamento delle metodologie didattiche è un processo lungo e laborioso che non può essere fatto artigianalmente dalla singola istituzione scolastica o essere relegato a sperimentazioni sempre a rischio di adeguato finanziamento; deve essere frutto di una precisa volontà istituzionale e, gradualmente, portato a sistema.

Massimo Batoni - dirigente scolastico IIS “Leonardo da Vinci”, Firenze
Giacomo D’Agostino - dirigente scolastico IIS “F.Enriques”, Castelfiorentino
Daniela Borghesi - dirigente scolastico Liceo Scientifico “Il Pontormo”, Empoli
Doriano Bizzarri - dirigente scolastico dell’IC “Montagnola-Gramsci”, Firenze
Saverio Craparo - dirigente scolastico Istituto Professionale “Sassetti”, Firenze
Luciano Rutigliano - dirigente scolastico Istituto Professionale Alberghiero “Saffi”, Firenze
Laura Chirici - dirigente scolastico Scuola Media “Pascetti”, Sesto Fiorentino
Federico Marucelli - dirigente scolastico IC “Terzo comprensivo”, Scandicci

sabato 13 marzo 2010

"CAMBIAMO GLI ISTITUTI TECNICI" - 61 PRESIDI SCRIVONO AI CANDIDATI

di Gaia Rau

Una lettera aperta firmata da sessantuno presidi toscani e indirizzata ai partiti e ai candidati alle prossime elezioni regionali per chiedere trasformazioni radicali in ambito di formazione professionale. L´iniziativa, che sarà presentata domani al liceo Michelangelo, è del "Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità", e vede l´adesione di dirigenti scolastici di elementari, medie e superiori fra i quali Valerio Vagnoli, preside dell´istituto "Vasari" di Figline, uno fra i più grandi del territorio, frequentato da circa 1,300 allievi provenienti dall´intero Valdarno. Punto di partenza del documento, che arriva in un momento di forte discussione intorno alla riforma dell´istruzione secondaria varata dal ministro Mariastella Gelmini (fra pochi giorni, il 26 marzo, scadranno le iscrizioni alle superiori, e finora l´attuazione delle nuove norme sulla semplificazione degli indirizzi è stata contrassegnata da confusione e incertezze), la constatazione del gran numero di bocciature e abbandoni scolastici soprattutto nei primi due anni: «Soltanto nel primo anno tre studenti su dieci vengono bocciati o si ritirano», spiegano nella lettera-appello i sessantuno presidi. Dati in linea con quelli diffusi lo scorso novembre dalla Provincia, secondo cui gli abbandoni fra il primo e il secondo anno riguarderebbero il 18 per cento degli studenti a Firenze e Provincia, il 20,5 per cento in tutta la Toscana. Da qui la denuncia dei dirigenti scolastici: «A questi ragazzi gli istituti professionali statali (anche quelli previsti dalla riforma Gelmini) non offrono, con il limitatissimo numero di ore di laboratorio, dei percorsi adeguati alle loro aspettative e ai loro talenti». Per questo motivo i firmatari del documento guardano ad esperienze diverse da quella toscana, prima fra tutte quella del Trentino Alto Adige, dove esiste la possibilità di assolvere agli ultimi due anni di obbligo scolastico attraverso percorsi professionalizzanti, dei veri e propri apprendistati che potrebbero sostituire le lezioni dal carattere eccessivamente teorico che caratterizzano la maggior parte dell´attività didattica anche negli istituti professionali. Anche perché, sottolineano i firmatari della lettera, «dove questo è possibile la percentuale degli insuccessi è molto più ridotta». ("La Repubblica", giovedì 11 marzo 2010)

lunedì 25 gennaio 2010

"TUTTOSCUOLA" SULL'APPRENDISTATO A 15 ANNI

Sul numero 318 di "TuttoscuolaFOCUS" (viene inviato per abbonamento via e-mail ogni settimana) si possono leggere informazioni e alcune considerazioni problematiche sul tema dell'apprendistato a 15 anni. Si possono leggere qui di seguito.

6. Obbligo a 15 anni/1. Un passo avanti o indietro?
Grande eco, e immediate polemiche, ha suscitato l'approvazione a sorpresa, da parte della Commissione Lavoro, di un emendamento che consente ai quindicenni di sottoscrivere un contratto di apprendistato in alternativa alla frequenza di una scuola o di un corso regionale di istruzione e formazione professionale.
Questa terza via all'assolvimento dell'obbligo decennale di istruzione è stata proposta dal deputato bolognese Giuliano Cazzola, attualmente parlamentare del PDL ma in passato autorevole membro della segreteria confederale della CGIL (componente socialista). La norma, che lo stesso relatore Cazzola e il ministro del Welfare Sacconi dichiarano comunque suscettibile di modifiche, viene dai suoi fautori presentata come una chance formativa in più per "quei centoventimila giovani che risultano né studiare né lavorare dopo aver conseguito la licenza media inferiore", come ha scritto Sacconi sul Corriere della Sera di sabato scorso.
Citando Marco Biagi e don Bosco, Sacconi insiste sulla "valenza educativa" del lavoro, affermando che nel caso dei quindicenni oltretutto non si tratterebbe di semplice attività lavorativa perché verrebbe sottoscritto un "particolare contratto di apprendistato", che secondo la legge Biagi si realizzerebbe in forma di un "percorso integrato di istruzione scolastica, formazione esterna ed esperienza lavorativa".
Totalmente negativa la reazione dei partiti dell'opposizione, scesi in campo con i due ex ministri Berlinguer e Fioroni (che è ora il responsabile Welfare del PD), per i quali la soluzione proposta è un "passo indietro", e quella della Flc-Cgil, che vede nell'emendamento la legittimazione dello sfruttamento del lavoro minorile.

7. Obbligo a 15 anni/2. Che cosa dice l'emendamento sull'apprendistato
L'emendamento in questione, approvato in commissione lavoro (XI) della Camera, si inserisce all'interno del disegno di legge 1441quater b (Delega al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, nonché misure contro il lavoro sommerso e norme in tema di lavoro pubblico, di controversie di lavoro e di ammortizzatori sociali), che ha come principale riferimento il decreto legislativo n. 276/2003 attuativo della legge n. 30/2003 (Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro), nota come legge Biagi. Eccone il testo.
"All'articolo 48 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, dopo il comma 2 è inserito il seguente: 2-bis. L'obbligo di istruzione, di cui all'articolo 1, comma 622, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Legge Finanziaria 2007 del governo Prodi, ndr), e successive modificazioni, si assolve anche nei percorsi di apprendistato per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione di cui al presente articolo".
Da notare che l'emendamento, pur proposto all'interno di una legge che tratta di occupazione e di lavoro, si presenta in forma aggiuntiva ad una norma che disciplina l'obbligo di istruzione: viene insomma affermata legislativamente l'equivalenza dei percorsi scolastici non solo con quelli di istruzione e formazione (stabilita dalla legge n. 133, art. 64, comma 4 bis) ma anche con quelli di apprendistato: una terza via considerata da chi la propone come un arricchimento dell'offerta e da chi la critica come una forma di precoce discriminazione socio-educativa.

8. Obbligo a 15 anni/3. L'apprendistato è la via giusta per risolvere il problema della dispersione?
Il ministro del lavoro e delle politiche sociali Sacconi, intervistato da una TV nazionale sulla proposta relativa all'apprendistato a 15 anni come terza via per l'assolvimento dell'obbligo di istruzione, ha motivato questa scelta con la necessità di contrastare la grave dispersione scolastica, dopo la scuola media, di cui soffre il nostro Paese.
Ha parlato di almeno 120 mila ragazzi che abbandonano qualsiasi percorso formativo o scolastico, senza disporre di competenze adeguate e minime per entrare nel mondo del lavoro. L'ipotesi di un ritorno all'apprendistato per i 15enni, secondo le sue considerazioni, comporterebbe, tuttavia, una drastica revisione di tale istituto, prevedendo un maggior spazio alla formazione.
L'obiettivo di contrastare o prevenire la dispersione è certamente condivisibile. C'è, tuttavia, da chiedersi se sia l'apprendistato, rivisto e corretto, lo strumento appropriato per conseguire quell'obiettivo.
Quando la Finanziaria 2007 aveva reintrodotto l'innalzamento dell'obbligo di istruzione che già la legge 9/1999 di berlingueriana memoria aveva inserito in ordinamento ma che la legge 53/2003 di matrice morattiana aveva abrogato, si fece attenzione ad evitare soluzioni massimalistiche e si accompagnò quel nuovo innalzamento dell'obbligo con un dispositivo che cercava contemporaneamente di prevenire e contrastare proprio la prevedibile dispersione. Vennero, infatti, previsti percorsi e progetti a livello regionale "in grado di prevenire e contrastare la dispersione e di favorire il successo nell'assolvimento dell'obbligo di istruzione".
Non era facile mettere in atto quei percorsi e quei progetti e, soprattutto, trovare i soggetti adatti a praticarli. Si trattava di una sfida che non ebbe nemmeno il tempo per essere avviata perché l'articolo 64 della legge 133/2008 di razionalizzazione del sistema di istruzione abrogò completamente quel passaggio, annullando il ricorso a "progetti e percorsi".
Erano strumenti troppo impegnativi? Meglio, dunque, ripiegare sull'apprendistato? Ma quale modello di apprendistato?

9. Obbligo a 15 anni/4. Una soluzione che parla tedesco
Il tipo di percorso lavorativo/formativo che sembra delinearsi dalla proposta Cazzola-Sacconi appare ispirato al modello tedesco di apprendistato formativo, il cosiddetto "sistema duale", al quale accedono in Germania i giovani di 15 o 16 anni (dipende dal Land di residenza) che non frequentano corsi di scuola secondaria. In Italia se ne è parlato più volte, spesso in modo generico o impreciso. Vediamone in sintesi gli aspetti principali.
Il contratto di apprendistato, che include la formazione professionale, definisce gli obiettivi della formazione sul lavoro (variano a seconda della professione prescelta: ci sono circa 350 qualifiche riconosciute), la durata (in genere 2 o 3 anni), il numero di ore dedicate ogni giorno alla formazione, la remunerazione dello studente, e la frequenza di 9,12, fino a 16 ore settimanali (mediamente circa 480 ore all'anno) in classe, per due terzi destinate all'apprendimento di materie specifiche relative all'area professionale nella quale lo studente-lavoratore è inserito. Le formule organizzative possono variare a seconda del settore, della dimensione dell'azienda e di altri fattori.
L'azienda che sottoscrive il contratto assume specifici obblighi in campo formativo: può formare il giovane solo se dispone di personale da adibire a compiti educativi dotato di capacità professionali e didattiche riconosciute, in grado di trasmettere non solo il sapere tecnico, ma di garantire un adeguato supporto educativo sul lavoro.
In Italia l'esperienza che più si avvicina a questo modello è quella realizzata nella provincia autonoma di Bolzano, dove alla formazione sul lavoro impartita in azienda viene affiancato l'insegnamento obbligatorio in scuole professionali per un totale corrispondente ad almeno 9 settimane all'anno. L'apprendistato finalizzato all'assolvimento del diritto-dovere di istruzione e formazione ha in genere la durata di tre anni, e la formazione in aula è di circa 1000 ore.
Se l'emendamento Cazzola sarà approvato, quello di Bolzano potrebbe essere un modello pilota.

giovedì 21 gennaio 2010

MAESTRI D'ITALIA

Rapporto sulla scuola della Fondazione Futura
di Adolfo Scotto di Luzio
1. Scuola e cultura nazionale
Parliamo di maestri per parlare del paese. L'Italia e la sua scuola si interpretano a vicenda: nella crisi del sistema educativo si puoÌ leggere un disorientamento collettivo piuÌ generale, mentre l’indebolimento della prospettiva nazionale unitaria spiega molte cose dei maestri e della loro attuale perifericitaÌ. Nella costruzione culturale dell'Italia contemporanea la scuola ha giocato un ruolo difficilmente trascurabile e oggi eÌ il terreno piuÌ adatto sul quale verificare lo stato di salute dell'Italia in idea.La questione sta in questi termini: c'eÌ un problema di tenuta dei quadri istituzionali della scuola italiana e, piuÌ in generale, di crisi delle strutture culturali della Repubblica.

