lunedì 30 dicembre 2013

I RAGAZZI E LA SFIDA DELLA RESPONSABILITÀ

di Silvia Vegetti Finzi
(da La lettura, supplemento del “Corriere della Sera” di domenica 29 dicembre 2013)  
Marco non ha mai fatto pace con la scuola. Per lui star seduto nel banco è una tortura assurda, una camicia di forza cui opporsi in ogni modo, dimenandosi, disturbando i compagni, facendo il pagliaccio. Che bello far ridere tutti! Genitori e insegnanti reagiscono rimpallandosi la responsabilità. Per gli uni l'insegnamento è troppo noioso, per gli altri la famiglia di Marco troppo sbilanciata. Al padre assente corrisponde una presenza materna dilagante e oppressiva.  Il duello tra casa e scuola esonera il bambino dall'assumere le proprie responsabilità. Nella sua testa l'insuccesso scolastico riguarda gli adulti, è un problema loro. E questi, finché dura la scuola dell'obbligo, cercano di minimizzare, di reagire cambiando istituto o sperando che, con l'età, le cose si aggiustino. Ma alle superiori può accadere che, da problema marginale, l'insuccesso scolastico di Marco si trasformi in fallimento esistenziale. Il preside manda a chiamare i genitori (di solito si presenta solo la madre) ed espone il problema: il ragazzo non ce la fa. Non si tratta di rimediare a qualche brutto voto, ma proprio di un fallimento strutturale. A questo punto occorre chiedersi "perché", individuare le cause per trovare le risposte. Ma la responsabilità, evitata prima, si presenta ora come senso di colpa, come se al fallimento del figlio corrispondesse quello dei genitori. Così inteso, il fallimento viene vissuto come una catastrofe anziché come un momento di crisi, come una rincorsa che consente di saltare più avanti e più in là. Molto diverso l'atteggiamento assunto dai genitori e dagli insegnanti anglosassoni che considerano l'andar male a scuola una crisi che si può e si deve superare, anche scegliendo un corso di studi più pragmatico e più breve. Che cosa provoca questo divario? Il fatto che spesso da noi la funzione materna - caratterizzata dal contenere, comprendere, giustificare - non è temperata da quella paterna, cui compete invece distinguere, separare sostenere le dinamiche di autonomia e indipendenza dei figli. L'amore parentale, se non viene governato da una strategia evolutiva, diviene adesivo, confusivo, paralizzante. Solo chiedendo ai ragazzi di assumere progressivamente le loro responsabilità potremo renderli capaci di gestire un eventuale fallimento, inserendolo in una prospettiva di vita mobile e complessa, dove si può vincere e perdere, cadere e rialzarsi perché si è consapevoli che le esperienze, adeguatamente elaborate, costituiscono l'unica, vera scuola di vita.
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lunedì 16 dicembre 2013

PER I “BISOGNI EDUCATIVI” MENO BUROCRAZIA E PIÙ SERVIZI ALLA DIDATTICA

Intervento di Giorgio Ragazzini del Gruppo di Firenze all'incontro-dibattito La normativa sui bisogni educativi aiuta la scuola?, tenutosi giovedì 12 novembre a Firenze. 

1. L’illusione procedurale 
Negli anni novanta si cercò di impiantare nelle elementari e nelle medie una metodologia di origine industriale, la programmazione per obbiettivi. Per ogni materia e anche negli ambiti comuni alle diverse discipline, si dovevano stabilire decine di obbiettivi e sotto-obbiettivi, da calendarizzare, corredare di mezzi e strumenti  e poi verificare nel corso dell’anno. E questi obbiettivi esondarono poi nelle schede di valutazione, al punto che i colleghi delle elementari ne dovevano valutare ben 44 a quadrimestre, fino a quando Berlinguer (almeno in questo – va detto – benemerito) fece piazza pulita. C’era chi mi diceva “Beh, finalmente anche certi insegnanti saranno costretti a lavorare”. Ma naturalmente non era così: si potevano produrre bellissime programmazioni, magari scopiazzandole qua e là, che poi rimanevano sulla carta.
Questa moda pedagogica mi è tornata in mente per una caratteristica che la accomuna con le disposizioni di cui ci occupiamo oggi (e potrei citare altri esempi, come il fallito tentativo di introdurre il cosiddetto “portfolio delle competenze”). Ed è l’illusione, che definirei “procedurale”, per cui i problemi si possono risolvere attraverso un insieme di prescrizioni, con un iter burocratico. Si varano delle linee guida, si costituisce una molteplicità di gruppi e comitati (non importa se pletorici e di scarsa qualificazione), si fa riferimento a organismi di supporto non si sa quanto già esistenti e quanto futuribili, infine si riunisce il Consiglio di Classe, che, tenendo conto di tutto questo, dovrebbe decidere se fare o no il PDP, il piano didattico personalizzato.
Come altre volte in passato, ho la sensazione che dietro l’impalcatura delle norme, che rischia di riuscire solo a gravare gli insegnanti di adempimenti burocratici, ci sia la convinzione ministeriale che altrimenti molti docenti non abbiano la volontà, più ancora che la capacità, di fare qualcosa per aiutare gli allievi in difficoltà e che quindi debbano essere costretti a lavorare secondo una metodologia dettata dal ministero o meglio da un gruppo di pedagogisti che ruotano intorno al ministero.

2. Motivare e demotivare. 
Questo ci porta direttamente a porsi una domanda: al ministero lo sanno che in qualsiasi organizzazione uno dei compiti della dirigenza è quello di saper motivare chi ci lavora, tanto più se si tratta di un mestiere tra i più difficili e logoranti (anzi uno dei tre mestieri “impossibili”, diceva Freud)? Sembra proprio di no, perché da molto tempo a questa parte hanno fatto di tutto per ottenere il risultato opposto, l’aumento della disaffezione e dello scoraggiamento!
Cito solo l’episodio più clamoroso: dopo una brutale riforma pensionistica, sulle cui conseguenze quanto a stress professionale il Miur non ha sentito l’esigenza di fare almeno un’indagine, un ministro della pubblica istruzione è arrivato a certificare ufficialmente di fronte alla nazione che quello dei docenti è un part time, per cui è ovvio e perfettamente lecito aumentargli - su due piedi - di un terzo l’orario di lavoro, s’intende senza incrementi retributivi di sorta.
Da questo punto di vista, quale messaggio danno la direttiva e le circolari sui BES? Potenziano e sostengono i docenti? Li valorizzano? O li rendono più preoccupati, più incerti, più timorosi di possibili ricorsi, più inclini a risolvere i problemi abbassando ulteriormente l’asticella?
Preoccupazioni e interrogativi che (anche un po’ inaspettatamente) sono  simili a quelli di un pedagogista come Maurizio Tiriticco, sostenitore convinto di individualizzazione, personalizzazione, insegnamento per competenze e didattica laboratoriale, che ritiene superflua e anzi dannosa questa normativa. Dopo aver notato che a questo punto qualsiasi cosa può diventare un BES, dice: 
“Invece di intimidire i nostri insegnanti come se fossero degli sprovveduti di fronte ai bisogni educativi di ogni tipo, si  provveda a sostenerli stanziando le necessarie risorse!
Dopo decenni di tagli, vogliamo anche colpevolizzarli perché sarebbero incapaci di affrontare situazioni di disagio?
Intimidiamoli con i Bes, e il gioco è fatto!!!
L’amministrazione è salva!   
E ancora:  “Poiché per  ogni alunno BES occorre un Piano di Studi Personalizzato, quindi orientato a competenze di livello inferiore a quelle delle Indicazioni Nazionali, il rischio è che…l'ignoranza dei nostri studenti e dell’intera popolazione aumenti!!! 
E infine: “Si vuole andare verso una scuola “più facile?”.

