giovedì 26 agosto 2010

DON MILANI: PER FORTUNA NON FU L'UNICO MAESTRO

di Valerio Vagnoli


Fu un prete ultratradizionalista e mai e poi mai avrebbe sostenuto, come abbiamo visto nella citazione, una contrapposizione con la Chiesa fino al punto da esserne cacciato, perché alla fine era l’unica istituzione che gli permettesse di stare tra i poveri avendo nei loro confronti un ruolo doppiamente egemone: quello di pastore e quello di educatore, ruoli che trovavano una sintesi essenziale in quello di guida di una comunità come la minuscola Barbiana. Anzi, come notò a suo tempo Pier Paolo Pasolini, la curia fiorentina non avrebbe potuto fargli dono di una parrocchia a lui più consona. Anche perché, questo è però un mio pensiero, quella gente di montagna corrispondeva in pieno a quello che per lui era il testo chiave del suo cristianesimo. Un testo che si contestualizzava, guarda caso, proprio in un’altra montagna: quella delle beatitudini.
Inoltre, a uno come lui, dal carattere intrattabile e spesso isterico e violento (non solo nel linguaggio), prepotente e sprezzante con chi non rientrasse nelle sue grazie, per niente incline a misurarsi con umiltà nei confronti di chiunque, neanche con i poveri, la Chiesa offriva quello che nessun’ altra esperienza gli avrebbe potuto garantire: una sponda in grado di permettergli una personale “gestione” di profondi sensi di colpa che egli si portava dietro e che senz’altro trovavano uno dei riferimenti essenziali nelle proprie radici familiari. Sugli aspetti del suo carattere non possiamo prescindere, tra le tante altre testimonianze, dalla bellissima lettera che il 25 gennaio del 1966 gli indirizzò l’arcivescovo di Firenze, Ermenegildo Florit, insigne biblista e, ironia del destino, figlio di un minatore e fratello di contadini, uno dei quali morto sul lavoro. Scrive, tra le altre cose, Florit: “Tu potrai magari scuotere le coscienze, ma resta vero che l’aceto converte pochi, e una goccia di miele ogni tanto attirerebbe forse più anime a Dio...Tu, don Milani, sei per natura un assolutista, e rischi di produrre, specialmente tra i più sprovveduti di cultura e di fede, dei veri classisti, di destra o di sinistra non importa... Il fatto poi che sei rimasto per anni parroco di Barbiana, credo che sia dipeso da questo: i tuoi superiori hanno creduto di non riconoscere in te la necessaria disposizione alla carità pastorale, ma piuttosto lo zelo fustigatore che ti fa apparire dominatore delle coscienze prima ancora che padre.”
L’ingresso nella Chiesa gli permise di riconoscersi costantemente e direi quasi esclusivamente nei Vangeli (soprattutto e non a caso quello di Matteo), nei quali avrebbe ritrovato riferimenti pressoché esclusivi per la sua esperienza pastorale “dalla parte degli ultimi”, tesa a riscattarli culturalmente e cristianamente (in lui i due termini finivano per coincidere) dal fardello dell’umiliazione storica e umana in cui erano relegati. Infatti, alla cancellazione delle sue origini ebraiche si accompagnò in lui quella, pressoché totale, del Vecchio Testamento.
Riconobbe essenzialmente nello Stato il maggior responsabile dell’abbrutimento in cui si trovavano i contadini e gli operai. Quando si trattò di attaccare la scuola, attaccò con forza e disprezzo quella statale e non quella religiosa, che allora più di oggi prosperava attraverso strutture floride e solide. Mi spiego meglio: se don Milani fosse stato interessato alla promozione scolastica dei suoi ragazzi, li avrebbe potuti mandare in qualche scuola privata di religiosi, come gli Scolopi fiorentini, ove operava un altro uomo di chiesa, padre Balducci. Il quale, anche se impegnato nella formazione religiosa e sociale dei rampolli della borghesia democristiana fiorentina e per questo poco stimato da don Milani, aveva tuttavia la giusta sensibilità per valorizzare il retroterra culturale di ragazzi che magari sapevano come figliavano i “coniglioli”, ma ignoravano del tutto, per esempio, “i parenti di Enea”, identificando il prete di Barbiana in questa definizione una cultura classica inutile, mnemonica, priva di senso e soprattutto di attinenza col presente. No, a don Milani non interessava solo la promozione dei suoi figlioli, né si preoccupava abbastanza delle frustrazioni a cui li sottoponeva mandandoli agli esami con evidenti lacune nei programmi statali, comuni, allora più di oggi, a tutti gli studenti italiani. A don Lorenzo Milani interessava anche far scoppiare lo scandalo legato alla distanza che lo Stato manteneva nei confronti delle “barbiane” italiane e dei loro abitanti. Obiettivo nobile e condivisibile, allora come oggi, ma di cui non erano certamente responsabili i docenti e i dirigenti di quelle scuole (definiti da lui poco cristianamente “bestie e boia”) in cui andavano a dare gli esami, bocciando, i suoi “figlioli”.