1.1 La scuola in frantumi

In questi anni lo Stato ha dismesso funzioni importanti di direzione e controllo dell’ istruzione pubblica. La situazione è che oggi nessuno più sa veramente quello che succede in un’ aula scolastica e gli strumenti per garantire un’ educazione unitaria ai nostri figli sono scomparsi o si sono fatti largamente inutilizzabili: non ci sono più ispettori, non ci sono provveditori provinciali, i vecchi direttori didattici sono stati riassorbiti nel contenitore generico di una dirigenza sempre più orientata in direzione di compiti di gestione amministrativa, sempre meno in grado di intervenire nella sfera della didattica. Tornerò più avanti su questo aspetto.Fin da subito, però, voglio sottolineare come questa progressiva diserzione delle istituzioni dal terreno dell’ educazione degli italiani misuri puntualmente i suoi esiti nelle condizioni penose in cui versa la preparazione dei nostri studenti.Non si tratta solo di performance scolastiche scadenti; questione pure tutt’altro che trascurabile. La scuola è letteralmente andata in pezzi; tanti quanti sono gli insegnanti.La scomparsa dei programmi scolastici, per fermarci all’ aspetto più macroscopico dell’ intera vicenda, la loro sostituzione con semplici indicazioni nazionali, tanto ambiziose nella vastità enciclopedica quanto generiche e povere di cultura, ha determinato una situazione nella quale di fatto ogni insegnante è libero di fare quello che gli pare.Ora, è bene intendersi sul significato concreto di questo tipo di libertà. Autorizzando componenti minoritarie nella scuola a ritagliarsi programmi sulla misura delle proprie convinzioni (i curricoli di istituto e di scuola), le indicazioni nazionali hanno alimentato pericolose contrapposizioni tra i docenti, che per la prima volta si sono divisi su quello che dovevano insegnare e sulla cornice ideale che dava senso al loro insegnamento: la cittadinanza, il locale contro il globale, il dialogo interculturale, la legalità.Nei documenti della scuola degli ultimi anni, la cultura comune è stata ridotta ad identità culturale dello Stato, una componente tra le altre, distinta esclusivamente dal peso che le indicazioni gli garantivano in termini di ore.Questa delegittimazione della cultura unitaria ha consentito di concepire le scuole come altrettante postazioni ideologiche. Badate bene, non si tratta delle sacrosante convinzioni ideali di ogni maestro, che nutrono e non impoveriscono il suo magistero, anzi. In gioco è altro. Nella scuola dei nostri anni quello che si insegna ha smesso di significare il contributo alla costruzione della sfera dell’ autonomia personale del singolo. È stato invece subordinato al perseguimento di un tipo ideale: il perfetto democratico, l’ individuo tollerante, il pacifista.Ora, la bontà e anche l’ auspicabilità di questi traguardi (chi vorrebbe educare un razzista guerrafondaio?) non appartengono alla scuola, la quale deve mettere le persone in grado di procacciarsi la buona vita, ma non può prescrivere, in nome delle convinzioni dei singoli o dei gruppi, i contenuti di questa stessa vita. La cultura serve l’autonomia delle persone; le buone intenzioni le iscrivono dentro progetti pensati da altri.In questo spostamento di pesi, dalla cultura all’ ideologia pedagogica, il sistema scolastico si è trasformato in un aggregato frammentario di parti discrete, tenute insieme da un vincolo unitario debole (le famigerate educazioni, un’ accozzaglia pretestuosa di temi il cui elenco è dettato solo dalle mode culturali del momento). Così la scuola cambia radicalmente la sua funzione: non serve più ad istruire, ma diventa un servizio educativo della comunità.Le ricadute dell’ abolizione dei programmi nazionali tuttavia si misurano su un terreno meno militante di questo. Per fare fronte alla confusione di un decennio nel quale in pratica ogni ministro della Pubblica istruzione ha di fatto cambiato le carte della scuola italiana, gli insegnanti si sono affidati alle uniche due guide sulle quali potevano effettivamente contare: i libri di testo e la loro esperienza. Le indicazioni erano farraginose, pagine e pagine sprecate per illustrare cornici ideali che rappresentavano solo le convinzioni di chi le aveva stilate. Che dovevano fare gli insegnanti? Bisognava ricominciare ogni volta da capo? In questi anni se ne sono incaricati gli editori: i libri di testo hanno tradotto in schemi concreti e in modelli di lezione la nuova didattica. E quando non si sono affidati a loro, i maestri hanno continuato a fare quello che sapevano fare e avevano sempre fatto.Ora, i libri di testo ripetono pedissequamente le indicazioni del centro e dunque ne riproducono anche la povertà culturale, generando un ciclo al ribasso al quale non si è prestata la dovuta attenzione. Soprattutto sul versante della storia e della geografia e dell’ insegnamento dell’ italiano e della matematica, gli allievi escono dalle scuole elementari con un bagaglio di conoscenze povero e che alla fine del primo ciclo ha generato un ritardo sul piano dell’ apprendimento dei saperi di base che molti non recupereranno più nel corso della carriera scolastica.D’altro canto, l’esperienza degli insegnanti se tutela il principio costituzionale della libertà dell’ insegnamento (contro il tono prescrittivo delle nuove indicazioni), in mancanza di un minimo culturale comune chiaramente enunciato espone gli allievi all’ alea del caso.Si spezza così, senza parere, un vincolo classico dei sistemi d’ istruzione: una norma chiara di quello che si deve insegnare vale per i maestri bravi e per quelli che si limitano a fare il loro mestiere. I primi non ne sono mortificati nella loro bravura, gli altri sono messi in grado comunque di assicurare un minimo culturale comune.Era una visione realistica della scuola e delle forze in campo. Le si è voluto sostituire un progetto velleitario, che agli uomini come sono preferisce i professionisti dell’ educazione, che poi altri non sono che gli stessi insegnanti come però i cosiddetti esperti pretendono debbano essere.Gli esiti sono facilmente immaginabili: la disuguaglianza, sempre tanto temuta a parole, si produce così non sul terreno dell’ accesso formale all’ istruzione ma delle disparità educative: in assenza di un orientamento unitario e vincolante, il rischio educativo sta tutto dalla parte di chi meno è attrezzato per sostenerlo, le famiglie e i loro bambini.

1.2 Armonie non prestabilite

Recentemente, il ministro dell’ Istruzione ha ritenuto di dover intervenire in questa situazione con un apposito atto di indirizzo emanato nel settembre del 2009.Attualmente i contenuti dell’ insegnamento nella scuola italiana del primo ciclo, grosso modo dai 3 ai 14 anni, un pezzo rilevante del futuro del paese, stanno nelle Indicazioni nazionali allegate al decreto del 19 febbraio del 2004, n. 59. Nel 2007, il nuovo governo Prodi, ministro Fioroni, ha pensato di correggere quel testo con le Indicazioni per il curricolo.Due governi, due ministri, due quadri ideologici differenti. Da un lato, la minuta elencazione di obiettivi e la prescrizione schematica del modo di insegnarli; dall’ altro, l’individuazione di macroaree di discipline e di attività e molti discorsi sulla Costituzione, sulla globalizzazione e sul nuovo umanesimo. Nel 2004, era evidente la pretesa della pedagogia universitaria di farsi scienza prescrittiva della scuola, fornendo agli insegnanti veri e propri modelli di progettazione didattica; nel 2007, l’approccio era decisamente più negoziale, ma restava intatta l’ambizione di questi anni: oggettivare al massimo il processo educativo. Limitando dunque discrezionalità e soggettività degli insegnanti, la cui libertà diventa residuale e si riduce alla libera scelta del metodo migliore.Come si regola la scuola? Le indicazioni di Fioroni hanno costituito per il biennio 2007-2009 un punto di riferimento per la progettazione dei piani di studio. Ma le indicazioni del 2004 non sono state formalmente abolite.Nel marzo del 2009 un decreto del Presidente della Repubblica ha stabilito che per i prossimi tre anni debbano restare in vigore tanto le indicazioni della Moratti che le correzioni di Fioroni; in attesa di una compiuta armonizzazione, avverte il legislatore.Tre anni non sono pochi. Dal punto di vista di un bambino della scuola elementare sono più della metà del suo percorso scolastico. Per questo il ministro, a settembre è dovuto intervenire; perché, prima che la ricerca didattica compia il suo corso e si trovi il bandolo della matassa, gli insegnanti possano almeno contare su una cornice unitaria per il proprio lavoro.Quando si parla della scuola è questo il quadro che bisogna tenere presente. Da almeno dieci anni manca un orientamento chiaro alla sua azione educativa. E quello che verrà, per il momento è custodito nei laboratori della ricerca e della sperimentazione didattica.Ancora un’ altra considerazione. Spesso i documenti di un’ amministrazione non sono soltanto la carta giustificativa di certe azioni. Valgono soprattutto come un segno dei tempi. Dei nostri tempi, l’atto di indirizzo emanato nel settembre del 2009 dice di una tardiva resipiscenza, della presa d’atto di una scuola senza direzione, in cui l’autonomia ha significato la proliferazione di cellule (sono quasi undicimila le istituzioni scolastiche nel nostro paese) tendenzialmente anarchiche.Qual è il risultato di questa mancanza di indirizzo? Misurata sull’ arco scuola elementare – scuola media, quello che i documenti ufficiali del nostro sistema di istruzione chiamano il primo ciclo, la situazione è questa: molti studenti appaiono non in grado di padroneggiare conoscenze fondamentali per proseguire con successo il percorso di studi nella scuola secondaria. È questo il dato gravissimo di cui prende atto il ministro e che il linguaggio burocratico dei documenti dell’ amministrazione non vale ad esorcizzare.Tutto bene dunque? Finalmente la scuola italiana ha ritrovato una guida unitaria? Speriamo. È bene tuttavia non dimenticare che indirizzo non significa la scuola ha un indirizzo, bensì la scuola fin’ora non l’ha avuto. È necessario fornirglielo.La posta in gioco degli anni a venire sarà questa: riportare l’ autonomia delle parti dentro l’autonomia del sistema scolastico. I due termini non sono esattamente la stessa cosa. La linea che li separa divide il territorio della scuola come funzione dei privati da quello della scuola come funzione pubblica.

1.3 Una crisi ideale

In questi anni l’indebolimento del quadro di comando della scuola italiana si è prodotto sullo sfondo di uno smottamento profondo delle strutture culturali della Repubblica.Nell’ impoverimento culturale delle nuove generazioni, la scuola senza lo Stato riflette un più generale dileguamento delle ragioni ideali del patto nazionale. Sta qui il nodo non sciolto della scuola italiana di questi ultimi anni.Alla fine di un confuso e inconcludente decennio di riforme, la nostra scuola appare oggi priva di un centro; sprovvista di un’ identità forte in grado di sostenerne il ruolo di fronte alle sfide dell’ Italia che cambia. La trasformazione del paese si produce così nuda della più importante delle funzioni simboliche di una comunità politica: la formazione culturale delle giovani generazioni. Non si può immaginare il futuro dell’ Italia senza porsi il problema dei simboli culturali in cui si riconosceranno gli italiani del futuro. La crisi della scuola si produce sul terreno della disarticolazione del nesso storico con la nazione. È una crisi ideale, di identità, di modelli culturali di riferimento. È una crisi istituzionale.Si può misurare l’impatto che il venir meno di questo nesso ha sull’ educazione degli italiani in relazione al problema dell’identità e a quello che gli è strettamente legato, dell’ insegnamento della lingua.

1.4 L'Italia e i nuovi italiani

Cominciamo dal tema dell’ identità culturale degli italiani. Se vuole avere un ruolo di orientamento e di guida nella trasformazione del paese, la scuola non può fare a meno di porselo. E tuttavia è un tema largamente inevaso. Non solo trascurato nel dibattito scolastico; rimosso piuttosto, su un piano più generale. Vi grava il peso di un duplice interdetto ideologico. La sinistra new labour e la nuova destra berlusconiana, da un lato, sono decisamente ed euforicamente post-identitarie; dall’ altro, si confrontano con forze che prosperano ai loro margini, erodendone il consenso in nome del principio di territorialità e di una forte diffidenza nei confronti delle istituzioni centrali-nazionali, e naturalmente dei loro linguaggi. L’idea allora che ai maestri spetti il compito di trasmettere un’ idea culturale dell’ Italia appare semplicemente inconcepibile su queste basi. Lo sfondo problematico sul quale oggi questo tema si fa non solo attuale ma drammaticamente urgente è costituito da due grandi contesti. Primo: la perdita non solo di chiare identità di classe nella società italiana ma, più vicino a noi, il crollo brusco delle tradizionali culture politiche, che dalla fine della seconda guerra mondiale e per buona parte del Novecento hanno dato forma al corpo elettorale.Secondo: di fronte all’ emersione di una generica massa media di cittadini stanno oggi le correnti migratorie che investono il nostro paese, generando reazioni difensive che provano a riarticolare questa genericità su basi rancorose e localistiche. La scuola, la scuola elementare in particolare, è la parte più esposta sul fronte di questi nuovi conflitti. La presenza nelle aule scolastiche di quei nuovi italiani che già oggi sono, e sempre più saranno negli anni a venire, i figli degli immigrati pone questioni culturali di carattere generale.Nella nuova ideologia dell’ apertura, multiculturalista e politicamente corretta, il tema dell’ identità affiora esclusivamente in relazione alla sfera del proprio. È il legame con ciò che ci appartiene e di ogni nostra azione fa il prolungamento di interessi particolari.Su questo sfondo, identità significa fedeltà al gruppo e affiliazione locale. Di qui l’idea che le identità si possano soltanto mediare e che debbano essere custodite nella loro integrità originaria. I bambini sono invitati a paragonare i rispettivi usi e costumi. Il confronto è tra famiglie, clan, villaggi. Assorbita dal proprio, dilegua in questa prospettiva l’ idea di bene, la nozione cioè che la nazione non sia soltanto un etnos, o una sorta di espansione metaforica della famiglia, ma una costruzione culturale che incorpora valori universali in grado non solo di accogliere ma di sostenere e autenticare i progetti di crescita personale.La qualità della scuola nei prossimi anni si misurerà non sulla base di una generica e moralistica disponibilità nei confronti dell’ altro, ma sul terreno dell’ idea di italianità proposta ai suoi allievi.