3. La responsabilità del discente 
Il terzo punto a cui vorrei accennare è la scomparsa dei ragazzi svogliati. Dove sono finiti? Risposta: non sono scomparsi, sono diventati tutti, senza eccezione, ragazzi che la scuola è incapace di motivare. In altre parole, siamo passati in poco tempo da un’istituzione che esigeva l’impegno degli allievi e  si interrogava troppo poco su se stessa, a quella di oggi che ritiene sempre un proprio fallimento l’insuccesso scolastico. Nella riflessione pedagogica ministeriale e nei suoi provvedimenti, l’iper-responsabilizzazione della scuola è andata di pari passo con la più o meno completa de-responsabilizzazione dei ragazzi. Manca del tutto e da tempo il tema dell’impegno, della volontà, dello sforzo che la scuola deve richiedere, pena l’abdicazione dalla sua funzione formativa.
Torno brevemente a Freud e ai tre mestieri impossibili, che sono governare, educare, psicoanalizzare. In che senso Freud diceva che sono impossibili? Lo diceva nel senso che il risultato non è garantito senza la collaborazione del soggetto a cui è rivolta l’attività del governante, dell’educatore, dello psicoanalista. Era una messa in guardia rispetto alle illusioni di onnipotenza. Il ferro, il legno, l’argilla, materiali dei mestieri “possibili”, possono essere manipolati a piacimento; i bambini no, per non parlare degli adolescenti. Ci vuole anche la loro partecipazione attiva.
Naturalmente è ovvio che parte integrante dei compiti dell’istituzione educativa è la ricerca di un suo continuo miglioramento, tuttavia è essenziale che ogni ragazzo abbia il sentimento della responsabilità individuale rispetto ai propri successi e ai propri insuccessi. Adolfo Scotto di Luzio scrive a questo proposito che abbiamo a che fare con una pedagogia in cui “l’esito è concepito non come il risultato – da conseguire, e dunque sempre incerto –dell’impegno di un individuo in carne e ossa, ma come lo sbocco prevedibile di un sistema ben congegnato”. Qualcosa di molto simile all’illusione di cui ho parlato all’inizio.
Allora io faccio fatica a comprendere che cosa significa fare un Piano Didattico Personalizzato a uno studente che si rifiuta di studiare. Anche perché contemporaneamente viene sempre più accarezzata l’idea luminosa di garantire la promozione a tutti, eliminando così anche quel tanto di deterrenza costituita dall’ “inutile”, anzi “dannosa” e soprattutto antieconomica bocciatura. Con l’ulteriore vantaggio che in questo modo il problema sparisce. Poi ci sarebbe un’alternativa alla ripetenza così com’è, ma non è il caso di parlarne in questa sede.

4. La crisi ignorata 
Ma se allarghiamo lo sguardo, vediamo che dall’orizzonte della pedagogia ministeriale non è assente soltanto il tema dell’impegno. È assente in blocco il tema dell’educazione in senso proprio; e lo è anche nella direttiva e nelle circolari sui BES. Nelle quali i “bisogni educativi” sono in realtà sinonimi di “difficoltà di apprendimento”, mentre paradossalmente non viene sfiorata neppure per un attimo proprio la crisi dell’educazione. Non pochi bambini arrivano alla scuola dell’infanzia senza aver fatto minimamente i conti con il principio di realtà, che dell’educazione è il fondamento. E di cosa è fatta la realtà? È fatta della presenza degli altri bambini con cui bisogna imparare a convivere; è fatta di regole da rispettare affinché la scuola funzioni, di limiti ai desideri individuali. Questo accade perché molti genitori, disorientati dall’assenza di una tradizione educativa condivisa e spesso afflitti dalla paura di non essere abbastanza amabili, sono stati indotti – come scrive il pediatra e psicanalista Aldo Naouri – a trasmettere ai figli un messaggio opposto al principio di realtà: «Non solo puoi avere tutto, ma ne hai anche diritto».
Privi di una sufficiente educazione di base, questi bambini diventano un grosso problema per la scuola; e tanto più lo sono i cosiddetti “bambini tiranni”, quelli che hanno preso il potere in famiglia e che cercano di imporre anche in classe la loro volontà: tendono a fare quello che vogliono, non sanno stare fermi, non “danno retta”, come si dice a Firenze, e quindi fanno perdere un’enorme quantità di tempo e di energie agli insegnanti. Diventano poi preadolescenti intrattabili e supponenti nelle scuole medie e spesso naufragano alle superiori.
Mi chiedo: con questo tipo di bambini e di ragazzi che vanno male a scuola perché non abituati alla costanza dell’impegno in vista di un risultato; che non stanno attenti perché tutti presi da se stessi, con cui probabilmente è già fallito più di un tentativo di interessarli, quale Piano Didattico Personalizzato è immaginabile, se non quello di abbassare gli obbiettivi fin quasi al livello zero?
Sono anzi convinto che una causa non secondaria di molte forme di “BES” e della loro cronicizzazione sia proprio la rimozione di questo tema da parte del governo della scuola e della cultura pedagogica prevalente. E si illude chi pensa che i problemi di comportamento possano essere completamente riassorbiti da una didattica più accattivante, più moderna.
È quindi indispensabile che, sia pure con grave ritardo, la scuola a tutti i livelli, a partire dal vertice, si faccia carico in modo esplicito e responsabile del problema educativo, nella convinzione che si tratta delle fondamenta stesse della formazione.
Sentite cosa dice l’Ocse nella sua analisi dei dati PISA 2012. Cito dalla sintesi che si trova sul sito dell’Associazione Docenti Italiani (ADi): 
(Focus n. 4) La disciplina della classe sembra avere grande influenza sul livello degli apprendimenti. Dove la disciplina è allentata, gli insegnanti sprecano tempo e gli studenti non sono concentrati anche a causa delle numerose interruzioni.
A queste conclusioni PISA è arrivata a partire dai dati di tutte le rilevazioni; 
(Focus 32) La maggior parte degli studenti è contenta quando c’è la disciplina in classe.  [Quindi si sta meglio a scuola, si ama di più la scuola] 
Le classi in cui vige la disciplina di solito hanno risultati migliori, indipendentemente dalle condizioni socio-economiche degli allievi. [Con la disciplina, una scuola più giusta socialmente]
In sostanza abbiamo una riforma a costo zero a disposizione solo che la si voglia e la si persegua con perseveranza: una scuola che ridia autorità agli insegnanti e sappia fare l’interesse dei ragazzi riscoprendo e coltivando la virtù della fermezza educativa. E riscoprendo anche il ruolo delle sanzioni, previste in ogni modello educativo che sia tale.
Pochi giorni fa ho letto un libro-intervista a Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano, a cura di un giornalista del Manifesto, a cui lo stesso intervistato collabora. A un certo punto Recalcati sostiene che esiste senza dubbio “il diritto a essere puniti”, facendo naturalmente trasecolare l’intervistatore. E spiega: Ti faccio l’esempio di una mia paziente cleptomane che ruba nei supermercati. […] Il suo passaggio all’atto del furto è l’invocazione che esista un adulto, qualcuno, un padre, un poliziotto, una cassiera, che le dica: “Fermati, hai rubato!” […]
Ecco, anche un allievo “onnipotente” spesso non desidera altro, in fondo, che essere fermato.