Questi docenti, malgrado la violenta polemica del prete fiorentino, non promuovendo gli studenti di Barbiana perché impreparati, invece di trattarli in modo diverso dagli altri, non facevano altro che il loro dovere e rispettavano la deontologia essenziale che uno Stato laico richiede ai suoi dipendenti. Erano studenti realmente svantaggiati socialmente e culturalmente, ma assolutamente inadeguati, in virtù della preparazione che la scuola di don Lorenzo aveva dato loro, a superare gli esami che servivano per diventare maestri.
Ma a don Milani questo non interessava: anzi, la sua idiosincrasia nei confronti della scuola di Stato era tale che finiva col prendersela, e in modo davvero pretestuoso e pretenzioso, anche con i giovanissimi docenti precari dei vari doposcuola mugellani, in primis quelli di Vicchio, perché secondo lui, impreparati e scioccamente portati a far giocare e divertire i bambini dei doposcuola, facendoli così diventare - secondo lui - poco più che dei cretini. Dietro tanto astio, verrebbe da pensare che vi fosse in lui il risentimento per una carriera scolastica non proprio brillante prima dell’entrata in seminario.
Bersaglio delle sue polemiche diventavano anche le stesse supplenti che il primo giorno di nomina arrivavano in ritardo nelle scuole di montagna, oltre a stigmatizzare in generale, il fatto che i docenti, anziché rimanere celibi e nubili, si sposavano, togliendo così tempo alla scuola alla quale avrebbero dovuto invece votarsi completamente; come, questo però era solo sottinteso, aveva fatto lui e soltanto lui!
No, per don Milani la scuola di Stato era in mano a maestri irresponsabili e viziati, anche perché piccolo-borghesi e geneticamente vicini alla classe dominante e neghittosamente distanti dai poveri e dagli ultimi, destinati dalla scuola statale a subire, in linea di massima, solo umiliazioni. Vale invece la pena di ricordare come, negli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, la scuola statale italiana diventò finalmente di massa raggiungendo per la prima volta e spesso con risultati straordinari, i bambini di tutte le barbiane italiane. Proprio negli anni in cui don Milani tuonava contro i docenti italiani, migliaia e migliaia di maestre e maestri passavano gli inverni, talvolta senza neanche tornare a casa per il fine settimana, in camere di fortuna dei molti paesini italiani in cui avevano avuto la sede di insegnamento; di solito in affitto dal parroco o dal bottegaio, quando nei borghi sperduti delle montagne e delle campagne vi era traccia di una bottega, oppure in casa di contadini. Tutto ciò accadeva anche nel suo Mugello, come ancora possono testimoniare le persone che sono vissute in quegli anni in certi borghi mugellani oggi quasi scomparsi e allora, al pari di Barbiana, dimenticati da dio e dagli uomini.
Don Lorenzo aveva mille ragioni nel condannare le ingiustizie e le disuguaglianze a svantaggio dei poveri, soprattutto della campagna. Ma sulla visione del mondo cittadino, don Milani nutriva, in generale, le diffidenze tipiche di certo populismo e pauperismo cattolico e non solo cattolico, che incontriamo in personalità distantissime che vanno, per citare solo due nomi, dal Savonarola al Pascoli, entrambi portati a vedere la città come luogo di perdizione e di egoismo. Ma credo fermamente sia da respingere in toto il ruolo che egli affidò alla “sua” scuola affinché si potessero, tramite essa, superare tali prepotenti e inammissibili condizioni di arretratezza.
In generale egli pensava che la scuola dovesse, giustamente, essere aperta a tutti, rispettando le diversità culturali che i ragazzi si portavano dietro, perché un ragazzo figlio di contadini, solitamente, aveva minori opportunità di riuscire negli studi rispetto al figlio di un medico o di un insegnante. Ma la soluzione che egli propose, una scuola, cioè, che dovesse abbassarsi alla mediocrità culturale dei più svantaggiati, avrebbe finito col creare delle ulteriori profonde ingiustizie. Ed è andata proprio così, in virtù del largo seguito che certe istanze donmilaniane hanno avuto tra i docenti, tra i pedagogisti e financo tra uomini e donne di primissimo piano della politica italiana, soprattutto di quell’area che, tanto per intenderci, chiameremo catto-comunista; area, quest’ultima, che sul piano della didattica ha, in questo Paese, assolutamente un ruolo ampiamente egemonico da almeno quattro decenni.