1.5 Parlare bene l'italiano fa bene alla democrazia

C’è un aspetto ulteriore che voglio mettere in rilievo ed è il rapporto tra identità culturale e sfera pubblica. Riguarda il ruolo che la scuola ha giocato e può giocare nella ricostruzione di questa sfera, oggi impoverita e svuotata.L’insegnamento scolastico ha fornito lungo la seconda metà del Novecento uno degli esempi più cospicui di come si possa parlare ad un numero vasto di persone in modo serio e approfondito. Negli anni della costruzione della democrazia italiana nelle sue aule si è coltivata quell’arte civile del discorso che forse è il contributo più importante che l’educazione possa dare alla democrazia. I maestri sono stati i depositari di quest’arte. Hanno insegnato ai loro allievi ad ascoltare, a soppesare gli argomenti, a scegliere quelli più rilevanti, a rispondere ad essi. Gli hanno fornito soprattutto il mezzo per farlo. Non un mero strumento per lo scambio comunicativo, ma una lingua di cultura, capace di analizzare contenuti intellettuali complessi e di esprimerli in maniera piana ed elegante.Oggi questa funzione della scuola è gravemente pregiudicata e le radici del pregiudizio stanno nella crisi dell’ insegnamento della lingua italiana. Si è indebolito fino a dileguare il nesso storico tra lingua e tradizione letteraria. L’idea di lingua propagandata oggi dalla nostra scuola è puramente strumentale. Di qui il richiamo che sull’ opinione pubblica esercitano periodicamente due miti apparentemente contrapposti: il dialetto e l’inglese. Si tratta come è ovvio di cose molto diverse tra loro. La pluralità linguistica è un dato costitutivo dell’identità italiana; la forza di penetrazione dell’ inglese è invece una delle dimensioni rilevanti dell’ universalismo democratico del secondo dopoguerra. Il suo prestigio, tra le generazioni nate a partire dalla fine degli anni Quaranta, è legato essenzialmente all’ arretramento del movimento della subordinazione che caratterizza prima o poi lo sviluppo delle società europee dopo la fine della seconda guerra mondiale.L’inglese del tardo Novecento è in altre parole la lingua della democratizzazione dei rapporti tra gli individui.Non è questo tuttavia ad essere in gioco oggi sul terreno della scuola. L’ italiano, considerato come un mero strumento dello scambio comunicativo, da un lato, è più debole di fronte alle pretese affettive del dialetto e ai legami comunitari concreti che in esso si esprimerebbero; dall’altro, deve misurare la sua efficacia rispetto alle capacità performative della lingua universale per eccellenza. È evidente che su questo terreno la partita è già persa prim’ ancora di cominciare. L’esito non è, come è facile constatare, un arricchimento della sfera espressiva dei giovani. Al contrario, lo spettro di un nuovo analfabetismo, nell’ era della scolarizzazione universale, torna a bussare alle nostre porte.Il fatto è che la recisione dei legami della lingua con l’insegnamento della letteratura ha comportato nella scuola italiana di questi anni una progressiva dismissione dell’ esercizio della lettura accurata dei testi da parte degli allievi. E con la lettura è venuta meno l’esperienza della scrittura come lavoro scrupoloso di selezione delle parole e di adeguazione dell’espressione ai sentimenti e ai pensieri. Parlare e scrivere sono strettamente connessi e scrivere è sempre un parlare per iscritto. Sul terreno della perdita di questo tipo di esperienza culturale, un tempo propiziata dalla scuola, si spiegano la povertà espressiva delle nuove generazioni, le gravi difficoltà che si riscontrano tra i più giovani nella sintesi e nell’organizzazione del pensiero, la sempre più estesa incapacità della scuola di resistere alla pressione dei linguaggi di massa e di sottrarre la trama dei rapporti quotidiani tra gli allievi e tra questi e i loro insegnanti alla stereotipia linguistica.Una scuola così sguarnita non produce soltanto giovani sprovvisti di un corredo simbolico adeguato. Alcuni di questi giovani sono diventati e diventeranno a loro volta insegnanti, in un ciclo di riproduzione dello svantaggio culturale che ha esiti gravissimi proprio nella sfera della cittadinanza.
L’impoverimento del linguaggio e la decadenza che ne deriva dell’ arte civile del discorso assumono infatti particolare rilievo in rapporto ai processi della politica. Il discredito per le leadership attuali e l’idea negativa ormai largamente diffusa della cittadinanza, concepita come un occhio pubblico ossessivo e persecutorio puntato sui politici perché rendano conto della loro integrità morale, dice di un demos problematico, costantemente in bilico tra il rischio di diventare folla rancorosa e antidemocratica oppure nuovo popolo. Il discrimine tra queste due possibilità sta nella capacità di dare, attraverso la cultura, una nuova identità al popolo. Spetta soprattutto alla scuola esercitare questo ruolo: articolare culturalmente il soggetto politico della democrazia. E il primo modo per farlo è un insegnamento linguistico adeguato.

2. I maestri: indagine su una figura finita fuori fuoco

La chiave della soluzione del problema scolastico sta da sempre nelle mani dei maestri. Ma oggi sono proprio loro che mancano alla scuola italiana. E questo, bisogna dirlo, a dispetto dell’ impegno e della passione che molti continuano a mettere quotidianamente nel loro lavoro. Nonostante tutto e tutti. Il fatto è che in questi anni ai maestri non è stata solo tolta la parola, a vantaggio dei tecnici, degli esperti, di un rivendicazionismo sindacale tanto bellicoso quanto povero di idee. È venuto meno un intero vocabolario culturale, che nell’ Italia contemporanea ha a lungo pensato il ruolo civile e valorizzato il magistero degli insegnanti. Le nuove parole sono burocratiche e imprecise, e quello che più conta mortificanti. Nell’ ultimo quarto di secolo, il maestro è come sparito dall’ orizzonte dell’ educazione. L’idea che egli incarni l’azione educativa è stata screditata come ingenua, venata di sentimentalismo, inadeguata e dannosa sul terreno della nuova razionalità pedagogica. La figura del maestro è stata così rimossa dal terreno dell’ educazione, sul quale la scuola si pensa come conquista e disciplinamento della natura del bambino, per ricomparire nei panni astratti di una funzione, subalterna e intercambiabile, dell’ organizzazione didattica. Questa tecnicizzazione dell’insegnante, tuttavia, non solo non ha rafforzato il suo statuto professionale, che non è mai stato così incerto, ma ha determinato un forte disinvestimento ideologico dei singoli dalla professione.I maestri che oggi sono raffigurati come dei tecnici della programmazione, della valutazione e dell’ intervento didattico, faticano a ritrovare le ragioni fondamentali del loro magistero.

2.1 Quello che sappiamo dei maestri e quello che conta

E così da molto tempo abbiamo smesso di parlare dei maestri. Intendiamoci, la scuola è onnipresente nel nostro discorso pubblico e non mancano le ricerche. Ma sui maestri come educatori è calato un velo di pudore ideologico che equivale ad una rimozione culturale.Sappiamo chi sono i nuovi insegnanti, a che età accedono al ruolo e con quali motivazioni; cosa si aspettano varcando la soglia di una classe e quali paure, invece, ne trattengono il gesto educativo; il rapporto con le famiglie e la gestione dell’aula in particolare. Sappiamo quanto durano in media gli anni di precariato e quali incentivi trattengano gli aspiranti in fila. Sappiamo anche che non tutte le file sono lunghe uguali; che se per molte non basterà una generazione a smaltirle, altre si sono già esaurite o quasi. E così, nei prossimi anni, il problema sarà non un generico sovraffollamento della carriera. Ci saranno materie di insegnamento con tanti di quegli aspiranti che non sapremo che farcene, mentre per altre quasi non avremo di come soddisfare alla richiesta.Inutile dire che la penuria è scientifica e tecnologica. E riguarda il Nord più che il Sud.Non mancano naturalmente gli effetti di distorsione sull’ opinione pubblica che questo modo di rappresentare la scuola genera. La strutturazione della carriera scolastica sulla base di una contrapposizione tanto netta tra gli anni dell’ attesa e l’immissione in ruolo produce una drammatizzazione psicologica della soglia, di fatto l’unico vero passaggio nella vita professionale dell’ insegnante. E questo ha cambiato e cambia profondamente la percezione della scuola.I temi del welfare sono diventati preponderanti e le ragioni del magistero completamente assorbite dalle preoccupazioni dell’organizzazione del lavoro. E così succede che sul piano della rappresentazione pubblica il precario surroga l’insegnante e nella polemica intorno al modulo e al maestro unico, un aspetto tipico, e tutto sommato secondario, dell’organizzazione didattica ha potuto assumere un rilievo tale da soppiantare l’istituzione che lo contiene, la scuola elementare appunto. In questo modo si è finito per scambiare la parte per il tutto e si è persa la capacità di integrare gli aspetti particolari della scuola in una visione unitaria della sua identità culturale e delle sue finalità.Della scuola sappiamo, così, tante piccole cose, ma non quelle poche che veramente contano. Sappiamo ad esempio dell’ autonomia, delle speranze che ha destato e delle cocenti delusioni che ne sono derivate, dell’ ambizione dei nuovi insegnanti ad assumersi responsabilità nella gestione e nella direzione delle istituzioni scolastiche autonome. Almeno all’inizio, prima che l’inerzia burocratica della carriera ne assorba gli entusiasmi e ne stemperi le energie. E vale la pena qui segnalarla da subito la contraddizione, di chi rivendica la scelta di una carriera difficile e poi progetta il modo di evaderne. E gli insegnanti hanno trovato molti modi per evadere in questi anni. Il più eclatante, sicuramente, quello della mobilità territoriale. Un via vai di sedi e di domande di trasferimento che ogni anno prefigurano come una generalizzata diserzione dal posto educativo. Perché? Perché la carriera procede con troppa lentezza e perché le sue gratificazioni sono scarse, la retribuzione inadeguata, tanto che il prezzo non vale la lontananza? Soprattutto perché il maestro, in questi anni di riformismo ad oltranza, che molto poco ha riformato e molto messo in agitazione, è rimasto privo di una adeguata copertura simbolica.

2.2 La parola maestro

Ai maestri si continuano a chiedere tante cose e niente che abbia veramente a che fare con l’ insegnamento. Come se le ragioni del proprio magistero gli insegnanti le debbano cercare sempre altrove. Devono essere di volta in volta assistenti sociali e psicologi; gli si chiede di prendersi cura, di accogliere, di fare da balia. Sempre, queste richieste si portano dietro un messaggio: diffidate di voi. Di fronte allo studente di nuovo tipo, si dice, quello che sapete non basta; il vostro intuito, la vostra capacità di partecipazione e immedesimazione, la vostra cultura sono insufficienti, anzi spesso vi portano fuori strada.Vi manca il metodo, la tecnica, il sapere professionale necessario per mettere piede in un’aula. Il maestro è, nel discorso oggi dominante sulla scuola, una figura diminuita, appartiene ad un altro secolo, alla scuola che si dice tradizionale e per ciò stesso delegittimata, in attesa che sorga il nuovo professionista dell’ educazione.Di fronte al professionista moderno stanno le figure patetiche della maestrina dalla penna rossa e il fitto catalogo dei pedagoghi ottocenteschi. Dalle nostre parti deamicisiano è notoriamente un insulto.Davanti ai maestri l’imbarazzo comincia dalle parole. Maestro lo dicono ormai solo i bambini e le mamme in attesa davanti al portone della scuola. Per il resto, sono genericamente insegnanti, risorse umane, personale docente, organico e funzioni strumentali. Diciamo maestra Anna, maestra Giulia, maestra Rosa con un tono familiare che se pretende di rassicurare genitori e figli, dice solo della progressiva abolizione di ogni idea di uno spazio pubblico, convenzionale e separato, dove valgono regole diverse da quelle informali della cerchia privata e familiare. Nel discorso pubblico la parola maestro compare come tra virgolette. Riveste di una patina antica e affettuosa i suoi più burocratici e asettici sinonimi.