5. Un’alternativa 
Detto questo sul fronte educativo, vengo infine a un abbozzo di modello alternativo a quello che ci viene proposto da queste norme per affrontare le difficoltà di apprendimento. È molto semplice. Fare come nelle altre professioni: quando un medico generico si trova in difficoltà si rivolge o a un collega più esperto di lui o a uno specialista, oppure invia a quest’ultimo il paziente. Uno psicoterapeuta va dal suo supervisore e gli chiede consiglio su quel certo caso.
Quindi anche nella scuola, via le formalità burocratiche, via le procedure, via i Piani Annuali per l’Inclusività e tutto quello che rischia di essere solo generico e declamatorio; sì  all’estensione di qualificati servizi di consulenza (il logopedista, lo psicologo, il neuropsichiatra, l’assistente sociale). Con formalità ridotte al minimo e naturalmente nel rispetto dei due diversi ruoli. Da un modello, quindi, che per più motivi appesantisce il lavoro dei docenti a uno che lo alleggerisce e lo sostiene. È quello che avviene, per esempio, in Finlandia, dove gli insegnanti possono consultare frequentemente figure di supporto e appunto di consulenza.
Vale anche la pena di ricordare che soprattutto nella scuola secondaria manca un elemento essenziale della cultura professionale, che invece dovrebbe essere intensamente promosso, cioè il sistematico confronto di carattere seminariale, dunque fra pari, come fonte di arricchimento, di scambio di esperienze, come base dell’aggiornamento e come occasione di aiuto reciproco nell’affrontare i casi difficili.
Infine, questa impostazione tiene conto, a differenza di quella prospettata da queste norme, del fatto che molto spesso le difficoltà di apprendimento di un ragazzo si radicano in situazioni esterne alla scuola, soprattutto nella situazione familiare; ed è ovviamente in queste situazioni, più che direttamente sul piano didattico, che si deve cercare di intervenire  con assistenti sociali, psicologi e servizi educativi esterni.
Ecco, penso che sia in questa direzione che dovremmo far sentire la nostra voce. 

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mercoledì 27 novembre 2013

VALUTAZIONE: DI QUALE MERITO PARLIAMO?

Intervento di Giorgio Ragazzini al convegno Educare alla critica: quale valutazione? organizzato da Unicobas, Unicorno L'AltrascuolA e Liceo Mamiani di Roma, 26 novembre 2013 

Il merito come eccellenza e il merito come serietà 
Quando si parla di puntare sul merito come leva del progresso sociale e civile, ci si riferisce in genere alla valorizzazione dei più bravi; in altri termini, alle cosiddette “eccellenze”. Dico subito che valorizzare i migliori in tutti i campi è giusto e soprattutto necessario, perché la società di oggi e quella che domani sarà dei nostri figli ha bisogno di eccellenti professionisti, imprenditori, politici, tecnici, scienziati, studiosi; e non solo perché operino al meglio ciascuno nel proprio settore, ma anche perché  con la loro azione, con il loro esempio, con i loro scritti, con il loro insegnamento trasmettano alle nuove generazioni, al più alto livello possibile, il nostro patrimonio culturale. Questo per il merito come eccellenza. Ma per la società è altrettanto importante il riconoscere e valorizzare il merito di chi svolge con impegno e serietà il proprio compito, qualunque esso sia. Coltivando i propri talenti, quali che siano. Impegnandosi per fare bene le cose che fa. Purtroppo in Italia il merito come serietà è, se possibile, ancora più misconosciuto del merito come eccellenza. Eppure si tratta di qualcosa che tiene letteralmente insieme la società. Ora, chi fa il proprio dovere verso la società può avere un solo, ma fondamentale premio o riconoscimento: quello di non essere trattato come chi il proprio dovere non lo fa; di non veder tollerare i disonesti e gli incapaci da chi avrebbe la responsabilità di richiamare i primi ai propri compiti (e se necessario sanzionarli) e di proteggere dai secondi chi può avere un danno a causa della loro incapacità. Considero questo un tratto fondamentale di una società più giusta. 