C’è, onestamente, dell’imbarazzo, nel dover constatare che è stata presa sul serio la “pedagogia” di un maestro che riteneva, per esempio, “nemico dei poveri” un intellettuale come Ugo Foscolo (e che intellettuale! Uno dei pochi tra i nostri, sovente piaggiatori, cortigiani e questuanti, che ebbe il coraggio di affrontare la miseria e l’esilio piuttosto che venire a compromessi, anche minimi, col potere); e questo perché, come affermò il priore di Barbiana con totale convinzione, se li avesse amati avrebbe scritto in modo più chiaro e tale da essere compreso anche da loro. Insomma, don Lorenzo, paradossalmente, finiva col nutrire scarsissima fiducia nelle capacità dei poveri. Li riteneva, in qualche misura, incapaci di confrontarsi con una cultura (peraltro la sua, della sua famiglia, della Chiesa e della classe dirigente in generale) diciamo così, alta, e comunque ineludibile se si vuol aspirare a diventare, come invece aveva evidenziato Antonio Gramsci, classe dirigente.
Per inciso, vale la pena di ricordare che don Lorenzo non parlò mai della scuola come mezzo (forse anche oggi l’unico, ovviamente fra quelli leciti, se vi si applicasse però il principio del merito) per poter permettere, anche ai poveri, un’ascesa sociale. A dire il vero, il priore di Barbiana, come accenno ancora più avanti, non auspicò mai un riscatto sociale ed economico per i poveri. Pensò ad essi esclusivamente come poveri, ai quali era stato negato il diritto di vedersi riconosciuta la loro dignità e la loro cultura; e quest’ultima andava assolutamente salvaguardata e valorizzata prima che quella borghese, “americana” e consumistica la cancellasse del tutto, impedendogli così di sapere, con orgogliosa consapevolezza, che il vangelo era dalla loro parte e che a differenza dei ricchi e dei crapuloni si sarebbero salvati: “Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: «Pipetta hai torto. Beati i poveri perché il Regno dei Cieli è loro»".
Anche se don Milani non riuscì a vedere, e forse fu per lui una fortuna, la profonda rivoluzione economica e sociale che di lì a poco avrebbe completamente svuotato le montagne e le campagne, non fu minimamente sfiorato dal dubbio che solo col benessere anche i poveri avrebbero avuto maggiori possibilità di veder cambiato, in meglio, il proprio destino. Certo, a scapito della perdita della loro cultura e della loro “innocenza”, diciamo così, antropologica.
Chissà cosa sarebbe accaduto se il destino gli avesse permesso di vivere a lungo e di assistere allo sfacelo di quei valori, anche evangelici, a cui aveva dedicato metà della sua vita. Chissà quali approdi gli avrebbe riservato il futuro, e fra questi non è da escludere che avrebbe potuto proseguire la sua missione pastorale, al pari di alcuni suoi amici di seminario, nel Terzo mondo e da lì, probabilmente, avrebbe fatto in tempo ad assistere ad un’altra fuga, di altri poveri, verso una città ancora più grande delle “temute “Prato e Firenze. Una città corrispondente ad interi continenti, ove quei poveri sarebbero andati alla ricerca, come i suoi vecchi parrocchiani di un tempo, di una vita più dignitosa e più giusta, anche a costo di perdere la loro “purezza”, la loro cultura, il loro passato e, troppo sovente, la loro stessa vita.
Ma tornando brevemente al Foscolo, non posso tacere sulla profonda emozione che provocò in tutti noi studenti di prima media (sez. E, anno 1964, scuola Leonardo da Vinci di Lastra a Signa, quasi tutti figli di operai e contadini e quasi tutti provenienti da alcune tra le tante barbiane della Toscana e dell’Italia di allora), l’analisi che del Foscolo ci venne proposta da parte della nostra bravissima insegnante, che ci fece alla fine imparare a memoria alcuni fra i suoi sonetti più belli e più vicini all’animo preadolescenziale di noi ragazzi. Personalmente devo a quei sonetti una parte importante nella formazione della mia anima civile e culturale, di cui peraltro vado ancora oggi assai fiero, tanto per usare un termine foscoliano. E ringrazio quei docenti, soprattutto delle elementari e delle medie, che non rimasero ammaliati dal nostro “primitivismo” e pensarono bene di metterci di fronte ad una cultura alta, impegnativa, senza sconti e decisamente in grado di darci uno spessore critico, a dodici anni, oggi assolutamente impensabile anche in classi terminali di ordini di scuola superiori. Avevamo un passato fin troppo antico alle nostre spalle per non essere attratti dal futuro che si apriva davanti ai nostri occhi, non solo con la televisione, ma anche attraverso l’incontro con “ i parenti di Enea”, l’orgoglio di Dante, la pazzia di Orlando, i capricci del Barone di Rondò e con tutti gli altri antichi miti e cavalieri che ci aiutavano a sognare un mondo migliore e più giusto, lontano però dalle nostre montagne, proprio come stava facendo Ulisse, di cui leggevamo le avventure accompagnandolo nel suo viaggio quasi come se si stesse ancora svolgendo.