2.3 Maestre più che maestri

Né per la verità si tratta di maestri. Maestre suona più appropriato. Nella scuola il genere è ormai quasi esclusivamente femminile. I maestri sono pressoché scomparsi dall’ istruzione elementare. È una lunga marcia che oggi giunge a compimento ma che le donne hanno cominciato all’ indomani dell’Unità. Che cosa si può notare al riguardo? Nell’ album di famiglia degli italiani, da almeno cent’ anni a questa parte, c’è la foto di una classe elementare con maestra. È un tratto originale della nostra storia scolastica. A differenza di altri modelli nell’ Europa tra Ottocento e Novecento, la scuola elementare nel nostro paese si declina al femminile fin dalle origini. Di fronte all’ Instituteur, figura repubblicana per eccellenza e che resiste saldamente nell’ immaginario nazionale dei francesi, da sempre c’è una maestra italiana. E si è trattato di donne di grande valore. Se non ci fossero state le maestre, un pezzo consistente dell’istruzione popolare di questo paese sarebbe saltato. Con i loro stipendi da fame (una maestra elementare poteva prendere anche meno della metà di un suo collega maschio) hanno permesso di sciogliere il nesso tradizionale tra basse retribuzioni e primato ecclesiastico nell’ insegnamento popolare. Chi altri, se non i preti e le donne poteva vivere di quella miseria? La loro è una storia di coraggio e spesso di sofferenze inaudite. Donne sole hanno portato l’alfabeto a migliaia di piccoli contadini, nelle valli dell’ Italia settentrionale come nei grandi agglomerati rurali del Sud, in mezzo a privazioni e pregiudizi feroci. Le maestre sono state degli agenti formidabili della nazionalizzazione degli italiani. Alla scuola e alla carriera magistrale hanno affidato la personale ricerca di una fuoriuscita dalle angustie della società tradizionale e una naturale propensione alla cura e alla educazione dell’ infanzia.Non è più così e da molto tempo, come è noto. La femminilizzazione della carriera magistrale racconta oggi un’ altra storia; dice di un terreno sul quale competono prevalentemente i soggetti più deboli e meno ambiziosi del mercato del lavoro; ribadisce, nello spazio dell’ educazione formale, il più generale indebolimento nella società della figura paterna. Se preferite, lo sbiadire di quella soglia morale che significava, per un bambino immesso nella carriera scolastica, la progressiva uscita dalla famiglia e dalla cerchia femminile degli affetti.

2.4 L'autolesionismo degli insegnanti

C’è senza dubbio una sociologia della crisi dei maestri, così come le trasformazioni nella sfera della politica e delle tecniche del governo della popolazione spiegano molte delle difficoltà cui vanno incontro attualmente i sistemi educativi in Italia e nelle altre democrazie occidentali. Ma sono soprattutto le parole ad orientarci. Nella forma culturale dei nostri tempi il linguaggio prevale sulla ragione e la realtà è il modo della sua descrizione. Per questo oggi il linguaggio ha una tale rilevanza per la politica e molti dei conflitti politici attuali vertono sulle parole.Nel caso della scuola italiana e di quella elementare in particolare, due sono le parole dominanti dei nostri tempi: il modulo e l’ autonomia. Importa notare subito nell’ uso che se ne fa, lo scarto davvero troppo forte tra una certa loro pretesa all’auto evidenza (la scuola del modulo, la scuola dell’autonomia) e i ragguagli effettivi che queste parole forniscono sulla realtà descritta. Se del modulo possiamo dire che è un modo di impiego degli insegnanti nelle classi, che cos’è invece l’autonomia?Come vedremo meglio più avanti, l’impossibilità di rispondere in modo chiaro e non equivocabile a queste domande cambia notevolmente le carte in tavola.Le parole sono in questo caso delle formule magiche mascherate da affermazioni sulla realtà.Prendete proprio l’esempio dell’autonomia: la sua evocazione allude ad una condizione della scuola che si fa capace di rispondere in maniera finalmente adeguata ai diversi bisogni formativi degli alunni, alle richieste delle loro famiglie, alle specificità locali. Ma come tutto questo si realizzi non ci è dato di sapere. Oltre all’ assunzione implicita che noi sappiamo cos’è l’autonomia, che non abbiamo bisogno di ulteriori spiegazioni e che la scuola di prima non lo era e per questo oggi possiamo dire sicuramente che era imperfetta e inadeguata. La linguistica dell’autonomia è ammonitoria ed esortativa: la scuola deve essere autonoma e, si dice generalmente, più autonoma. Il che significa che c’è un meno e un di più, che però hanno un alone mitico: sono rispettivamente il cattivo passato e il radioso avvenire. In mezzo ci sono le forze della reazione che ostacolano il progresso e gli eroi buoni che combattono per la sua realizzazione.Sembra una semplice parola, mentre contiene il nucleo generativo di un romanzo della scuola. Quello che tuttavia questo romanzo non dice è altro: quante decisioni possono prendere le singole scuole? Quanto valgono quelle decisioni, con quali modalità vengono prese, come cambia la struttura del potere scolastico, quanti obblighi e quanta capacità decisionale vengono effettivamente trasferiti alle scuole? È possibile rilevare un nesso positivo tra autonomia e qualità della scuola? Tra autonomia e apprendimento degli studenti? Niente di tutto questo viene specificato. La parola autonomia illumina un mondo di magnificenze e al tempo stesso rende impenetrabile il suo reale funzionamento.La parola è carica di doni, di cose altamente desiderabili; scredita quello che c’era prima, riconfigura lo spazio dell’ analisi come un campo di battaglia. L’autonomia è al tempo stesso una linea temporale che qualifica il prima e il dopo e il confine tracciato per separare nettamente conservazione e rivoluzione. Questo modo di considerare le cose della scuola è oggi largamente dominante e riflette un atteggiamento culturale che privilegia come oggettivo il cliché, la facciata composta di dati classificati, e rigetta ogni tentativo di penetrare l’esperienza dell’ oggetto. Non c’è nessuno spazio, sul terreno di questo atteggiamento, per la valorizzazione dell’ esperienza individuale del maestro, che viene totalmente sacrificata alla risoluzione della maggioranza e al sistema dei pregiudizi convenuti. Possiamo allora trovare una misura adeguata al valore dei maestri, quando abbiamo smarrito le parole capaci di sottrarli alla loro standardizzazione?Gli insegnanti sono oggi imprigionati in una rappresentazione pubblica che li raffigura come un blocco inarticolato. Sono tutti uguali, sia nella rivendicazione che nella denigrazione. Gli esiti, neanche a dirlo, sono gravi. Il venir meno del linguaggio della distinzione non solo pregiudica la possibilità di soluzioni innovative sul terreno della retribuzione, ma più in profondità cancella nella coscienza media dei maestri la voglia stessa di distinguersi, curando innanzitutto la propria formazione culturale, qualificando il proprio impegno didattico.In questi anni si è proposto agli insegnanti uno scambio indecente che ha finito per danneggiare innanzitutto loro, i maestri: noi non vi paghiamo una lira di più, voi non siete tenuti a nessun miglioramento. È accaduto nella scuola perché è avvenuto in tutto il paese: un disinvestimento generalizzato dal futuro.Tuttavia va anche detto che l’acquiescenza che gli insegnanti hanno largamente mostrato davanti a questo scambio equivale in termini psicologici ad una forma di aggressione autoriferita. Gli insegnanti hanno finito per aderire all’immagine peggiore che veniva offerta di loro.

2.5 Il contratto di lavoro della scuola: esercizio di analisi comparativa

Può sembrare un’ affermazione forte e ingenerosa. Non lo è. Basta leggere i documenti.L’ aggiornamento e la formazione continua degli insegnanti sono uno degli aspetti più delicati nella vita della scuola. Ci sono ragioni generali e di contesto che si possono evocare. L’aggiornamento è essenziale alla carriera dell’ insegnante e alla qualità del suo insegnamento. Serve la professione e le necessità della scuola. Questo nesso non si può scindere senza alterare profondamente i termini del rapporto educativo.Di fronte al diritto positivo del maestro sta il diritto naturale dell’ allievo, non solo all’ istruzione ma ad una istruzione di qualità. L’aggiornamento dell’ insegnante vale tanto sul versante delle rivendicazioni sindacali che della tutela dei diritti della persona.Come è facile prevedere in questo e in altri casi, raramente quello che è corrisponde a quello che dovrebbe essere. Tuttavia, la novità di questi ultimi anni è che anche quello che dovrebbe essere ha smesso di corrispondere a quello che fino a poco tempo fa era unanimemente ritenuto auspicabile. Nel marzo del 2007 il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso di un insegnante di scuola media contro il proprio dirigente scolastico che gli aveva trattenuto quattro ore di stipendio per assenza ingiustificata ad un corso di aggiornamento organizzato dalla sua scuola. La vicenda risale alla fine degli anni Novanta e il suo corso decennale inquadra bene un arco di tempo nel quale nella scuola italiana si è diffusa la convinzione che l’aggiornamento sia esclusivamente un diritto del docente e non un obbligo del servizio. Un diritto di cui l’insegnante può anche dire: non ne voglio godere. E così si è difeso il professore in questione. Il corso si svolgeva fuori dalle attività propriamente didattiche e dunque l’assenza non era violazione dell’ orario di lavoro.È significativo questo modo di difendersi: il professore si sente vincolato solo all’ orario di scuola in senso stretto e a nient’altro. Frequentare un corso di aggiornamento produce dei benefici nella carriera? Se io non frequento il corso non godo dei benefici. È una scelta personale. Non può essere considerata una violazione degli obblighi di servizio.Il Consiglio di Stato ha rigettato questo tipo di argomentazione, che riduce il senso dell’ aggiornamento e della formazione alla sfera esclusiva degli interessi economici degli insegnanti. Lo ha fatto richiamando due articoli del contratto collettivo nazionale di lavoro della scuola siglato nel 1994 e valido per il triennio 1995-1997. Gli articoli in questione sono il 28 e il 42. L’ articolo 28, in particolare, è dedicato espressamente alla formazione. Al primo comma si legge che la partecipazione ad attività di formazione e aggiornamento è un diritto per insegnanti e personale tecnico amministrativo, perché è funzionale alla piena realizzazione e allo sviluppo delle rispettive professionalità, anche in relazione agli istituti di progressione professionale previsti dal contratto. Al comma due, però gli estensori dell’ articolo si sono premurati di aggiungere che questa partecipazione oltre che un diritto costituisce un obbligo di servizio, perché serve alla promozione dell’ efficacia del sistema scolastico e della qualità dell’ offerta formativa. E ribadisce: in relazione anche all’ evoluzione del contenuto dei diversi profili professionali.Ci sono due pesi, dunque; entrambi riconosciuti dal contratto. Le sacrosante ragioni della carriera e della professione, le non meno sacre necessità della scuola. Dieci anni dopo la situazione è completamente mutata. Nel contratto 2006-2009, il riferimento esplicito alla formazione come obbligo del servizio non c’è più. Scomparso. La stessa funzionalità della norma (a che serve la formazione) è definita in maniera diversa, secondo un ordine differente di priorità. Nel contratto di metà anni Novanta la sequenza è: promozione dell’ efficacia del sistema scolastico e della qualità dell’ offerta formativa e, solo dopo, della evoluzione del profilo professionale degli insegnanti.Nel documento del nuovo secolo la questione è posta e risolta in modo molto sbrigativo.La partecipazione ad attività di formazione e di aggiornamento si legge, costituisce un diritto per il personale in quanto funzionale alla piena realizzazione e allo sviluppo della propria professionalità. E basta. C’è il diritto e non c’è l’obbligo; c'è la professione e non c’è la scuola.Va anche notata un'altra cosa. Dieci anni prima il contratto elencava scrupolosamente capi di istituto, insegnanti ed educatori, amministrativi, tecnici e ausiliari; dieci anni dopo c’è posto solo per il personale. La lingua si è fatta sommaria. Gli insegnanti scompaiono, assorbiti in una sorta di indistinto burocratico, il personale; che è tanto quello che insegna che quello che sta dietro una scrivania, o che ramazza lungo i corridoi della scuola. Esiste il lavoratore, si è dileguato il maestro. In dieci anni la vicenda contrattuale della scuola rivela una perdita di sensibilità pubblica per i temi della qualificazione dei maestri e dà la misura reale dei buoni propositi meritocratici al cui omaggio formale nessuno orami si sottrae più. L’indebolimento della cornice contrattuale autorizza condotte personali come quella dell’ insegnante di cui si è occupato il Consiglio di Stato e, soprattutto, rende sempre più difficile per un dirigente scolastico vincolare i suoi docenti agli obblighi della formazione.Questo apre un problema tutt’altro che secondario di disciplina nella scuola, ma segnala anche una questione culturale più ampia: la formazione diventa un credito tra i tanti per ottenere in cambio vantaggi materiali. Non attiene alla sfera della qualità del rapporto educativo con gli allievi. La cultura è così rimossa dal piano dello statuto professionale dell’ insegnante e diventa uno dei magri escamotage a disposizione per provare a sbarcare il lunario. Non tutti si sono adeguati, è vero. E la scuola è piena di maestri che non si rassegnano, che cercano occasioni di formazione. La spontaneità e l’impegno dei singoli, tuttavia, ribadisce solo la loro solitudine.