Il merito nella valutazione dei docenti: due priorità   
In linea di massima queste considerazioni valgono anche per la scuola. Anche alla scuola si possono applicare le due idee di merito: come eccellenza e come serietà. Ma la questione della valutazione dei docenti va posta con grande concretezza e con altrettanto buon senso. Dobbiamo avere ben chiari tanto i vantaggi per il sistema scolastico, quanto i possibili effetti indesiderati. 
Per cominciare, è ovvio che quando si insiste sulla valutazione dei docenti si punta a migliorare la qualità media del corpo insegnante. Propongo perciò di partire da questa domanda: per migliorare la qualità della scuola italiana è più utile individuare e premiare economicamente i migliori insegnanti oppure lavorare perché tutti i docenti siano almeno “sufficientemente buoni”? A me pare molto più sensato puntare sulla seconda prospettiva. Dal punto di vista dell’interesse generale, infatti, è dubbio che la qualità media dei docenti crescerebbe premiando chi già lavora molto bene e senza dubbio continuerà a farlo anche senza premi,  in quanto motivato dalle soddisfazioni professionali che ottiene. D’altra parte, le esperienze di altri paesi, per esempio quella del Regno Unito, segnalano una controindicazione che questo tipo di valutazione comporta rispetto al clima che si viene a creare all’interno delle scuole: individuare i docenti più meritevoli (e sorvolo qui sull’attendibilità dei metodi per farlo) significa in pratica tracciare una linea che li separa da quelli appena meno meritevoli e comunque da chi fa dignitosamente il proprio lavoro, con il risultato di demotivare dei buoni insegnanti. Oltre a tutto in questi ultimi si acuirà la consapevolezza di essere retribuiti esattamente quanto quel certo collega assenteista o incapace di cui tutti si lamentano. Questa diversità di retribuzione a parità formale di lavoro tende quindi a danneggiare la possibilità di costruire in ogni istituto un clima positivo e collaborativo e di conseguenza anche quella comunità professionale, la cui assenza viene lamentata da molte parti soprattutto nella scuola secondaria.
Quali sono invece le leve che promettono di essere effettivamente in grado di migliorare quello che è il principale patrimonio della scuola in ogni tempo, il cuore dell’offerta formativa, cioè il corpo insegnante?  A nostro parere le due priorità, restando in tema di valutazione, dovrebbero essere due. La prima riguarda il merito come eccellenza, ma intesa in senso diverso, cioè come possesso di ulteriori talenti utili alla scuola, oltre alla capacità di docente in senso stretto. Se non appare produttivo, come ho detto, premiare gli insegnanti migliori a parità di lavoro (tra l’altro non mi pare che in nessun altro settore si sia presa questa strada: si premiano i migliori tra i giudici? I medici e gli infermieri più bravi?), sarebbe invece utilissimo e urgente selezionare tra gli insegnanti le nuove figure professionali indispensabili per un governo efficiente delle scuole autonome (questo sì, in analogia con altre professioni). In altre parole, la scuola ha bisogno di docenti capaci sul piano organizzativo, di responsabili delle attività di aggiornamento, di altri che seguano la formazione dei nuovi insegnanti, magari tramite distacchi all’università, che curino i servizi alla didattica, che coordinino gli interventi di integrazione degli stranieri e dei disabili e via dicendo. In una situazione di risorse molto scarse, gli investimenti necessari per la creazione di questo “ceto di governo” sarebbero a nostro avviso molto più remunerativi rispetto alla politica delle “eccellenze” come sperimentata, non a caso con difficoltà, dal ministero. Non ci si può più accontentare di soluzioni come le funzioni strumentali, mal retribuite e affidate a volte a colleghi bravissimi, ma più spesso a chi è dotato solo  di buona volontà, quasi sempre in assenza sia di una seria progettazione che di una verifica del lavoro svolto. Naturalmente ci saranno tanti ottimi docenti che vorranno continuare a insegnare e basta. 
La seconda leva l’ho già accennata in apertura, è quella che, insieme a una maggiore selettività  in entrata, servirebbe a garantire insegnanti “sufficientemente buoni” a tutti i ragazzi, cioè una valutazione di minima  adeguatezza. In altre parole ci dovrebbe essere la possibilità di prendere provvedimenti  tempestivi e risolutivi nei casi di conclamata inadeguatezza oppure di grave o ripetuta scorrettezza professionale di un docente. Sappiamo tutti bene che oggi non è affatto così. Spesso un pessimo insegnante viene tutt’ al più trasferito da una scuola all’altra: con quale miglioramento per il sistema è inutile sottolinearlo. Anche quei dirigenti che vorrebbero tutelare gli studenti coinvolti,  attualmente si scontrano con una carenza di strumenti e con lungaggini procedurali, e spesso finiscono per darsi per vinti o di rinunciare in partenza di fronte allo stress e alle frustrazioni a cui vanno incontro. Non ignorare il “demerito” significherebbe invece riconoscere indirettamente il merito di tutti quei docenti che fanno almeno dignitosamente il loro dovere e spesso molto di più, un po’ come una lotta efficace all’evasione fiscale rende giustizia e dà soddisfazione ai contribuenti corretti.
Per ammettere che sia giusto basta riflettere sul fatto che nessuno di noi è disposto a farsi curare da un medico notoriamente incapace.  Il fatto che non si ponga rimedio ai casi in cui siamo al di sotto della sufficienza è deleterio per il prestigio della scuola pubblica, per quello della categoria e soprattutto per i ragazzi con cui hanno a che fare. Il superamento di questo vero e proprio tabù costituirebbe un importante passo verso la doverosa rivalutazione della categoria,  che ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione culturale della nazione e che ha al suo interno grandissime risorse di intelligenza, di esperienza e di passione civile che attendono di essere valorizzate anziché mortificate.
Non è certo difficile individuare i docenti che proprio non vanno, anche perché sono spesso oggetto di lamentele e proteste da parte dei genitori. Ma sarà comunque necessario “oggettivare” queste situazioni con una qualche procedura: e io vedrei la soluzione più ovvia in una rinnovata funzione ispettiva, che non a caso è stata letteralmente smantellata negli ultimi decenni. Mentre nel Regno Unito ci sono 1500 ispettori e in Francia 3000  in Italia ce ne sono solo 100. Nel Lazio uno. In Toscana nessuno. Eppure il necessario complemento dell’autonomia scolastica è un sistema efficiente di controlli, come in generale la responsabilità è il pendant della libertà.
Perché la cultura del controllo di legalità è così carente in quasi ogni settore? Io credo che, per una serie di motivi storico-politici e ideologici che non ho il tempo elencare, il rigoroso rispetto delle regole è stato associato non alla giustizia e alla libertà, come sarebbe ovvio perché sulle regole si basano, ma piuttosto all’autoritarismo, all’oppressione dello Stato o delle classi dominanti;  e addirittura alla mancanza di umanità; chi fa rispettare una regola viene spesso percepito come poco sensibile o comprensivo.
A questo punto credo di avere risposto dal mio punto di vista alle domande posteci dagli organizzatori,  per quanto riguarda la valutazione dei docenti. Certo, comprendo benissimo le riserve e le resistenze alla valutazione quando sento questo o quell’esperto sostenere come pacifica la possibilità di valutare  gli insegnanti in base ai risultati dei propri allievi.
Ma quando un’esigenza si afferma, è bene prendere un’iniziativa, fare delle proposte concrete, dire dei sì, che legittimino anche alcuni no, altrimenti c’è il rischio di trovarsi a combattere le stesse battaglie nelle condizioni meno favorevoli. Riassumendo, la proposta del mio gruppo è semplice: da un lato cominciare dal basso la valutazione degli insegnanti, affinché agli studenti italiani, se non potranno mai avere insegnanti tutti eccellenti, possiamo garantirne di “sufficientemente buoni” o adeguati che dir si voglia; dall’altro fare in modo che la crescente complessità della scuola possa essere governata e arricchita da nuove specializzazioni della funzione docente. 
Grazie dell’attenzione.
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lunedì 18 novembre 2013