Altro che nemico dei poveri, povero Foscolo! Nemico dei poveri è colui che, ai poveri, preconfeziona una scuola misurata essenzialmente sulla contemporaneità, su una visione del sapere basato quasi esclusivamente sulla concretezza e sul criterio, insomma, che pur di non bocciare debba rinunciare ad essere “difficile”, perché una scuola che boccia è una scuola classista, secondo quanto propugnava don Milani e secondo quanto propugnano i suoi numerosi seguaci. Seguaci che spesso tra i meriti, gli riconoscono anche quello di esser stato il primo a sperimentare una didattica, diciamo così, circolare, ove ognuno avesse da insegnare e da imparare dagli altri.
Don Milani, almeno su questo aspetto didattico, non fu un innovatore e su questa struttura circolare della didattica, Firenze aveva sperimentato ben prima e con ben altri maestri quello che alcuni seguaci di don Milani gli riconoscono, invece, come modello didattico esclusivo. Casomai c’è da dire che la didattica “partecipata e collettiva” nella scuola di Barbiana, per dirla con Sebastiano Vassalli, poteva spesso diventare, anche a suon di scapaccioni e ceffoni, vero e proprio indottrinamento.
Che don Milani amasse visceralmente la propria scuola è scontato, e la amava con tanta consapevolezza da essere lui stesso convinto che il suo modello non poteva essere esportato, tantomeno nella scuola statale; tutt’al più, sosteneva, poteva essere fatto proprio da qualche altro prete, si badi bene, di montagna, poiché era evidente che il mondo delle campagne stava già scivolando, inesorabilmente, verso le città, e scomparivano quelle lucciole che si sarebbero portate via secoli di pura miseria e di spaventosa medievale soggezione, che non sarebbe stata certo salvaguardata da qualche scuola di montagna improntata ai valori di testimonianza e fede evangelica.
C’è tuttavia in lui, come era pur presente in un altro dei maggiori tra i nostri intellettuali, Pasolini, anch’egli assai vicino al Vangelo di Matteo ed anch’egli incline ad una visione dei poveri di stampo populista[1], un atteggiamento decisamente illuminista che si ritrova innanzitutto nella splendida prosa dei suoi pamphlet; sebbene il parroco di Barbiana ci voglia far costantemente credere che essi fossero il frutto di quel lavoro circolare e collettivo che si sperimentava (anche) nella sua scuola. Per inciso, così fosse stato, avremmo probabilmente avuto, dopo la sua morte, altri scritti di tanta straordinaria bellezza, anche espositiva, che invece non ci sono stati.
Ma torniamo all’anima illuminista che egli ebbe e che si agitò anch’essa dentro di lui in maniera contraddittoria e conflittuale, fino ad essere, ovviamente, cancellata dal “sacerdote-maestro”. Prendiamo a titolo estremamente esemplificativo quanto egli scrive ad un amico informandolo delle dinamiche che delineano i rapporti tra i suoi “studenti” di San Donato: “Di comune hanno poco... fuorché un bel progresso che han fatto nel cercare di rispettare la persona dell’avversario, di capire che il male e il bene non sono tutti da una parte, che non bisogna mai credere né ai comunisti né ai preti, che bisogna andar sempre controcorrente...”.
Insomma, una linea culturale e didattica senz’altro di chiaro stampo illuminista; che tuttavia quasi sempre scompare ogniqualvolta predomina il maestro autoritario e dogmatico che - non ebbe neanche lui stesso difficoltà ad ammetterlo - in fondo egli fu. Scrive in una lettera del ’59: “Non so se è un errore il fatto di piacere a Malagodi, ma è un fatto che quando si parla di scuola le persone che meglio mi intendono sono i liberali, quelli liberali davvero però... Eppure il presupposto da cui prendiamo il via è diametralmente opposto: io parto sapendo già la Verità, loro partono in quarta contro quelli che sanno già la verità. Ma la maniera di concepire la scuola è identica: un’assoluta indifferenza per i dogmi. Loro non li rammentano mai perché non ci credono. Io non li rammento mai perché ci credo”.