2.6 Pochi soldi e nessuna valutazione

Quando si parla di maestri bisogna parlare di soldi. Gli insegnanti guadagnano poco, tutti gli insegnanti, quel poco è pure diminuito nell’ ultimo quindicennio, e l’unico modo che hanno per progredire sulla scala della retribuzione è invecchiare. Vale a dire: il nostro paese ha una misura modesta per riconoscere il valore complessivo dei maestri e non ne possiede alcuna per distinguere i bravi dai mediocri. L’unica cosa che gli chiede è di aspettare che il tempo passi. Anzianità, si dice nel linguaggio della burocrazia. In Italia i suoi livelli sono sette. Il primo, quello che corrisponde all’ immissione in ruolo, è sempre inferiore al Pil pro capite, in ogni grado di scuola. Al massimo della carriera, un insegnante di secondaria di II grado, guadagna una volta e mezzo lo stipendio iniziale. Ci ha messo però 35 anni per arrivare a questo punto. Come documenta la Fondazione Agnelli nel suo Rapporto sulla scuola in Italia 2009, nel corso degli anni Novanta gli indici della retribuzione dei maestri sono decrescenti. Si stabilizzano alla fine del decennio, per ricominciare a scendere a partire dal 2006. Le retribuzioni dei maestri in altri termini in questi anni sono cresciute meno dell’ economia del paese.I precari poi guadagnano come i nuovi assunti, ma per quanti anni passino (e sappiano che ne passano molti, almeno dieci prima di entrare nei ruoli) i loro stipendi non si muovono. Possono però essere riscattati, una volta che il rapporto di lavoro si faccia a tempo indeterminato. Quattro anni interi e gli altri nella misura dei due terzi. Si contano però solo gli anni in cui si siano prestati 180 giorni di servizio. Come notano i ricercatori della Fondazione Agnelli, l’immissione in ruolo ha così una qualità temporale decisiva. Stabilizza il futuro e riscatta il passato. È il passaggio decisivo nella carriera dell’insegnante italiano e resta l’unico. Questa inadeguatezza delle retribuzioni, è bene sottolinearlo, non corrisponde ad una minore spesa per l’istruzione. L’Italia dà alla scuola quanto e in alcuni casi più della media dei paesi Ocse. Il problema italiano è semmai di qualità della spesa, non del suo volume complessivo. Sono allocate male le risorse finanziarie e la spesa pubblica (quella privata è irrisoria) ha una bassa produttività.Secondo Andreas Schleicher, responsabile Ocse per le ricerche sull’ istruzione (Education at a Glance 2008), la spesa non è il problema principale dell’ Italia. Decisivo è invece come vengono impiegati i soldi. Ora, qualsiasi discorso sulla qualità della spesa non può essere impostato correttamente senza affrontare da un lato il problema degli sprechi, dall’ altro la questione della valutazione degli insegnanti.Correggere gli sprechi, dunque, per liberare risorse da destinare alle retribuzioni; valutare, per premiare i migliori. Non si possono affrontare le questioni separatamente. La meritocrazia di fronte a stipendi così bassi appare agli occhi dei maestri una provocazione. La richiesta di aumenti generalizzati senza essere disposti a riconoscere la necessità dei famigerati tagli è mera demagogia. Perché in Italia non si riesce ad affrontare in maniera adeguata il problema?Per anni abbiamo voluto considerare la scuola come un apparato keynesiano di sostegno all’occupazione e soprattutto veniamo da una lunga stagione di egualitarismo ideologico che ha difeso ad oltranza il principio della indistinzione degli insegnanti.La scuola è solo uno dei terreni sui quali è possibile verificare gli effetti di una scomparsa: del principio della selezione dei migliori. A proposito degli studenti e di quel tipo particolare di studenti che sono i maestri in formazione.Una società che ha imparato a guardare con sospetto ai migliori dove volete che trovi gli strumenti per affrontare in maniera efficace il problema della retribuzione dei maestri?

3. La scuola elementare nella grande trasformazione italiana

Per capire come siamo arrivati fin qui bisogna fare un passo indietro. Fermarsi su un crinale decisivo della storia recente della scuola elementare italiana e della vicenda tutta del paese: gli anni Ottanta. Alla fine di quel decennio c’è una legge, la numero 148, universalmente nota per l’introduzione del modulo. È difficile sottovalutarne l’ importanza. Nel 1990 la figura del maestro cambia completamente. Un’ intera concezione della natura e del ruolo dell’ insegnante venne mandata in soffitta e con essa il sistema delle relazioni didattiche a cui aveva fatto capo. Cambia dunque l’esperienza dei maestri e cambia l’esperienza scolastica dei bambini, e delle loro famiglie.Quella legge arrivava alla fine di un decennio lungo di riflessioni, dibattiti e polemiche pedagogiche e aveva alle spalle la riscrittura dello statuto degli insegnanti cominciata con i decreti del 1973. Ma prima, immediatamente prima c’erano stati i nuovi programmi per la scuola elementare, varati nel 1985 dal ministro della Pubblica istruzione, la democristiana Franca Falcucci.La necessità del modulo se non stava scritta in quei programmi, di sicuro apparteneva alle loro premesse ideologiche.Gli ultimi programmi della scuola elementare risalivano al 1955. Trent’anni sono tantissimi. In quei trent’anni il paese aveva cambiato radicalmente faccia. Gli italiani non erano più gli stessi, non lavoravano più alla stessa maniera, non vivevano dove avevano vissuto per secoli. Si erano spostati dal Sud al Nord, ma soprattutto dalle zone interne verso la costa. Dall’osso, povero e scarnificato degli Appennini, verso la polpa urbana delle zone costiere.La grande trasformazione italiana si era compiuta e il cambiamento era stato violento e doloroso.Quasi trent’anni ci dividono ormai da quella stagione. Tanti quanti erano passati tra il 1985 e il 1955. Un nuovo ciclo nella storia politica e sociale del paese si è compiuto ed è arrivato il momento di prenderne atto, anche sul piano delle cose della scuola.

3.1 Il cambiamento

Più di quello che accadde conta il modo con il quale la legislazione scolastica di allora si rese perspicuo quello che stava accadendo. I nuovi programmi avevano un’ ambizione teorica esplicita e fornivano una interpretazione degli assetti della società italiana usciti dalla crisi degli anni Settanta.L’ identità della scuola repubblicana era stata faticosamente negoziata alla Costituente. Lì era stata rigettata l’idea della funzione residuale dell’ istruzione pubblica e il prestigio morale dello Stato, dal quale discendeva il suo diritto ad educare, poté essere proclamato in modo tale da non contrastare con il pieno riconoscimento del pluralismo sociale.Il rapporto tra scuola e sfera delle autonomie sta scritto nelle discussioni dei Costituenti. Tutta la legislazione scolastica del secondo dopoguerra è un commento e uno sviluppo (in alcuni casi una radicalizzazione) di quelle premesse. Vere novità non ce ne sono.I titolari del compromesso erano i partiti. E il compromesso fu accettato, vincendo potentissime resistenze su entrambi i fronti della scissione repubblicana, proprio perché poggiava sulla fiducia nel loro ruolo istituzionale.Le autonomie, le formazioni sociali intermedie, la famiglia, le associazioni, la sfera degli interessi locali, intanto erano riconosciute in quanto si esprimevano e venivano disciplinate dai partiti.Non si capisce l’imponente sviluppo della scuola italiana nel secondo dopoguerra e il ruolo fondamentale che ha giocato nella trasformazione del nostro paese se non si tiene conto di questo legame originario. Era una scuola al servizio di una società che conseguiva la propria unità nella sfera della politica.Di qui un’ idea forte di sé, un senso chiaro della propria missione, che la scuola ha sviluppato per buona parte della seconda metà del Novecento: gli insegnanti sapevano quello che facevano e perché lo facevano.La scuola educava uomini che sarebbero stati anche cittadini consapevoli. Dava forma ad un corpo sociale frammentario in forme analoghe all’ azione esercitata dalle organizzazioni politiche, che non a caso si concepivano in termini pedagogici e scuola chiamavano i luoghi della formazione dei loro quadri dirigenti.Negli anni Ottanta questo assetto entra definitivamente in crisi: di fronte a dei partiti spogli ormai di gran parte del loro antico prestigio si erge, autonoma, una sfera dell’ opinione pubblica che trova la sua voce nei mezzi di comunicazione di massa, ma che torna ad esprimere interessi frammentari e reciprocamente conflittuali, accomunati solo dalla indisponibilità a lasciarsi ricondurre nelle forme tradizionali della rappresentanza politica. Delusione pubblica e particolarismi: la scuola del decennio si pensa sullo sfondo di questa crisi e la prima a farlo in termini radicali è proprio la scuola elementare.La fine dei partiti ha significato l’indebolimento delle grandi filosofie novecentesche che con i partiti repubblicani avevano stabilito un rapporto privilegiato. Da un lato, Gramsci, che voleva dire Marx filtrato attraverso Croce e soprattutto Gentile; dall’ altro, Jacques Maritain, tanto per intenderci, letto dalla giovane generazione cattolica tra gli anni Trenta e Quaranta attraverso la mediazione di Giovan Battista Montini. All’ inizio degli anni Ottanta, la crisi della politica è anche crisi della ragione. I due aspetti sono strettamente connessi nei documenti della nuova scuola elementare e si ritrovano sul terreno di una parola chiave di quegli anni: pluralità, delle forme sociali e della cultura.Plurali dovevano essere allora gli insegnanti, contro il vecchio modello del maestro unico. Plurali erano gli interessi e i punti di vista in gioco. Plurali gli abiti culturali dei bambini e i loro stili di apprendimento.Da un lato, c’era lo spazio, senza gerarchie e senza più centro, delle autonomie, di cui la scuola si voleva parte accanto ad altre istituzioni educative; dall’altro, si promuoveva un’ idea di educazione come rivalutazione delle identità particolari degli allievi: la ragione era assorbita nella sfera dei costumi e alla scuola si cessava di chiedere quello che tradizionalmente era stato il suo compito: rompere l’ accerchiamento delle tradizioni e delle situazioni concrete di vita degli scolari.A questa missione se ne sostituiva ora una completamente nuova: elaborare procedure di convivenza tra particolarismi.

3.2 La Costituzione del buon selvaggio

I programmi del 1985 mettevano una grande enfasi sul tema della razionalità. Si parlava di un bambino della ragione e, sulla linea di svolgimento della riflessione epistemologica di quegli anni, si schierava la scuola sul fronte di una crescita di massa della razionalità. A partire da quegli anni, la scuola è stata il teatro del trionfo degli indirizzi cognitivi nelle scienze sociali e delle teorie dell’ istruzione.Quella celebrazione, tuttavia, nascondeva e nasconde la presa d’atto di un tramonto che è all’origine di molte ambiguità attuali. La razionalità propagandata dai pedagogisti apparteneva alla sfera delle credenze. Era, al più, un ideale adottato dalla società occidentale e come tale non poteva avanzare nessuna pretesa su qualsiasi altro ideale delle molteplici società umane. La sua validità residua stava in un insieme di tecniche di conoscenza di cui il bambino si sarebbe dovuto appropriare. Per il resto, non aveva nessuna capacità di fondare la convivenza umana. La ragione come strumento contraddiceva in maniera radicale alla fiducia nella possibilità dell’uomo di attingere una nozione universalmente valida di bene e di buona vita in comune.Il bambino arrivava a scuola ricoperto della sua identità particolare come da una seconda pelle. Da lì comincia quell’abuso di parole come memoria e antropologia che caratterizza fino alla nausea la cultura scolastica e non solo dei nostri anni. Spogliare il bambino di quella pelle sarebbe stato come scorticarlo vivo.Le implicazioni sono naturalmente molteplici: ad una società civile ed economica incapace di pensarsi come società politica, corrispondeva una scuola che si concepiva come spazio della mediazione e della negoziazione tra diversi irriducibili.Questo spazio non è in grado, evidentemente, di produrre una figura unitaria; si lascia definire in termini esclusivamente processuali: è l’insieme delle procedure in grado di assicurare la mediazione tra interessi e punti di vista differenti.Ha però bisogno di una nuova giustificazione ideale: trent’anni prima era stata la religione, come fondamento e coronamento dell’ istruzione elementare; trent’anni dopo, è la scuola sotto il tetto dei principi della Costituzione repubblicana.Della Costituzione però i programmi valorizzavano soltanto una dimensione, il lato pattizio e pluralistico, sottovalutando completamente il problema dell’ espressione e della rappresentazione dell’ unità politica. Per la scuola della fine del Novecento e per i suoi teorici, c’erano in altri termini solo i diritti e non la sovranità. Le garanzie e non la legge. La giurisdizione e non la politica.È un orientamento in linea con movimenti più ampi nella sfera della cultura e con la diffusione di un’ idea di democrazia di tipo contrattualistico, dove la convivenza è assicurata non dal comune riconoscimento di valori universali, ma dall’ assunzione che nessuno dei valori in gioco sia in grado di avanzare pretese rispetto agli altri.È il trionfo di una dimensione piattamente orizzontale della democrazia, dove si può solo morire dalla noia e che infatti produce nella società e, soprattutto, nella scuola dei nostri anni il proliferare di tentativi violenti per sottrarsi a questa noia. Il bullismo nasce da qui. Dal bisogno naturale di ripristinare gerarchie. Quando non c’è più la cultura e non ci sono più le istituzioni, che sono la forma elaborata della verticalità, resta solo il linguaggio naturale della forza.