TOSCANA: IL RISCATTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE

È  molto apprezzabile che la Regione e l’USR, di fronte all’alto numero di bocciati e di abbandoni nelle prime classi degli istituti professionali, malgrado il percorso integrato,  abbiano deciso di sperimentare un nuovo modello, anche se non in più di dieci classi degli istituti alberghieri toscani. Purtroppo, questa loro disponibilità non ha per ora incontrato quella di altre scuole e di altri dirigenti scolastici. Così le classi che sperimentano questo nuovo percorso sono quelle di due soli  istituti professionali:  il Vasari di Figline con una   e il Saffi con due.
Il nostro percorso complementare è ispirato a quello  già da tempo avviato in alcune scuole del Veneto, tuttavia con  qualche importante variante, almeno sul piano della strategia didattica. La più significativa di queste consiste senz’altro nell’offrire ai ragazzi l’opportunità di potersi misurare, soprattutto in prima e seconda, con un maggior numero di ore dedicate alle discipline tecnico-pratiche, sottratte a materie come italiano e matematica, eliminando  fisica e chimica a vantaggio delle discipline centrate sull’esperienza pratica. In terza, gli studenti potranno recuperare le competenze di base quando avranno saputo trovare le giuste motivazioni e gli opportuni  equilibri cognitivi per poter finalmente comprendere e utilizzare in modo consapevole e appropriato  i contenuti fondamentali di materie come lettere e matematica. E sempre in terza, saranno attivati corsi aggiuntivi per   far acquisire le altre competenze di base in fisica e chimica, non studiate in prima e seconda, per chi desidera rientrare l’anno successivo, in quarta, nel percorso dell’istruzione. 
   Tale recupero avverrà diminuendo   le ore delle  discipline tecnico-pratiche, che rimangono tuttavia numerose e già privilegiate in prima e seconda classe,  e  corroborate, sempre in terza, dalle attività di stage.
  Il percorso complementare, inoltre, potrebbe permettere  a quegli studenti del corso tradizionale, che nei primi mesi di scuola si trovino a vivere situazioni di demotivazione per non aver  trovato quello che si aspettavano, di poter passare al percorso maggiormente professionalizzante. Tuttavia, a conferma di quanto in didattica non vi debbano essere asserzioni categoriche e definitive o presunzioni di aver trovato formule risolutive, mi preme informarvi che in queste settimane ho negato ai due studenti  ripetenti e iscritti al percorso statale che me l’avevano chiesto, la possibilità di trasferirsi nel complementare. Infatti ho pensato che si debba evitare che il nuovo modello possa apparire  come una scorciatoia e una sorta di refugium peccatorum, perché tutti i percorsi formativi devono avere pari dignità,  anche se un po’ tutti, in questi decenni,  abbiamo  contribuito a trasmettere l’idea completamente opposta, e cioè che al vertice del nostro sistema formativo vi siano i licei e poi a scendere i tecnici, i professionali e infine la formazione professionale.
 Ai due ragazzi ho chiesto d’impegnarsi per essere promossi e l’anno prossimo potranno così accedere   al complementare.
 Ad oggi una delle due mie classi prime dimostra, in buona sostanza, i problemi canonici dei professionali: e cioè una buona parte dei ragazzi si caratterizza per una scarsa scolarizzazione, nel senso di mancanza del necessario adattamento ai requisiti di atteggiamento e di metodo che la scuola richiede.  La stessa situazione di questa mia classe si riflette in quella di Figline Valdarno come mi ha fatto presente il collega Marchetti col quale ci confrontiamo frequentemente anche su questo percorso.
Tuttavia, per entrambe le classi non sussistono grossi problemi disciplinari  che sono invece  tipici delle altre. Tanto per fare un esempio, se nelle prime “statali” chiamiamole così,  i  provvedimenti disciplinari sono all’ordine del giorno, queste nostre due prime,  pur essendo composte da ragazzi da scolarizzare, come sopra abbiamo visto, tuttavia forse proprio in virtù del maggior numero di ore in laboratorio, quindi di una loro maggior soddisfazione personale, riescono a mantenere un comportamento decisamente gestibile.
Se l’esiguo numero delle classi non ci autorizza ad esprimere giudizi definitivi ( non  a caso non approfondisco la realtà dell’altra prima in assoluto la migliore tra le tredici), tuttavia questi elementi devono incoraggiarci ad andare avanti e magari  a potenziare questa sperimentazione  aumentando ulteriormente le ore di laboratorio in prima e in seconda e anche aumentando, se le scuole lo chiederanno, il numero delle classi.   
A mio parere sarebbe davvero opportuno che la Regione Toscana continuasse a scommettere, anche per altri indirizzi, sul modello complementare, magari snellendone l’apparato gestionale, e  credo sia un danno profondo  aprire ai ragazzi  la strada della formazione professionale solo a 16 anni e sempre dopo che questi hanno ripetutamente fallito il percorso dell’istruzione. Un sistema del genere    finisce col trasmettere loro la consapevolezza che la formazione professionale è un percorso per falliti e di conseguenza si continua ad alimentare la distorta mentalità che approdare ad un lavoro manuale è una strada riservata ai perdenti.
    Occorre davvero ribadire che i percorsi tradizionali costringono gli studenti a seguire 12-13 discipline, che sarebbero senz’altro insopportabili e didatticamente insostenibili anche per gli stessi percorsi liceali. A questo proposito, permettetemi di non gioire affatto per l’ora in più di Geografia che è stata recentemente introdotta dal Decreto scuola. I Tecnici e soprattutto i Professionali hanno bisogno di ben altre modifiche dei loro piani di studio. Sono anzi convinto che la prospettiva più giusta  sia quella di andare verso la fusione a livello nazionale dell’ Istruzione professionale statale e della formazione professionale regionale: una fusione basata in maniera accentuata sull’alternanza scuola-lavoro. E di questo obiettivo a mio parere dovrebbero essere proprio le regioni a farsene carico anche perché la Costituzione, come sappiamo, assegna questa materia  alla competenza regionale. E in una auspicabile rivoluzione di questo ambito, sarebbe davvero importante non rinunciare all’aspetto forse più originale del nostro Complementare; e cioè quello di recuperare i valori della cultura astratta soprattutto nell’ultimo anno, anche perché allora i ragazzi saranno in grado di legare questi saperi al saper fare e sapranno riconoscerne così l’importanza anche in riferimento al loro futuro.
Siamo tutti convinti che  dietro a  ogni lavoro, qualunque esso sia, vi è sempre un progetto di vita: progetto di vita che, invece, è difficile individuare in quelle migliaia e migliaia di ragazzi che sono letteralmente espulsi, in particolare dagli istituti professionali, in mezzo alle strade, nei giardini di qualche periferia e frequentemente verso l’incontro con forme di trasgressione destinate, per dirla con Umberto Saba, ad aprire loro “solchi di dolore”: scuole che pur adottando tutte le strategie didattiche possibili non potranno tuttavia coinvolgere ragazzi e ragazze che nelle scuole, appunto, non trovano la misura giusta e idonea alle loro attese, ai loro veri talenti e perché no, alle loro stesse difficoltà che sappiamo benissimo da dove, nella maggioranza dei casi, esse provengono. E spiace constatare che il modello integrato, da quel che mi risulta oltre alla mia personale esperienza, anche a  livello nazionale non riesce a soddisfare questa fondamentale  esigenza e spiace anche constatare che ha dei costi veramente molto alti, non solo sul piano dell’evasione scolastica. Ha infatti  dei costi pesantissimi anche nello sviluppo dell’economia che potrebbe trovare proprio in un’adeguata formazione professionale l’investimento migliore  per rilanciare mestieri e professioni che fanno parte della nostra tradizione e del nostro potenziale economico e culturale: non sto naturalmente pensando solo alle professioni legate all’enogastronomia e all’ospitalità, ma anche a quelle artistiche e artigianali. Valga fra tutti l’esempio della liquidazione degli istituti d’arte che inseguendo il presunto maggior prestigio dell’istruzione liceale, sono stati, appunto, letteralmente eliminati. E anche su questo sarebbe necessario, soprattutto in Toscana, per i motivi che tutti  noi conosciamo, adoperarsi per non disperdere definitivamente saperi, competenze e maestri che rappresentano un patrimonio irrinunciabile. A tale proposito so che proprio qui a Firenze si sta pensando  di chiedere la possibilità di inserire all’interno dei licei artistici derivati dagli istituti d’arte, provvisti quindi dei laboratori e delle competenze necessarie, un percorso triennale professionalizzante nell’ambito dell’artigianato artistico. Ci stanno lavorando la dirigente dell’Istituto di Porta Romana e due colleghi del Gruppo di Firenze.
Come mi diceva, quand’ero ragazzo, un vecchio maestro artigiano (e che maestro!) un mestiere non si impara a 18 anni perché a quell’età è tardi per poter sperare di diventare, almeno in molti campi, un bravo professionista. Non a caso, tanto per fare degli esempi, la danza, la musica lo sport si iniziano da piccoli e solo iniziando da ragazzi si ha la possibilità di poter diventare in questi settori dei professionisti. Allo stesso modo non ci preoccupiamo se i ragazzi a 14 anni scelgono il liceo: decisione che spesso rappresenta anch’essa una scelta di vita definitiva, in quanto iscrivendosi ai licei si rischia di ipotecarsi il futuro con inutili  anni di università che costringono sempre più spesso e sempre in numero maggiore i nostri giovani-adulti a dover  poi subire lavori di scarso appeal e  che non richiedono una  specifica  preparazione.
 Non dobbiamo perciò temere di avviare  un ragazzo verso la formazione professionale fin dai suoi 14 anni; il diploma al quarto anno del complementare e la possibilità del quinto anno “integrativo” che apre agli studenti della formazione professionale l’ opportunità del diploma  di Stato quinquennale, rappresentano ottime occasioni per permettere a chi lo voglia, di continuare gli studi. D’altra parte ci incoraggiano verso una scelta del genere le esperienze del Trentino, ma anche numerosi esempi europei tra i quali il grosso successo di quello tedesco che assicura ai giovani un lavoro qualificato e, come accennavo sopra, un consequenziale progetto di vita.
 Insomma, non dobbiamo aver paura di educare un ragazzo fin dai suoi 14 anni al lavoro; dobbiamo aver paura, anzi il terrore, di non educarlo affatto.
Valerio Vagnoli
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giovedì 17 ottobre 2013