Quello che don Milani scriveva, e pensava, era assolutamente vero: un certo modo di concepire la scuola era lo stesso dei liberali: libera in ogni senso dal monopolio dello Stato per entrambi, ma decisamente distante nei fini. Da una parte una scuola che si propone di formare delle coscienze quanto più possibile libere, autentiche e animate dal dubbio, dall’altra il prevalere delle verità assolute e incontrovertibili. Nella scuola di Barbiana, infatti, conta “solo l’opinione del maestro e chi non è d’accordo se ne va”, scrive don Lorenzo in una delle sue lettere, finendo così per rappresentarla alla stregua di quella conchiglia che sembra godere di una autonomia e di una vivacità motoria non riscontrabile in nessun’ altra, salvo poi scoprire che ad agitarla e a darle vita è il crostaceo che vi abita dentro.
Egli fu un maestro che senza vincoli e laccioli creò una scuola che rispondeva, come già detto, ad un fine ben delineato e ad un contesto irripetibile e destinato a non lasciare, malgrado i suoi sforzi, altri veri maestri; come ben sa un accorto studente di prima liceo, la storia è destinata, come gli individui, a non ripetersi.
Il problema è che a non saperlo sono molti tra coloro che dai pellegrinaggi a Barbiana si portano dietro, insieme alla struggente suggestione di un mondo che pur palpitò con forza e passione anche da quei monti (e questo palpito don Lorenzo Milani ebbe il grande e innegabile pregio di testimoniarlo ai coetanei e ai posteri), la certezza che quell’esperienza didattica debba diventare, o continuare ad essere, una sorta di esempio da perpetuare soprattutto nelle scuole che si rivolgono agli umili e agli ultimi con dei risultati a volte esilaranti, se non avessero per oggetto dei bambini, per lo più svantaggiati - non certo gratificati - dall’essere poveri. Si può portare a esempio una puntata dell’Infedele del marzo 2007 proprio dedicata a don Milani. La trasmissione ruotava intorno alla tesi per cui i nuovi poveri di Barbiana sono i figli degli immigrati. Per le maestre presenti in studio e per lo stesso conduttore, era fuori discussione che una classe scolastica composta in gran maggioranza da ragazzi extra-comunitari costituiva una ricchezza per tutti, sia per i ragazzi stranieri che per quelli italiani. A niente erano valse le analisi critiche dell’allora ministro dell’Istruzione Fioroni, che ricordava come una situazione del genere finisse, invece, col penalizzare tutti gli studenti. Ma la trasmissione era stata evidentemente preconfezionata secondo un cliché molto milaniano e di fronte ai rilievi del ministro scattò più volte la risentita affermazione del conduttore, Gad Lerner, secondo la quale in studio era presente il meglio della scuola italiana. Insomma, la trasmissione sanciva ancora una volta come sia stata fatta acriticamente propria da certa cultura, anche politica, l’esperienza scolastica che negli anni cinquanta e sessanta si realizzò intorno ad un maestro difficile, autoritario, dogmatico, ma decisamente carismatico come don Milani .
Don Lorenzo non amava i ricchi e i potenti, malgrado li utilizzasse, quando occorreva, perché aiutassero i suoi ragazzi, che raccomandava a qualcuno di loro ogniqualvolta poteva essere utile. Un privilegio, questo, non da poco, se si pensa che quasi tutti gli interlocutori di don Lorenzo Milani erano ben disponibili a farsi carico delle richieste del sacerdote e ben inseriti anche nel potere politico democristiano che, almeno a parole, egli dichiarava di amare pochissimo.
Si dice che quando veniva a Firenze nella borghesissima casa della madre in via Masaccio, anziché dormire in camera preferisse riposare su una brandina collocata in cantina. Quando fu invece ricoverato, alla fine dei suoi giorni, in ospedale, accettò il ricovero nel reparto paganti, ove ebbe riservate ben tre stanze, una delle quali serviva da anticamera in cui alcuni dei suoi fedelissimi selezionavano i visitatori.