4. Come venirne fuori

A somiglianza della società, la scuola ha così cominciato a pensarsi come un microcosmo a base negoziale dove tutti sono vincolati ad una astratta stima reciproca e nessuno è dotato di autorità. O dove al più l’ autorità si riduce ad una funzione regolativa dei turni di parola.Ne è derivato un trionfo di formalismi che lentamente ha svuotato la scuola dei suoi contenuti e che invischia insegnanti e famiglie in una rete di organismi collegiali senza veri poteri e senza capacità reali di gestione.La scuola senza più indirizzo è il frutto di una società che si è spogliata degli strumenti concettuali per pensare la propria unità. Di qui la sua dismissione a vantaggio di una generica dimensione sociale e comunitaria dell’ educazione; e, soprattutto, una serie di ricadute concrete. L’ indebolimento della scuola nelle società del tardo Novecento è l’esito della depoliticizzazione della sfera pubblica e del trionfo della cosiddetta micro politica, l’idea cioè di piccoli gruppi che trovano piccole soluzioni ai problemi locali della loro convivenza.Nella vita concreta della scuola il trionfo di questo orizzonte negoziale ha significato niente più programmi. Al loro posto, come si è visto, la programmazione. Una pratica, che nelle illusioni di chi l’aveva pensata doveva svolgersi sullo sfondo di un fervore collaborativo, ma che ben presto è diventata una vuota formalità, oltre a contenere tutti i rischi della privatizzazione della funzione educativa.Le cose non sono andate meglio sul fronte della democrazia scolastica. La presenza delle famiglie nella scuola si è rapidamente inaridita e oggi la partecipazione alle elezioni degli organi collegiali ha dimensioni irrisorie che dicono di una effettiva scomparsa di quegli istituti nati sull’ onda dell’ assemblearismo post Sessantotto. La natura incerta dei ruoli e dei compiti, la finzione di un’autonomia che per le scuole ha significato proliferazione di obblighi di tipo burocratico e nulli o pochi poteri reali di gestione delle dirigenze, tuttavia, non è senza effetti sulla vita morale delle istituzioni scolastiche.La promozione di un’ idea pattizia della democrazia nella scuola italiana e l’arroganza rafforzata dalla retorica del politicamente corretto, da un lato, ha sguarnito gli insegnanti di ogni autorità, esponendoli senza più nessuna tutela sul fronte del rapporto con le famiglie e, soprattutto, con gli studenti nelle aule; dall’ altro, li ha autorizzati di fronte all’ amministrazione centrale e alle dirigenze scolastiche alla rivendicazione di una sorta di principio di non ingerenza che ha indebolito e indebolisce l’idea stessa di governo unitario del nostro sistema di istruzione.Ripristinare l’autorità dei maestri significa operare su due fronti. Rispetto alle famiglie e nei rapporti con l’istituzione. La scuola è una dimensione cruciale del governo della popolazione. Gli addetti a questo governo sono doppiamente esposti: dirigono le famiglie, indicando loro con sicurezza ciò che è meglio sul terreno della formazione culturale dei loro figli; iscrivono il loro ruolo all’ interno di un disegno più ampio e si vincolano al suo rispetto.

4.1 Figure di sistema: gli insegnanti

La scuola degli anni a venire poggerà su due pilastri: gli insegnanti e i dirigenti scolastici. La partita andrà giocata sul terreno del sistema scolastico nazionale e non delle singole istituzioni autonome. Bisogna imparare a concepire queste due figure come figure di sistema, custodi del modello unitario di riferimento della scuola italiana, e non come semplici funzioni periferiche.Non si restituisce dignità ai maestri senza restaurare la loro autorità nella scuola. Che vuol dire, innanzitutto, rispedire alle famiglie, quello che le famiglie in questi anni hanno scaricato sulle spalle della scuola: la responsabilità, niente meno, del successo formativo dei loro figli.La convinzione che la motivazione allo studio e dunque l’impegno degli studenti dipendano esclusivamente dall’insegnante ha accompagnato il trionfo in questi anni di un’ idea di scuola come servizio educativo per la società.Il ragionamento è stato grosso modo questo: la società ha bisogno della scuola come ha bisogno di un qualunque altro servizio alla collettività. Nel caso specifico si tratta di accudire i minori per un certo numero di anni, fornirgli un bagaglio cognitivo minimo, rilasciare loro, alle diverse uscite del percorso, un titolo di studio tale da legittimare certe aspirazioni e mortificarne altre.Su queste basi non resta più niente in cui credere o per il quale valga veramente la pena impegnarsi, se non il calcolo degli interessi. E quando in gioco ci sono solo gli interessi, le parti in causa sono legittimate alla tutela. Di qui, sul fronte dei maestri, la debolezza pubblica di voci che non parlano il linguaggio della rivendicazione corporativa; sulle fronte delle famiglie, la trasformazione dei genitori in sindacalisti dei loro figli.La scuola ha oggi bisogno di ritornare ad un sistema chiaro di valutazione degli studenti. Il percorso cominciato con il ministro Fioroni e continuato dal ministro Gelmini va affrontato con maggiore determinazione e senza tentennamenti. Il rischio che si interrompa è forte. Le ambiguità sono ancora forti.Bisogna ricordare sempre che il rigore e la selezione sono una garanzia per chi non ha altre risorse che il proprio talento e per come è concepita oggi, la scuola rischia di giocare contro il talento. Ispirata ad un egualitarismo ideologico, che si rifiuta di distinguere i migliori, essa di fatto abbandona i bravi al loro destino: chi può si paga le scuole migliori e magari va a studiare nelle grandi università straniere, chi ha solo il proprio talento si prende la scuola che gli tocca in sorte. Così il sistema di istruzione viene meno alla sua funzione storica: promuovere la mobilità sociale. Che non è solo una questione di reddito, è bene ricordarlo. Nel nostro paese, tenendo conto dei suoi dati storici e geografici, mobilità sociale ha significato e significa spostamento territoriale e trasferimento di sfere di cultura.Ora, una scuola rigorosa non è esigente solo con i propri studenti. Presuppone insegnanti adeguatamente preparati.Da anni ormai la scuola italiana vive una situazione incredibile che si è aggravata con il tempo e di cui l’opinione pubblica non ha un’ adeguata consapevolezza.Da almeno dieci anni non si svolgono concorsi. Nel 2007 le graduatorie provinciali sono state messe ad esaurimento e di conseguenza le scuole di specializzazione per l’insegnamento hanno portato a termine il loro ultimo ciclo biennale senza riaprire i battenti a nuovi aspiranti professori. Bisogna anche aggiungere, senza molti ripianti.Di fatto la scuola italiana, dalle elementari alle secondarie, è inaccessibile a nuovi insegnanti ed è priva di un sistema credibile di regolazione della carriera magistrale: che vuol dire formazione e reclutamento. L’unico modo residuo per insegnare nella scuola è costituito oggi dalle domande di incarichi e supplenze. Paradossalmente, la scuola che ha chiuso l’accesso ai nuovi insegnanti riproduce solo posizioni precarie. Contribuisce cioè all’ indebolimento dello statuto professionale del maestro e alla sua perdita di autorità sociale.Nel caso della scuola elementare, in particolare, è da più di trent’anni che si parla di formazione universitaria dei maestri. Eppure oggi quasi due terzi dei maestri non ha un titolo di studio di livello accademico.Dopo una stagione di riforme a ciclo continuo, è questo il punto a cui siamo arrivati. E nel groviglio di conflitti, che si è stretto attorno a questa delicata materia, è possibile leggere l’avventatezza, la mancanza di un disegno chiaro e plausibile, in molti casi l’approssimazione che purtroppo hanno governato le vicende della scuola italiana al passaggio tra XX e XXI secolo. La scuola è stata non l’ultimo dei banchi di prova della fallimentare transizione politica italiana.La posta in gioco è evidente. Formazione e reclutamento degli insegnanti non riguardano gli attuali aspiranti. Si tratta di disegnare oggi il profilo dei maestri di domani.La domanda rilevante in questa faccenda non è come si diventerà maestri, ma quali contenuti dovranno nutrire l’esercizio del magistero.È inutile nascondersi che veniamo da una lunga stagione di svalutazione della cultura e del sapere e che l’impoverimento della vita scolastica a tutti i livelli è l’esito di questa svalutazione. Avremo prima o poi un nuovo meccanismo del reclutamento. Non è detto che questo meccanismo risolva il problema principale: il buon insegnante è colui che conosce bene quello che è chiamato ad insegnare. Il resto è accessorio, frutto dell’ esperienza e di un lungo lavoro. Come sempre è accaduto e sempre accadrà ci saranno insegnanti pieni di talento e insegnanti che si limiteranno a sbarcare il lunario. Nessuna pedagogia e nessun metodo è in grado di produrre il buon insegnante. Una buona preparazione, tuttavia, alimenta il talento degli uni e garantisce gli allievi dalla scarsa passione degli altri.Né vale l’obiezione che una preparazione disciplinare va bene per i professori e non per i maestri. Non stiamo parlando di tecnici specialisti e una disciplina è tale perché attraverso lo studio serio e approfondito si acquisiscono abiti mentali di ordine e di rigore intellettuale sulla base dei quali è possibile fondare non solo una conoscenza ma un’ etica.La scuola italiana da anni si affanna attorno al problema della crisi educativa. Le risposte che si dà sono generalmente prescrittive e ammonitorie: l’educazione alla cittadinanza, l’educazione al dialogo tra le culture, l’educazione stradale, l’educazione affettiva, l’educazione alimentare. Poi magari capita che i bambini siano costretti a mangiare cibi precotti, in piatti di plastica, sui banchi dove fino a poco prima hanno fatto lezione. E allora viene spontaneo chiedersi dove stia l’educazione in tutto questo.Resta tuttavia inevaso, in questo proliferare di discorsi programmaticamente educativi, proprio il problema della disciplina, di un abito mentale cioè e di una forma di regolazione delle condotte che le menti e i cuori in formazione dei bambini acquisiscono attraverso il lento lavorio dell’ applicazione intellettuale. Ora, a cosa si applica questo lavoro? A quali contenuti? Il discorso vale per i bambini, certo; ma anche i maestri sono stati dei bambini, allievi e studenti di una scuola che in questi anni si è fatta sempre più povera di contenuti culturali.Per dirla in breve, oggi il problema più importante per la formazione di un buon maestro è la sua cultura. Investire nella cultura del maestro è questa la chiave della soluzione del problema scolastico. E cultura da sempre significa letteratura, filosofia, storia, matematica, scienza della natura. Come la riflessione scientifica è tanto più ricca quanto più è raffinata l’osservazione del mondo nello scienziato, alla stessa maniera il maestro porta nella relazione con gli allievi la ricchezza dei suoi contenuti personali.Si può fare educazione all’ immagine o musicale o motoria, se un maestro non ha mai visto la Cappella Sistina o se non conosce Picasso, oppure se non sa spiegare perché stiamo in piedi in una certa maniera e camminiamo chi in un modo e chi un altro?Insomma, che ne è del maestro quando non sa riconoscere lo stile del mondo?Una ricca preparazione culturale non garantisce, certo, di questo elemento. Tuttavia coltiva il genio di chi lo possiede e vincola tutti gli altri ad un sistema comune di riferimenti. Ed è di questo che la scuola italiana ha oggi soprattutto bisogno.