SE OCCUPA L'ASSESSORE

Gentile Direttore,
non si finisce mai di stupirsi: all’inizio della scuola fu il ministro Carrozza. Proprio il capo del dicastero dell’istruzione ha invitato gli studenti a ribellarsi ai genitori, ai prof e alla scuola. Ora su “Corriere Fiorentino” leggo che l’assessore all’educazione Cristina Giachi apprezza gli studenti che occupano la loro scuola, vuole “farsi educare” da loro ed è disponibile ad andare a discutere con gli occupanti, invece di proporre un incontro solo dopo che le lezioni siano riprese regolarmente. C’è da rimanere sgomenti nel constatare come si rivolge ai giovani chi dovrebbe dare esempio di consapevolezza del proprio ruolo di adulto e di rappresentante delle istituzioni.  Due anni fa io e un gruppo di colleghi scrivemmo una lettera agli studenti in una situazione analoga, sottolineando che la scuola deve favorire e valorizzare l’interesse dei giovani per la dimensione politica, a condizione però che le forme di protesta siano credibili e non vadano mai a scapito della legalità e del regolare svolgimento delle lezioni. Tanto più che sono spesso esigue minoranze a prendere queste decisioni, come hanno testimoniato tanti studenti in questi anni e anche in questi giorni. È sconfortante, quindi, che dei rappresentanti delle istituzioni considerino le occupazioni alla stregua di diritti acquisiti degli studenti, invece di richiamarli alla responsabilità e al rispetto delle regole. I giovani  non hanno bisogno di trovare negli adulti la compiacenza, ma un solido punto di riferimento, che li richiami costantemente alla necessità di rispettare le istituzioni democratiche e i diritti degli altri. Nella scuola, interrompere e impedire le lezioni significa  anche penalizzare i propri compagni, soprattutto quelli più svantaggiati. Non sarebbe più serio invitare i ragazzi a trovare altre forme di protesta in momenti diversi dall'orario scolastico?
Come esempio di come ci si può rivolgere alle giovani generazioni ricordo  il discorso  che Barack  Obama fece  agli studenti nel 2009 all’inizio dell’anno scolastico. Ne riporto solo un breve, ma significativo passaggio:  
“Alla fine noi possiamo avere gli insegnanti più appassionati, i genitori più attenti e le scuole migliori del mondo: nulla basta se voi non tenete fede alle vostre responsabilità. Andando in queste scuole ogni giorno, prestando attenzione a questi maestri, dando ascolto ai genitori, ai nonni e agli altri adulti, lavorando sodo, condizione necessaria per riuscire”.
Ci piacerebbe che chi si occupa di istruzione qualche considerazione del genere, almeno sporadicamente, la proponesse ai giovani e non lasciasse da soli docenti e dirigenti a far fronte a riti ripetitivi che poco hanno a che fare con l'intelligenza creativa e innovativa che dovrebbe essere propria del mondo giovanile. 
Valerio Vagnoli 
Dirigente scolastico 
Gruppo di Firenze 
(“Corriere Fiorentino” del 17 ottobre 2013) 
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sabato 5 ottobre 2013