Don Lorenzo non morì a Barbiana; passò i suoi ultimi giorni a casa della mamma, ma non in cantina, a conferma che anche nell’intransigente prete di Barbiana vi fu posto per quelle umane contraddizioni che alla fine rendono i santi ancora più umani e forse proprio per questo più santi. Tuttavia egli fu sinceramente e innegabilmente, anche se a suo modo, vicino ai “suoi” poveri. Ma, come dicevo all’inizio, pur odiando i ricchi e i potenti (vale la pena ribadire che egli proveniva da una delle famiglie più ricche e potenti della Firenze dei primi decenni del secolo scorso), non mise mai in discussione la struttura della società, pur essendo un convinto nemico della civiltà industriale (si veda Esperienze pastorali) e della società del benessere.
Mise invece in discussione la scuola che umiliava i poveri escludendoli, non tanto dall’ascesa sociale, dato che don Milani non auspicava in questo campo, come già detto, alcuna rivoluzione, ma da una cultura che desse loro dignità. Egli riteneva che si dovesse valorizzare il mondo contadino riconoscendo a quel mondo una forte autorevolezza culturale, finendo così per identificare il concetto di cultura con quello più specifico di antropologia culturale.
Perciò la scuola pubblica aveva, per lui, il dovere di accogliere questa cultura per valorizzarla e valorizzare contemporaneamente i suoi ragazzi, ma la cultura tradizionalista della scuola di Stato non contemplava tra i suoi interessi l’esaltazione di quella cultura e, pertanto, non poteva che essere da spazzar via perché nemica dei poveri.
Come ho già detto, don Lorenzo Milani non metteva in discussione il concetto di povertà, forse perché era consapevole che in una società “americana” sarebbe venuto meno il ruolo stesso del prete e della Chiesa, ma riteneva che in questa condizione si trovasse rispecchiata l’umanità più cara e vicina a Cristo. Egli voleva che i montanari e i poveri in generale fossero in grado di misurarsi con i padroni senza alcuna forma di soggezione; dovevano, insomma, imparare ad essere orgogliosi delle loro condizioni e a non essere dei vinti figli di vinti e padri di vinti, salvo non cadessero nella trappola dell’ambizione e della rincorsa ai modelli del benessere, come pure era accaduto a “Bruno... di preferire di fare lo schiavo, anzi il caporeparto, calpestando... il mio lavoro di sedici anni per insuperbirlo”.
Ma, ribadisco, quando don Milani indica come si dovesse costruire questa strada, il disastro didattico è senza ritorno, perché la soluzione che egli propone è essenzialmente quella di una scuola che si abbassi alla concretezza di chi è più svantaggiato, sottomettendolo, in barba ai più elementari principi pedagogici, ad una scuola priva di vacanze, aperta anche la domenica e dalla durata giornaliera di almeno una decina di ore senza alcun intervallo e senza alcun divertimento, fosse pure la ricreazione, come nelle scuole dei più rigidi regimi.
A tale proposito si avverte, leggendo i suoi scritti, che le fughe da parte dei bambini dalla “sua” scuola, non erano infrequenti. E si avverte altresì il paziente lavoro di mediazione che la sua perpetua era costretta a fare con quei genitori che rivendicavano dei risultati e delle aspettative migliori per i propri ragazzi e, forse, anche una maggiore comprensione da parte del loro parroco che accampava sui loro figli una sostanziale egemonia , non solo educativa.
Egli riteneva - e la sua non era certamente una novità, soprattutto nel panorama cattolico fiorentino di allora - che l’unica salvezza fosse nella povertà e che dovessero essere i valori cristiani a dover finalmente creare un’alternativa all’immoralità di una società che si stava irrimediabilmente perdendo. E questa alternativa poteva nascere solo se quel mondo, le barbiane, appunto, d’Italia, fosse stato in grado di resistere alla corruzione di quei modelli che anche attraverso la nuova cultura di massa, la nuova “fiera delle vanità”, si stavano sempre più imponendo. Questa resistenza passava attraverso un percorso scolastico nuovo che avrebbe dovuto formare maestri del tutto diversi, provenienti proprio da quel retroterra col fine di rappresentarlo, di dargli dignità e, malgrado tutto, immobilità.
Egli era fermamente convinto che per diventare buoni maestri occorresse conoscere la montagna con i suoi secoli di oppressione e di sofferenza, scrivere in modo scarno e senza fantasia, avere preparazione sindacale, essere intraprendenti e aver avuto il coraggio d’andare all’estero per imparare le lingue, saper leggere il giornale, sapere come figliano gli animali e così via. Insomma, nuovi maestri formati ad un modello scolastico che, partendo dalla valorizzazione di ciò che è vicino al ragazzo povero, rimanga poi costantemente legato ad una cultura ove l’astrazione lasci il posto all’esperienza diretta e il passato alla contemporaneità.