4.2 Figure di sistema: i dirigenti scolastici

Maestri con una forte cultura comune, dunque. L’altro pilastro unitario della scuola che verrà è costituito dai dirigenti scolastici.Nella scuola italiana, e in genere in tutti i sistemi scolastici che negli ultimi venticinque anni sono stati ripensati sul terreno dell’ autonomia, si pone oggi un problema di autorità.Detta in termini spicci, la domanda è: chi comanda nella scuola? Il problema è duplice: riguarda tanto il modello di autorità che il riconoscimento del suo principio all’ interno del sistema scolastico. A questo riguardo, l’ autonomia pone una questione che non sa o non vuole risolvere.Il problema non è solo italiano e le soluzioni approntate nei diversi paesi riflettono storie politiche e sociali che è sempre molto rischioso comparare. In termini generali, l’evoluzione dei sistemi scolastici a partire dall’ ultimo quarto del Novecento ha visto il trasferimento alla periferia di molte funzioni e di obblighi tradizionalmente esercitati dalle amministrazioni centrali. Il numero di queste funzioni non equivale però al loro peso. Vuol dire che molto grava ora sulle spalle delle istituzioni scolastiche, ma il meno che ancora resta in mano al centro vale più di tutto nella regolazione del sistema. In compenso, alle scuole sono toccati molti compiti burocratici e molte responsabilità e pochi poteri di gestione effettiva. Se una scuola, ad esempio, ha un progetto che richiede un particolare impegno da parte dei bidelli che oggi si chiamano collaboratori scolastici, nell’ eventualità tutt’altro che remota che questi non collaborino il dirigente scolastico ha l’obbligo del provvedimento disciplinare ma non ha il potere di licenziarli e dunque di reclutare personale. Questo inasprisce i rapporti di lavoro all’ interno dell’ istituzione scolastica senza offrire strumenti effettivi per la loro soluzione e mette il dirigente scolastico nella penosa condizione di dover pazientemente elemosinare la disponibilità dei singoli.Gli esempi possono moltiplicarsi a piacere, il punto resta sempre lo stesso: possibilità che, senza poteri, diventano velleità: volontà deboli che hanno scarse capacità di attuarsi.C’è un altro aspetto che non va sottovalutato di questa volontà senza potere ed è l’ambiguità delle procedure e la moltiplicazione dei livelli amministrativi da consultare. La rottura della catena verticale di comando della scuola tradizionale ha generato una pluralità di centri decisionali in competizione tra loro: amministrazione centrale, apparati periferici, enti locali. Questo rende lo spazio istituzionale in cui si prendono le decisioni poco trasparente e moltiplica le occasioni dell’ errore amministrativo al livello dell’ istituzione scolastica e dunque delle sanzioni in cui incorrono i dirigenti, autorizzando così condotte circospette in chi invece l’autonomia pretenderebbe attivo, dinamico, creativo.Nei modi di un non ancora, tuttavia, i limiti dell’autonomia descrivono un nuovo sistema di rapporti di potere all’ interno della scuola. Al centro di questo sistema ci sono i dirigenti scolastici. È bene dunque prestare molta attenzione al profilo di questa figura perché, se l’ autonomia non esiste senza i dirigenti, è ai dirigenti che spetterà il compito di fare in modo che l’autonomia non significhi la dissoluzione dei vincoli unitari del sistema scolastico. La Costituzione vuole che lo Stato detti le norme generali in materia di istruzione. Ora, chi garantisce della loro attuazione a livello periferico?È un aspetto largamente trascurato nel dibattito attuale. I dirigenti scolastici proprio perché sono il perno della scuola autonoma diventano i custodi delle sue ragioni unitarie, a meno che non ci si rassegni alla fine della scuola come luogo della nazione.Tre almeno sono gli elementi della debolezza attuale di questa figura. La sua istituzione è avvenuta senza che contemporaneamente si sia messo mano alla riforma degli organi collegiali. Nella scuola attuale si fronteggiano così due principi divergenti di riconoscimento e di attribuzione di autorità. Il primo, quello degli organi collegiali, affonda le sue radici nel modello della scuola degli anni Settanta. È l’idea della scuola governata dal collettivo degli insegnanti. L’altro invece è un modello imperniato sull’ idea di leadership educativa. Presuppone nel vertice dell’ istituzione una capacità di indirizzo e direzione che chiama gli insegnanti a collaborare ad un progetto educativo individuato con chiarezza e seleziona i collaboratori sulla base di un’ aperta condivisione delle sue ragioni ideali.Oggi questi due principi sono costretti a coesistere e generano conflitti. I dirigenti non solo non hanno nessuno strumento effettivo per premiare gli insegnanti migliori, ma l’idea che gli insegnanti siano tutti uguali scarica sul collegio dei docenti l’insieme delle tensioni psicologiche legate alle dinamiche del riconoscimento e rende molto delicata tutta la gestione delle attribuzioni di responsabilità, delle collaborazioni e delle assegnazioni degli incarichi.La sindacalizzazione di queste dinamiche costituisce a sua volta un potente fattore di inibizione dell’ iniziativa del dirigente scolastico.È urgente dunque rimettere mano a tutta la materia degli organi collegiali. Senza questo ripensamento, il potere di indirizzo del dirigente scolastico risulta compromesso.L’altra questione sulla quale è necessario richiamare l’attenzione in una discussione sul ruolo della dirigenza scolastica è l’ appannamento dei suoi compiti di natura didattica, a vantaggio di un profilo di mera gestione amministrativa. Nel linguaggio un po’ stereotipo del dibattito attuale è la distinzione tra il dirigente leader e il dirigente manager.La questione assume un rilievo particolare proprio in relazione alla scuola elementare. Qui, la nuova figura ha cancellato, all’ interno di un contenitore burocratico generico, i vecchi direttori didattici. Si trattava per lo più di maestri che avevano sostenuto un concorso specifico e che portavano nelle direzione dei circoli una ricca esperienza di lavoro sul campo. Il dirigente scolastico non è evidentemente la stessa cosa che un direttore didattico ed è proprio la parola didattica (l’esperienza e il sapere che la costruiva) che è diventata irrilevante nella definizione del nuovo profilo professionale.Tutto un patrimonio di cultura magistrale viene in questo modo disperso.Un dirigente sul quale gravano ad esempio compiti come la ricostruzione di carriera degli insegnanti, un tempo assicurati dai provveditorati agli studi, non ha praticamente più spazio da dedicare alla didattica e all’ aspetto culturale dell’ insegnamento. Con l’autonomia i compiti amministrativi hanno preso il sopravvento. Un tempo, invece, il direttore visitava le classi, poteva guidare gli insegnanti alle prime armi, redigeva note e rapporti di merito. Tutto questo contribuiva a tessere una trama di rapporti culturali nella scuola italiana che riconduceva l’impegno dei singoli insegnanti ad un lavoro comune, definito da un modello di riferimento chiaro.Questa funzione di tessitura e di collegamento si fa oggi più rilevante con l’autonomia, in un contesto cioè dove i vincoli unitari si attenuano e il centro, anche in termini di cultura di riferimento, si è fatto ancora più remoto e sbiadito.È necessario restituire ai dirigenti la specificità dei settori formativi di intervento. Un dirigente di scuola elementare non è la stessa cosa di un dirigente che è stato preside di scuola media. Sono diversi gli ambiti, sono diverse le funzioni, sono diversi i problemi di natura didattica.Non meno importanti gli aspetti legati alla costruzione del corpo della direzione scolastica.I ruoli sono stati regionalizzati e i dirigenti reclutati sulla base di concorsi locali. Il sistema non ha funzionato. Forti sono le disparità tra Nord e Sud.In particolare, i vincoli quantitativi imposti per legge ai concorsi e sabotati dallo stesso legislatore che in pochi anni ha disfatto la sua stessa opera, hanno generato forti disparità sia tra i concorrenti che tra le diverse aree del paese dove si tenevano i concorsi. Aspiranti dirigenti con tutti i requisiti previsti dalla legge si sono visti superati nelle graduatorie da colleghi ammessi con riserva e che, una volta sanate le loro posizioni dal Parlamento, sono entrati nei corsi di formazione e in alcuni casi in posizione di vantaggio.Lo scioglimento positivo della riserva da parte della politica ha soprattutto vanificato l’opera delle direzioni scolastiche meridionali e della Campania in particolare, dove più alto in assoluto era il numero degli aspiranti, inizialmente tenuti fuori dai corsi per dirigenti scolastici. La sanatoria ha fatto saltare tutti i vincoli quantitativi con il risultato di una proliferazione incontrollata degli idonei al Sud. Di qui il moltiplicarsi delle domande di incarico fuori regione e in prevalenza nell’ Italia settentrionale dove le graduatorie si sono presto esaurite.Le conseguenze di tutto questo sono facili da immaginare e così i conflitti, che puntualmente si sono presentati. C’è un problema di giustizia, per i singoli, e di continuità dell’ ufficio, visto che i titolari fuori regione finiscono molto presto per chiedere l’avvicinamento a casa. Né va taciuta la possibilità riconosciuta agli idonei in un determinato settore formativo, una volta esauriti i posti nella regione di appartenenza, di chiedere la nomina in un settore diverso: c’è, in questa distorsione burocratica che è un ulteriore cedimento dell’ amministrazione centrale alle spinte sindacali e corporative della periferia, la sanzione dell’ irrilevanza di quella specificità didattica cui facevo riferimento prima.La scuola ha bisogno di uno stile dirigenziale differente. Bisogna innanzitutto costruire un corpo nazionale dei dirigenti scolastici, reclutati sulla base di un concorso pubblico, con una commissione unica e con una graduatoria nazionale, stabilendo un vincolo di permanenza per i vincitori fuori regione.I dirigenti scolastici devono essere concepiti come funzionari dello Stato, garanti dell’unità del sistema scolastico nazionale, custodi delle sue ragioni ideali. Il reclutamento su basi regionali li espone di fatto alla rete dei poteri politici e sindacali locali. Li indebolisce di fronte ad un soggetto che l’autonomia rende un interlocutore obbligato. Per questo di fronte agli enti locali e alle reti periferiche degli interessi deve ergersi un funzionario autorevole, la cui autonomia reale può essere solo garantita dal servizio per lo Stato.La scuola ha oggi bisogno di una funzione moderna e dinamica di direzione. L’ idea che la deve animare, tuttavia, appartiene ai presupposti stessi della nostra esistenza come comunità politica moderna: la scuola è il luogo dell’ incessante costruzione culturale della nazione.

LE NOSTRE PROPOSTE
5.1 La scuola che verrà
La scuola italiana è stata abbandonata, in questi anni, in una specie di terra di nessuno. È difficile resistere alla sensazione di estraneità che comunicano le parole, i provvedimenti, la quantità di interventi che pure si sono spesi in tutto questo tempo al suo riguardo. L’idea diffusa è che la scuola sia destinata al tramonto e che altre e più potenti agenzie educative non solo le contenderanno spazio e ruolo ma con la loro capacità pervasiva, la loro elasticità accelereranno il collasso di una struttura rigida, imponente, elefantiaca, incapace di rispondere in maniera efficace alle sollecitazioni di un ambiente fluido e in rapida e continua trasformazione.In molti, in questi anni, hanno provato a tracciare scenari possibili per il futuro, ma la verità è che la scuola che verrà sarà la scuola che vogliamo oggi. E oggi siamo di fronte ad alcune scelte cruciali che decideranno del nostro futuro. Alle spalle abbiamo un fallimento, è inutile negarcelo. Dieci anni e più di riforme, che hanno esasperato il mondo degli insegnanti, accentuato la demotivazione degli studenti e delle loro famiglie e, soprattutto, non sono riusciti a modificare il sentimento di un inesorabile degrado.Questo fallimento affonda le sue radici in anni cui è mancato un disegno chiaro riguardo alla scuola. Le riforme che si sono succedute hanno provato a tenere in vita un sistema già malato, la scuola del post Sessantotto, senza interrogarsi minimamente sulle ragioni della sua malattia.A questo punto siamo tenuti a scegliere, e la scelta è tra una società senza istituzione scolastica, che si pensa come un sistema reticolare e l’ istruzione stessa delle giovani generazioni immagina come una rete sostenuta dalle tecnologie dell’ informazione e della comunicazione, più potenti, più accessibili, più economiche; luoghi di apprendimento diffusi e non istituzionalizzati. E invece una società che investe nella scuola come istituzione dedicata allo sviluppo intellettuale dei giovani.Lo sviluppo tecnologico sarà imponente? Questo non produrrà un’ umanità diversa. I bisogni di base restano gli stessi di ieri. L’errore, che è una forma di camuffamento ideologico, è pensare che i nostri figli siano più competenti e più maturi di come lo eravamo noi alla loro età, o di come lo erano i loro nonni. Non è così. La modificazione dell’ ambiente culturale e l’accentuazione degli stimoli non cambia i termini del rapporto educativo, perché non cambia la natura degli uomini. I bambini e poi gli adolescenti vanno accompagnati nella loro crescita. Nutriti di affetto e di sapere, perché possano articolare il loro mondo interiore, i propri contenuti personali e portarli alla soglia di un’ espressione chiara di sé e del mondo. Dopo la famiglia, questo lo può fare solo la scuola. Ma la scuola sono gli insegnanti. È a loro che viene demandato il compito di accompagnare e sostenere lo sviluppo morale e intellettuale dei giovani.Ora, sarebbe ben strano un discorso che per rivolgersi agli insegnanti esordisse dicendo: siete una specie in via di estinzione.Noi invece crediamo negli insegnanti perché crediamo nella funzione insostituibile dell’ istituzione scolastica.Le nostre proposte non pretendono certo di fornire soluzioni sul terreno della micro politica per un oggetto, la scuola, che vive al contrario della capacità della politica di interpretare il paese e il suo futuro. Le proposte che facciamo servono a restituire la scuola sul terreno che gli è più proprio: la trasmissione della cultura. Con queste proposte vogliamo rivolgerci ai maestri con un linguaggio diverso e restituirgli le parole che hanno perduto.