LA RELAZIONE DI VALERIO VAGNOLI AL CONVEGNO DELLA GILDA SU SCUOLA E LAVORO

In attesa che si avveri la mitica età dell’oro, a cui, sotto diverse specie, molti si sono riferiti in questi decenni, converrebbe che governanti e responsabili delle strutture portanti della nostra società si abituassero a guardare la realtà e a interpretarla  per quello che essa è, secondo il noto monito di Machiavelli. Invece, dalla fine degli anni sessanta in poi, in molti settori tra cui la scuola, si è affermata sempre di più la tendenza a sognare. Piuttosto che leggere e  interpretare la realtà per renderla progressivamente funzionale a creare condizioni di vita migliori, gran parte della  nostra classe dirigente, soprattutto di sinistra, sembra aver  trasferito la propria utopistica e adolescenziale  formazione di base nella politica, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti noi. Per quanto concerne in particolare la politica scolastica, il fallimento si può dire quasi completo, avendo tutti i governi degli ultimi decenni piegato la scuola al fine principale di  evitare le contrapposizioni con i giovani e con le loro famiglie desiderose di accedere finalmente agli indirizzi di studio un tempo riservati alle classi sociali privilegiate. Mentre la cosiddetta società civile e progressista lanciava anatemi contro la globalizzazione, nello stesso tempo si consumava un’inesorabile  damnatio memoriae nei confronti del lavoro manuale, di qualunque tipo, fosse pure quello artigianale e artistico a cui tanto deve la cultura e l’economia italiana . Allo stesso modo, ripeto, le famiglie entravano finalmente attraverso i loro figli nelle aule dei licei, calpestate un tempo quasi esclusivamente  dai rampolli della borghesia che allora sembrava  irraggiungibile e inamovibile. E per appagarle fino in fondo di questa magra conquista, e anche per liberarle, come è giusto fare nei confronti di una clientela, da possibili fastidi, non si è esitato a facilitare in maniera scandalosa i percorsi scolastici di ogni ordine e grado, colpevolizzando i docenti, soprattutto quelli più rigorosi, e smantellando  così un sistema nazionale in grado di autocontrollarsi e di mantenere standard condivisi in tutte le aree del Paese.
Così le stesse forze culturali e politiche che inveivano contro la società consumistica ed edonistica, contrabbandavano come progressiste scelte di politica scolastica che miravano, come abbiamo accennato, a fare della scuola un mondo ove tutto sarebbe stato facile da consumare. E l’idea che la cultura liceale, quella in grado di  formare esseri pensanti, critici e liberi, si dovesse almeno in parte estendere anche agli altri indirizzi, fece sì che nei primi anni novanta si snaturassero totalmente, appunto licealizzandoli, i tecnici e i professionali, cancellando pertanto in modo quasi definitivo la loro identità. In certi istituti  professionali, per esempio, la cattedra d’italiano e  storia  nelle prime tre classi poteva arrivare anche a  9 ore. Questo può essere piaciuto a qualche docente liceale o universitario mancato, ma non ha evitato che molti allievi degli alberghieri ne uscissero, per esempio, senza saper scrivere correttamente un ordine sulla comanda da inoltrare in cucina. Che i docenti siano talvolta poco propensi a fare i conti con la realtà effettuale dei propri allievi, soprattutto nei tecnici e nei professionali è, purtroppo, vero, come è  probabilmente vero che  questo pessimo comportamento didattico è stato alimentato dalla omologazione degli indirizzi  di studio avvenuta, appunto, a partire dai primi anni novanta e contrabbandata da moli come una grande conquista. 
Il campo semantico di parole legate al senso di sogno e di illusione ben si addice al mondo degli insegnanti di questi decenni, che raramente ha rivendicato la necessità di salvaguardare il valore formativo della formazione professionale; mondo che è il miglior paradigma di quel ceto  piccolo borghese che  identificava il futuro di questo nostro Paese innanzitutto nella volontà di cancellare prepotentemente il passato,  piuttosto che portarcelo dietro con tutto quello che anche di nobile  esso  conteneva e  che per fortuna in parte ancora contiene.  Infatti, se  mi guardo alle spalle e se  rifletto su quel poco che ho fino ad ora culturalmente assimilato, posso facilmente discernere come la nostra fortuna  sia legata anche al lavoro manuale, alla fatica secolare che ha portato milioni di italiani, pur dovendo convivere spesso con drammatiche condizioni di povertà, a esprimere  anche attraverso il lavoro alti livelli  di genialità e di creatività.  
Molti ignorano che gran parte della nostra  rivoluzione industriale del secondo dopoguerra, nasce all’interno del mondo contadino e dell’artigianato: da questi settori proveniva la quasi totalità dei piccoli industriali del tessuto, della maglieria, del cuoio, della ceramica, della falegnameria, solo per citare alcuni settori della nostra economia, che hanno permesso a questo nostro paese di uscire da condizioni di povertà spaventose. Ma da questo mondo provenivano anche molti esponenti della grande industria, soprattutto alimentare,  dolciaria ed editoriale: dai fratelli Bagnoli, già contadini della fattoria di Sammontana, ai tipografi Angelo Rizzoli e  Arnoldo Mondadori, da Leonardo del Vecchio a Giovanni Ferrero . Senza escludere naturalmente il settore della moda che si è affermato   grazie a  sarti e sartine, a ciabattini o commessi dei grandi magazzini i cui nomi vanno, tanto per fare degli esempi, da Ferragamo a Gucci,  dalle sorelle Fontana a Giorgio Armani e a molti altri ancora. Insomma, basta una pur minima conoscenza della nostra proto industria per essere consapevoli di quanto sia alto il nostro debito  nei confronti di coloro che dal “nulla” come si diceva un tempo, hanno costruito imperi economici straordinari permettendo così all’Italia, per fortuna, di avere ancora oggi in certi settori dell’economia  un ruolo primario a livello mondiale. Nessun programma informatico si potrà sostituire a molte professioni e a molti mestieri, che si imparano bene, come tutte le cose ben imparate, cominciando ad apprenderli da ragazzi, anche al di fuori delle aule scolastiche. E di sicuro, la nostra più grande rivoluzione culturale, quella umanistico-rinascimentale che trova in Galileo la sua estrema declinazione, non sarebbe pensabile  se non tenessimo conto di quanto sia stata alimentata dalle    botteghe d’arte e in genere artigianali che hanno caratterizzato, fino a pochi decenni fa, la cultura e l’economia di questa città, che oggi ospita questo importante appuntamento. E lasciatemi ricordare tutti quelli che dalle botteghe, dalle fabbriche e dalle campagne percepirono molto prima e meglio di altri più addottorati, la lezione di Gramsci, Gobetti, don Sturzo, Croce, Salvemini, schierandosi in tempi non sospetti contro il fascismo, combattendolo con una dignità che molti intellettuali colti e “laureati” non seppero esprimere per tempo. Tutti i libri letti e meditati da migliaia di intellettuali italiani non servirono a far salire, oltre quello di  dodici, il numero dei docenti universitari che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Non voglio dire con ciò che la cultura astratta e speculativa non serva. Anzi, rivendico fino in fondo il suo alto valore formativo e creativo, perché  sicuramente  senza di essa anche quella popolare avrebbe avuto una evoluzione meno dinamica e meno libera  rispetto ai tanti condizionamenti di ogni sorta a cui era sottoposta.  Ma rivendico nello stesso tempo quel principio  elementare di libertà per cui non  si deve assolutamente accettare che l’intelligenza degli uomini, e la loro dignità, debbano essere valutate in base alla loro formazione scolastica e soprattutto secondo la  professione e il lavoro da essi svolto.  Tocca casomai alla politica evitare che  possano crearsi tra gli uomini condizioni di vita  discriminanti; ed è compito dei politici, anche attraverso il loro esempio, fare del lavoro, qualunque esso sia, uno strumento di libertà. Anzi, insieme al pensiero, il lavoro è forse il solo, autentico strumento di libertà che ci è concesso integralmente vivere, come ben ci hanno spiegato Primo Levi, Solgenitsin e tanti altri sopravvissuti ai campi di concentramento e di prigionia, che pur  nella mancanza assoluta di libertà, lavorando riuscirono a  sopravvivere, anche perché dietro ogni lavoro, qualunque esso sia, vi è sempre un progetto di vita. 
Solo una cultura miserabilmente ripiegata sul compiacimento di se stessa poteva, e ha potuto pensare, che l’esperienza pratica, il lavoro, appunto, la libertà di sceglierlo e di impararlo secondo la propria inclinazione e passione potesse rappresentare una condizione di minorità. Pertanto, di fronte alla “rivoluzionaria e progressista” convinzione che  le attività manuali respingessero l’uomo verso chissà quale  selvatica  condizione,  quei pochi che nel passato hanno invece rivendicato l’alto valore formativo  ed educativo della formazione professionale, auspicandola magari fin dal primo anno delle superiori, hanno dovuto subire a volte, piuttosto che sereni confronti con chi la pensava diversamente, forme di aggressione ideologica e rifiuto pregiudiziale del dialogo.