Eppure, come ho scritto più sopra, molte maestre e maestri di quegli anni contribuirono a cambiare il volto di questo nostro Paese, sapendo calare le loro istanze pedagogiche nelle tante realtà sociali ed economiche che allora più di oggi differenziavano l’Italia. Ogni frazione, ogni Barbiana ebbe la sua scuola (si stringe il cuore alla vista di borghi di montagna abbandonati con le loro chiese sconsacrate e con i ruderi di vecchie aule ancora riconoscibili) e nelle scuole serali centinaia e centinaia di migliaia di contadini, pastori, operaie e operai, braccianti, massaie e ragazze andavano o tornavano a scuola, nei dopocena, ad imparare a leggere e a scrivere e a conoscere meglio quel nuovo mondo che si stava affermando e col quale volevano misurarsi con dignità e consapevolezza. Ed erano le maestre e i maestri a presentar loro quella nuova realtà; maestre e maestri spesso poco più che ragazzi che per raggiungere, di notte, quei borghi e quei paesi, erano sottoposti a sacrifici a cui un Paese veramente interessato al proprio passato dovrebbe rendere più di un tributo.
Mi corre, invece, l’obbligo di sottolineare come il disprezzo che don Milani manifestò nei confronti dei docenti della scuola di Stato contribuì, oltre a far nascere nell’opinione pubblica una mentalità ancora oggi assai ostile nei loro confronti, a far passare in secondo piano, o forse a cancellare del tutto, il lavoro grandioso che la scuola italiana portò avanti, quasi sempre con risultati straordinari, negli anni a cui facevo sopra riferimento.
Manca, insomma una ricostruzione storica precisa di quello che accadde negli anni Cinquanta e Sessanta nella scuola elementare e media, quest’ultima nel frattempo diventata unica e obbligatoria, a testimoniare come la crescita civile di questo Paese trovasse proprio nella scuola l’elemento cruciale affinché si passasse da un medioevo diffuso ad un Paese moderno, meno povero e anche per questo meno umile rispetto ai poteri di ogni risma che fino ad allora avevano dominato. Di sicuro dovremmo non perdere l’occasione per raccogliere, finché siamo in tempo, le testimonianze di quei docenti che, oggi ancora in vita, vissero quella sorta di epopea che ritroviamo, per esempio, in certe pagine di Zanotti Bianco e nella struggente, e oramai introvabile, testimonianza di Maria Giacobbe, maestra ad Orgosolo negli anni Cinquanta, impegnata ad aprire a quelle bambine e a quei bambini della Barbagia l’anima lebia de sos nostros piseddos, come ebbe a dire di lei un vecchio del luogo.
Leggendo quelle pagine ci si potrà rendere conto di quanto ci siamo permessi di liquidare a proposito della storia sociale e culturale del nostro recente passato. Da quel che mi risulta in nessuna dichiarazione o relazione che parli di scuola fatta da uno dei tanti politici e pedagogisti che in questi decenni sono andati a rendere omaggio e a trovare foscolianamente ispirazione sulla tomba di don Lorenzo Milani, a Barbiana, vi è un pur minimo accenno a quel mondo e a quel contesto di cui parlavo poco sopra. E chissà quali altri frutti potevano scaturire da quelle scuole e da quei maestri, se essi avessero avuto a disposizione i mezzi e le conoscenze del parroco di Barbiana: egli aveva, lo ripeto, dei referenti politici di primo piano e tutti quanti legati ad una corrente della Democrazia cristiana assai potente e ben radicata, in particolare, nel contesto fiorentino.
Altro che riconoscimenti al contributo che i docenti, in particolar modo quelli delle elementari e della media unica, hanno portato allo sviluppo culturale e civile di un Paese distrutto dalla guerra e da secoli di arretratezza e sfruttamento! Il più delle volte gli estimatori del priore esaltano la sua figura e la sua opera in chiave polemica con la scuola statale e i docenti, rei, questi ultimi, di non prendersi, o di non essersi presi adeguatamente a cuore i problemi dei ragazzi come invece aveva fatto il parroco di Barbiana. Senza contare, ovviamente, che alcuni di questi estimatori hanno avuto e continuano ad avere ruoli di primo piano nella politica nazionale, e in virtù di questi loro ruoli hanno fatto di tutto, per fortuna riuscendovi solo in parte, per fare della scuola italiana, in dispregio a quanto don Milani pensava, una sorta di grande e squalificato doposcuola!