5.2 La biblioteca del maestro

Intendiamo promuovere l’ istituzione di biblioteche magistrali in modo tale da allestire reti provinciali di centri di lettura, rivolti in maniera specifica ai maestri elementari, perché la scuola diventi un vero centro culturale, punto di riferimento per la città, il quartiere, il sistema delle relazioni civiche. Tramite la biblioteca le scuole potrebbero stabilire tra loro legami di colleganza, di scambio e di collaborazione anche attraverso reti informatiche e non, trasformando in un tratto distintivo dell’ istituzione scolastica quello che oggi è affidato ad iniziative sporadiche e di singoli insegnanti. Bisognerà ripensare in ogni scuola gli spazi esistenti e le destinazioni d’uso dei locali. In particolare, si punterà alle sale docenti, spazio indispensabile all’ incontro, alla conversazione e al riposo degli insegnanti. Andranno concepiti come fulcri della comunità insegnante, spazio raccolto di studio, di riflessione e di dibattito.Gli insegnanti in questi anni sono rimasti soli, privi di legami associativi di natura non corporativa. Nella scuola più che altrove è possibile misurare gli esiti dell’ impoverimento della nostra sfera pubblica e della crisi dell’ arte civile del discorso. Inventare un luogo dello scambio informale, sottratto agli obblighi e alle pressioni della professione: è questo lo scopo della biblioteca del maestro. Centro di lettura e, al tempo stesso, luogo della comunità, sul modello della public library di tradizione statunitense, dove i maestri possano trovare i libri e insieme le occasioni della discussione pubblica. Il suo catalogo dovrebbe essere composto in prevalenza di libri di letteratura, una vera e propria biblioteca universale dei classici e non, come si tende a fare di solito, una mesta raccolta di manuali professionali.Alla fine degli anni Novanta furono finanziati progetti per la promozione e lo sviluppo delle biblioteche scolastiche. Il primo finanziamento nel 1999 fu di 20 miliardi di lire ed era finalizzato alla creazione di una rete territoriale di biblioteche scolastiche collegate al Sistema bibliotecario nazionale (Sbn). Le biblioteche avrebbero dovuto funzionare da centri di risorse multimediali a sostegno della didattica e della ricerca nella scuola. Nel contesto della nuova legislazione dell’ autonomia, ci si prefiggeva di organizzare anche attraverso le biblioteche il consenso attorno al nuovo modello scolastico promosso dalla riforma.Il progetto prevedeva due programmi. Il grosso dei soldi andava alla «promozione» delle biblioteche scolastiche; un capitolo minore riguardava lo «sviluppo» di quelle già avviate. Per promozione si intendevano le azioni rivolte a biblioteche scolastiche carenti tanto sul piano dei fondi che delle attrezzature e degli spazi disponibili, ma già orientate ad un modello di biblioteca coerente con le norme dell’ International Federation of Library Associations and Institutions (IFLA).In pratica, si finanziavano biblioteche che avessero almeno 2000 unità tra libri e altri supporti. Nel caso di superamento del limite, il contributo destinato all’ incremento del patrimonio bibliografico e audiovisivo sarebbe stato decurtato in misura proporzionale. Le biblioteche che tra libri, videocassette e cd rom, possedevano più di cinquemila unità partecipavano al progetto solo per il miglioramento delle infrastrutture e delle dotazioni multimediali.Una parte minore dei finanziamenti era invece destinata ad un numero più ristretto di biblioteche scolastiche, con un buon livello di dotazione documentaria e soprattutto di rilevante interesse storico, attrezzature adeguate e standard di funzionamento in linea con i parametri dell’ IFLA.Il programma prevedeva pure la formazione del bibliotecario scolastico, realizzata per mezzo di master universitari. Furono realizzati corsi presso le Università di Bari, Padova e della Tuscia. Le biblioteche coinvolte erano 500 e vennero selezionate in base alla ricchezza del patrimonio bibliografico, alla presenza di personale specializzato, dei locali e delle attrezzature idonee al progetto.Nell’ aprile del 2004 è stato avviato un nuovo programma, sperimentale, di durata triennale; si chiama Biblioteche nelle scuole ed è finanziato dal Miur, Direzione generale per i sistemi informativi, dal Dipartimento per l’ innovazione tecnologica, dall’ Istituto centrale per il catalogo unico e dal ministero dei Beni culturali. Il piano continua i programmi di finanziamento del 1999. Vi partecipano 2.500 bibliotecari scolastici e insegnanti. Le scuole, di ogni ordine e grado, coinvolte sono 800, organizzate in 120 reti scolastiche locali. Nel 2007 i ministeri dell’ Istruzione e dei Beni culturali hanno siglato un protocollo d’ Intesa con il presidente della Conferenza delle Regioni allo scopo di dare continuità al progetto e di facilitare l’integrazione delle biblioteche scolastiche nel Sistema bibliotecario nazionale.Grazie a questi programmi è stato avviato un lavoro di ricognizione sulle biblioteche scolastiche, che spesso sono ignote agli stessi uffici periferici del ministero. Sono nate così reti locali di biblioteche che hanno riunito le scuole e i loro giacimenti documentari. L’esempio più importante è sicuramente il progetto biblioteche nelle scuole del Lazio che ha permesso di censire un patrimonio di ben 700.000 volumi. Esperienze significative sono anche quelle di Vicenza, di Padova. Al Sud gli esempi sono pochi. Si segnala la rete delle biblioteche scolastiche e comunali di Acquaviva delle Fonti in provincia di Bari. In Campania, solo nel 2008, l’ Ufficio scolastico regionale ha intrapreso il monitoraggio sulle biblioteche scolastiche della regione.Proprio in relazione alla ineguale distribuzione geografica delle reti delle biblioteche scolastiche è possibile fare alcune osservazioni critiche. I progetti ricordati valorizzano il posseduto delle scuole e in particolare il patrimonio cartaceo di valore. Non vengono impiantate nuove biblioteche, prevalgono gli istituti secondari, a cui per formazione storica appartengono le raccolte di maggior pregio. Mettendo poi in valore l’esistente si finisce, inevitabilmente, per premiare le regioni più ricche sul piano delle tradizioni associative e dei movimenti culturali, riproducendo così i divari storici del paese.Anche i numeri sono significativi. Le biblioteche interessate dal programma del 1999 erano 500. Il loro numero è salito a 800 nel 2004. Le istituzioni scolastiche in Italia sono quasi 11.000, le scuole 42.000. Gli insegnanti elementari con incarico a tempo indeterminato più di 240.000. Lo scarto è notevole.La proposta di Italia Futura punta sull’ istituzione di nuove biblioteche. Non censisce l’esistente, ma lo arricchisce. Sposta l’accento dell’ iniziativa dalle biblioteche scolastiche alle biblioteche dei maestri. Individua con precisione il destinatario e gli restituisce valore. Innova il linguaggio: propone il libro e non internet. Spezza l’accerchiamento del conformismo tecnologico e rimette gli insegnanti su di un terreno di cultura e, soprattutto, sottraendo la lettura agli obblighi di servizio la restituisce alla sfera dell’ estetica e dell’ attività disinteressata.Portare i libri nelle scuole è un compito che deve essere sostenuto dal centro, ma alla sua fattiva realizzazione possono e devono contribuire gli enti locali e in particolare le Regioni attraverso le numerose azioni previste dalle misure per il miglioramento della qualità dell’ istruzione nell’ ambito dei piani per l’ utilizzo dei fondi strutturali europei. Le biblioteche sono centri funzionali allo sviluppo dell’ autonomia e alla creazione di reti. Come tali vanno finanziate. Un ruolo importante lo possono e lo devono svolgere le librerie e gli editori. Questi ultimi sono abituati a visitare le scuole a fine anno per sollecitare le adozioni e vendere le proprie edizioni. Non sono estranei fisicamente alla scuola. È ora che facciano la loro parte. Prosperano grazie alla scuola e giunto il momento che restituiscano parte di quello che gli è stato dato. Spetterà allo Stato e alle regioni stipulare apposite convenzioni per fornire i volumi alle singole scuole.

5.3 Le scuole degli italiani

Vogliamo costruire una scuola, perché la dignità dei maestri è anche la dignità che comunicano i luoghi dove si impartisce l’ istruzione. Ai maestri chiediamo idee per aiutarci a disegnare il tipo della nuova scuola italiana. Li vogliamo mettere in contatto con gli architetti, farli dialogare, aprire una grande discussione nazionale che restituisca al paese il sentimento del futuro per mezzo di un progetto concreto: costruire un luogo dove si educano gli italiani di domani.L’edilizia scolastica è un tema delicatissimo per il nostro paese. Le tragedie del Molise e più recentemente di Rivoli hanno portato all’ attenzione dell’ opinione pubblica lo stato drammatico in cui versano gli edifici scolastici nel nostro paese. Ed è bene sottolinearlo, non si tratta solo della vetustà dei luoghi. A San Giuliano, lo ha accertato la Corte di Appello nel processo di secondo grado, la scuola crollò, seppellendo sotto le sue macerie un’ intera classe di bambini e la loro insegnante, perché era stata costruita male. Era nuova e presentava fin dall’ inizio gravi problemi di natura strutturale.L’ edilizia scolastica nel nostro paese racconta una storia fatta di mancanza di cura e di attenzione, di capacità tecniche non adeguate, di continue deroghe alla sicurezza, di scelte politiche sbagliate nella destinazione dei fondi specifici, di assenza di pianificazione. Dal 1996, inoltre, si trascina la vicenda dell’ anagrafe nazionale per l’edilizia scolastica. In quasi tre lustri ormai, l’ Italia non è riuscita a dotarsi di una banca dati in grado di descrivere in maniera accurata lo stato degli edifici nelle sue componenti strutturali e non strutturali (a Rivoli un ragazzo è morto sotto le macerie di una controsoffittatura troppo pesante).In questo clamoroso ritardo hanno contato inefficienze del centro, ma soprattutto l’insensibilità delle amministrazioni locali, in particolare al Sud, dove si nota l’assenza di pratiche istituzionali consolidate di monitoraggio e raccolta locale delle informazioni.Solo all’ inizio del 2009, il governo ha deciso di imprimere una svolta a questa situazione di inerzia. Il 28 gennaio dello scorso anno è stata firmata l’intesa raggiunta nella Conferenza unificata Stato-Regioni relativa agli indirizzi per prevenire e fronteggiare eventuali situazioni di rischio connesse alla vulnerabilità degli edifici scolastici. Sono state previste procedure stringenti e tempi precisi per accelerare e portare così a compimento la raccolta dei dati. Di fronte all’ eventuale non collaborazione degli enti locali è stato dato ai prefetti il potere di intervenire sostituendo l’amministrazione inadempiente. Sono stati stanziati soldi, continuando lo sforzo finanziario che già il governo precedente aveva sostenuto in materia di edilizia scolastica.Attualmente la situazione è la seguente, così come la fotografa Lega Ambiente nel suo rapporto annuale Ecosistema Scuola sulla qualità dell’ edilizia scolastica, sulle strutture e sui servizi: Nel 1974 venne varata la legge che stabiliva i criteri di edilizia antisismica. Le scuole costruite prima di quella data sono in Italia il 55,63%. Gli edifici che necessitano di manutenzione straordinaria sono il 38,14%. Se si tiene conto che le scuole nel nostro paese sono all’ incirca 42.000, stiamo parlando in termini assoluti di 16.000 edifici. Le scuole ospitate in stabili progettati come scuole sono il 73, 38%, le altre stanno in abitazioni (4,77%), caserme (1,44%), edifici storici (13,58%). Quasi il 7% degli istituti di istruzione è ospitato in edifici che non rientrano in nessuna delle categorie prima indicate.C’è un problema di sicurezza, c’è un problema di manutenzione e c’è un problema di decoro dell’ istituzione scolastica. Un paese tuttavia non può vivere di emergenze. Deve essere in grado di proiettarsi in avanti e se c’è un luogo dove il rapporto tra passato e futuro acquista la concretezza della vita individuale che cresce e si forma, questo è proprio la scuola. Il rapporto tra le generazioni non è un mero avvicendarsi dei giovani ai vecchi. I giovani sono il progetto dei vecchi. Perché nei nostri figli possiamo riconoscere degli eredi dobbiamo trasmettergli sapere e valori morali. È questo legato, insieme intellettuale e morale, che tiene insieme le generazioni. Nient’altro. Quando dilegua un patrimonio culturale si spezza anche il legame concreto tra padri e figli.Un edificio scolastico racconta una storia. È un testo che trasmette un patrimonio di cultura; l’immagine che una società intende tramandare di sé ai propri eredi. Come la scuola, l’edificio che la contiene educa. E come il maestro, l’architetto insegna.Per questo è necessario pensare ad una architettura per la scuola che sia all’altezza del suo compito.Un edificio scolastico deve certo rispondere a delle caratteristiche peculiari, che sono quelle della sua destinazione. Del tipo particolare delle persone che lo abiteranno, gli insegnanti e i loro allievi. Ha tuttavia una valenza simbolica, che non può e non deve essere trascurata. È un edificio pubblico, destinato a durare nel tempo e che assume un ruolo preciso nei confronti del contesto urbano. È un edificio che si oppone alla povertà culturale di costruzioni concepite esclusivamente sulla base di idee di comfort e di funzionalità. Impone una ricerca di stile e di soluzioni architettoniche che è al tempo stesso un dialogo con le forme del passato. Riguardo a queste forme, l’architettura per la scuola si interroga intorno alla loro riconoscibilità in termini di bellezza. Il compito dell’ architettura per la scuola è progettare un’ istituzione bella.Obiettivo della nostra campagna sono le scuole elementari, luoghi della Nazione. Si tratta di farne un censimento fotografico, chiamando gli stessi maestri, con i mezzi a loro disposizione (camere digitali, telefonini, videocamere) a farsi fotoreporter dello stato dei luoghi dell’ educazione. E con le immagini chiediamo ai maestri di mandarci le loro idee. Che scuola vorrebbero, che rapporto dovrebbe instaurarsi tra i luoghi e la psicologia dei bambini, che cosa è in grado di indicare la loro esperienza agli architetti, come concepiscono il rapporto tra pedagogia e architettura. Tutte queste domande rivolgiamo ai maestri perché siamo convinti che sono i maestri ad avere in mano la chiave del problema scolastico. Nei luoghi documentati dagli insegnanti verranno poi inviati fotografi professionisti, pensando ad un vero e proprio viaggio per immagini nell’ Italia scolastica dei nostri anni, dal Nord al Sud.Si costituirà così la base documentaria per una mostra nazionale da intitolarsi Le scuole degli italiani. La mostra sarà l’occasione per bandire un concorso a premi per giovani architetti a favore del progetto di una scuola elementare italiana di nuova concezione.Italia Futura farà pressioni per impegnare il governo e il ministero della Pubblica istruzione alla realizzazione del progetto giudicato vincitore da un’apposita commissione nazionale. Il progetto verrà realizzato nella città dell’ architetto prescelto.