È innegabile che il “mito” del priore di Barbiana abbia le sue radici anche nel movimento degli studenti italiani che, alla fine degli anni Sessanta videro in lui, giustamente dal loro punto di vista, il precursore della contestazione del modello scolastico tradizionale e il vero grande propugnatore di una scuola che avrebbe dovuto garantire, a tutti, quello che qualche decennio più tardi sarà orribilmente definito il successo formativo.
Forse altri, e dal loro punto di vista anch’essi giustamente, videro in lui il modello di leader autoritario e autorevole che avrebbe avuto tanta fortuna nei movimenti rivoluzionari di quegli anni, ed altri ancora vi possono anche aver visto un fautore della lotta di classe che gli studenti invocavano davanti alle fabbriche ove gli operai, più che sentirsi gratificati da tanto sostegno, sognavano per i loro figli un futuro da studenti.
Penso, infine, che uno dei motivi per cui la figura del prete di Barbiana abbia avuto e continui ad avere un così largo credito in quella particolare componente politico-culturale definita di matrice catto-comunista, sia legato anche alla necessità che alcuni hanno di riconoscersi in guide autoritarie e dogmatiche in grado di dargli certezze, al punto di permettergli di coniugare tranquillamente e di far coabitare dentro di sé e nella propria visione del mondo l’anima, diciamo così, infantile e cattolica con quella iniziatica e giovanile del comunismo. Comunque sia, è assai singolare come molti trovino nell’opera e negli scritti di don Milani uno degli esempi più alti di educazione agli ideali di libertà, senza rendersi conto che essi eventualmente sono trasmessi da un maestro tra i più autoritari e manichei che la scuola ricordi.
È noto l’episodio della piccola piscina ancora oggi visibile, costruita a Barbiana dai ragazzi più grandi, e che doveva servire esclusivamente ad imparare a nuotare. Uno dei primi giorni in cui la “piscina” era già diventata praticabile, alcuni bambini (il priore si era distratto a parlare con un altro prete già suo compagno di seminario che era andato a trovarlo e che qualche anno più tardi avrebbe raccontato l’episodio ai suoi studenti della magistrali, tra i quali c’ero anch’io) si erano messi a sguazzare divertendosi come si può divertire un bambino che per la prima volta entra, insieme a dei compagni, in una pozza d’acqua. Il priore, l’episodio è accennato anche nei suoi scritti, ebbe uno dei suoi violenti scatti d’ira, perché in quella scuola, nella sua scuola, non ci si poteva permettere il divertimento, il perdere tempo e lo scimmiottamento dei ragazzini borghesi: la piscina doveva infatti servire esclusivamente ad imparare a nuotare!
Lo scatto d’ira del priore turbò non poco l’antico compagno di seminario, prete e docente assillato costantemente dal dubbio e animato dall’umano rispetto per i deboli animi di ciascuno di noi. Infatti non delineò a nessuno dei suoi studenti, come fanno i migliori tra i maestri, cammini e destini da compiere o comportamenti esemplari, ma ci insegnò la delicata arte del cercare di capire gli altri nei loro aspetti peggiori, l’equilibrio incerto della quotidianità e la conquista paziente di una felicità, anche attraverso il gioco e il divertimento, che rende più accettabile la vita. Ma tutto ciò non era contemplato nel programma educativo del priore di Barbiana.
Un’ ultima riflessione a proposito della rimozione pressoché totale che è stata fatta sia da certi politici che da tanti docenti a proposito dei numerosi elementi “pedagogici” assolutamente inaccettabili e pericolosi che pur animarono l’insegnamento di don Milani. Le rimozioni non rappresentano soltanto un bisogno di semplificazione, ma lasciano trasparire un animo infantile e superficiale tipicamente improntato al rifiuto di una realtà spiacevole. Il non voler vedere il peggio di quanto si cela nel pensiero e nelle azioni degli uomini e dei maestri che abbiamo preso a modello è quanto di più indicativo di come il “talento sia sottomesso troppo spesso alla passione”. D’altra parte molte persone amano visceralmente i loro “eroi” senza metterli in discussione, perché amando loro amano incondizionatamente e semplicemente anche se stessi. Altro discorso, come sottolineava il sacerdote compagno di seminario di don Lorenzo, è amare gli altri anche per gli aspetti meno belli e apprezzabili che possono essere presenti in chi si ama. Dote questa, che è assolutamente richiesta nell’amicizia e nella professione di maestro e che era spesso assente nel priore di Barbiana.

[1] Quando non lo fu, nel crudo romanzo postumo Petrolio, più o meno s’impone il silenzio da parte dei suoi antichi cultori, a conferma di quanto il populismo sia ben recepito da certa cultura progressista nazionale.

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