A nulla è valso, per anni e anni, fare riferimento a quanto accadeva in altri paesi o in regioni come il Trentino, dove il grande sviluppo della formazione professionale ha fatto ridurre il tasso di bocciature e di evasione scolastica  sotto la soglia del 10% e dove peraltro hanno addirittura abolito gli istituti professionali. E a nulla è valso, per molto tempo, mettere sull’avviso gli addetti ai lavori della nostra politica scolastica, che non avremmo dovuto lasciare ad una eventuale crisi economica, che poi è purtroppo davvero comparsa, l’ingrato compito di ridare valore al lavoro  e alla formazione professionale, perché niente è più mortificante e diseducativo che subire il futuro senza avere la soddisfazione di conquistarselo e di prepararselo come meglio si crede. 
Sceglierlo a 14 anni, questo nostro futuro, ci è stato molte volte detto, è ingiusto perché  a quell’età non si è consapevoli in quanto ancora troppo giovani. Rispondere a queste motivazioni affermando che in altri paesi europei è il sistema scolastico che obbliga i ragazzi, secondo le loro inclinazioni e i loro risultati scolastici,  a intraprendere ben prima dei 14 anni percorsi di formazione professionale è tempo perso. Chi ha certezze direi quasi religiose rispetto alla convinzione che, costi quel che costi,  tutti i ragazzi hanno il diritto di fare le stesse cose, non è quasi mai disponibile, come ho già detto, a mettersi in discussione. E a nulla serviva obiettare che, anche iscrivendosi ai licei, i nostri ragazzi finiscono col fare delle scelte ancor più  definitive, in quanto  rischiano di ipotecarsi il futuro con inutili  anni di università. Ma si sa, per certi sacerdoti della pedagogia scegliere a 14 anni i licei è ben più democratico e dignitoso che scegliere a quell’età un percorso di formazione professionale!
Quando l’ideologia prevale rispetto all’analisi dei fatti, tanto per richiamarci a Machiavelli, si può arrivare ad ignorare il danno profondo che si fa ai ragazzi aprendo loro la strada alla formazione professionale solo a 16 anni e sempre dopo che questi hanno ripetutamente fallito il percorso dell’istruzione. Alla fine, inoltre,  si finisce col trasmettere loero la consapevolezza che la formazione professionale è un percorso per falliti e di conseguenza si continua ad alimentare la distorta mentalità che approdare o scegliere un lavoro manuale è una strada riservata ai perdenti.
Negli ultimi anni sono state queste le motivazioni sostenute, qui in Toscana, da una minoranza di dirigenti e di colleghi oltre che dal Gruppo di Firenze, affinché  di fronte alle percentuali drammatiche dei tassi di bocciatura e di abbandono nel primo biennio dei professionali (30-40% almeno negli istituti alberghieri, nelle prime classi, 15-20% nelle seconde) si riflettesse se era giusto o meno mantenere la scelta del modello integrato di istruzione e formazione professionale, scelto, appunto, dalla  nostra Regione. Per renderci conto di quanto poco peso abbia la formazione professionale in una struttura del genere, basti sapere che uno studente può scegliere anche alla fine della seconda classe di svolgere l’esame di qualifica l’anno successivo. Per non diversificare gli studenti che scelgono di fare l’esame  dai compagni che non lo scelgono, è previsto che tutti debbano convivere all’interno delle stesse classi e che tutti debbano svolgere lo stesso programma. Oltre alle attività di stage appena incrementate rispetto al percorso istituzionale, la Regione finanzia delle ore di compresenza su materie d’indirizzo; compresenze che soprattutto negli alberghieri, a dire il vero diversamente da altri indirizzi professionali, diventano assai problematiche. Non potendo spesso contare sulla disponibilità dei docenti tecnico-pratici interni (solitamente impegnati anche in attività extrascolastiche ), capita altrettanto spesso di dover dare gli incarichi a persone inesperte e magari diplomatesi recentemente. 
Naturalmente una qualifica triennale di tale struttura non è in grado di garantire una preparazione adeguata a quei ragazzi (pochissimi in realtà e solitamente quelli che per talento personale hanno desiderio di cimentarsi rapidamente col lavoro) che escono definitivamente dalla scuola alla fine della terza. Infatti, la quasi totalità degli studenti dei professionali continua, dopo la qualifica, il percorso dell’istruzione (con percentuali, in quarta, di abbandoni e bocciature assai prossime a quelle che si verificano in prima),  anche per rinviare l’incontro col mondo del lavoro, perché quest’ultimo è talmente dequalificato nell’immaginario dei nostri tempi e paradossalmente così poco valorizzato anche all’interno degli istituti professionali, da suscitare nella gran parte degli stessi studenti una scarsa attrattiva. Di fronte ad un quadro del genere risulta quasi beffarda l’analisi  assai articolata e approfondita da parte  della Comunità europea che indica nelle attività manifatturiere la via d’uscita dalla crisi e l’unica vera possibilità per l’Europa di ritornare ad avere, dopo decenni, un ruolo centrale nell’economia e nella cultura (l’affermazione non è mia ) mondiale.
L’esame di qualifica triennale di questi giorni ha confermato peraltro che gli studenti, rispetto ai vecchi esami di qualifica statale  terminati  lo scorso anno scolastico, hanno percepito  che la  prova  è diventata più o meno una mera formalità; e siamo appena all’inizio. D’altra parte la complessa struttura dei percorsi regionali che ha già portato alcuni collegi dei docenti, compreso quello della scuola da me diretta,  a rinunciare definitivamente al percorso integrato, ci obbliga a far sostenere gli esami a settembre, a pochi giorni di distanza da quelli di riparazione, con modalità che si preoccupano maggiormente di accontentare la forma anziché la sostanza. 
Rispetto ad  una realtà del genere,  sia la Regione che l’Ufficio scolastico regionale  hanno progressivamente dimostrato una maggior disponibilità a misurarsi con le nostre istanze. Naturalmente è  molto apprezzabile che la Regione e l’USR, di fronte all’alto numero di bocciati nelle prime classi, malgrado il percorso integrato,  abbiano deciso di sperimentare un nuovo modello, anche se non in più di dieci classi degli istituti alberghieri toscani. Purtroppo questa loro disponibilità non ha per ora incontrato quella di altre scuole e di altri dirigenti scolastici. Così le classi che sperimentano questo nuovo percorso sono quelle di soli due istituti professionali: il Saffi e il Vasari di Figline.
Il nostro percorso complementare è ispirato a quello  già da tempo avviato in alcune scuole del Veneto, tuttavia con  qualche importante variante, almeno sul piano della strategia didattica. La più significativa di queste consiste senz’altro nell’offrire ai ragazzi l’opportunità di potersi misurare, soprattutto in prima e seconda, con un maggior numero di ore dedicate alle discipline tecnico-pratiche, sottratte a materie come italiano e matematica, eliminando  fisica e chimica a vantaggio delle discipline centrate sull’esperienza pratica. In terza, gli studenti potranno recuperare le competenze di base quando avranno saputo trovare le giuste motivazioni e gli opportuni  equilibri cognitivi per poter finalmente comprendere e utilizzare in modo consapevole e appropriato  i contenuti fondamentali di materie come lettere e matematica. E sempre in terza, saranno attivati corsi aggiuntivi per permettere di acquisire le altre competenze di base in fisica e chimica, non studiate in prima e seconda, a chi desidera rientrare l’anno successivo, in quarta, nel percorso dell’istruzione. 
Tale recupero avverrà diminuendo   le ore delle  discipline tecnico-pratiche, che rimangono tuttavia numerose e già privilegiate in prima e seconda classe,  e  corroborate, sempre in terza, dalle attività di stage.
Il percorso complementare, inoltre, potrà permettere  a quegli studenti del corso tradizionale, che nei primi mesi di scuola si trovino a vivere situazioni di demotivazione per non aver  trovato quello che si aspettavano, di poter passare al percorso maggiormente professionalizzante. Occorre davvero ribadire che i percorsi tradizionali costringono gli studenti a seguire 12-13 discipline, che sarebbero senz’altro insopportabili e didatticamente insostenibili anche per gli stessi percorsi liceali. Insomma, come accade in molti altri paesi europei, abbiamo sentito la necessità di andare incontro alla formazione dei ragazzi piuttosto che alle convinzioni di chi, in nome di principi astratti e forse ideologici, pensa che si diventi adulti sereni e responsabili solo se abbiamo percorso un certo tipo di studi. Da una parte si auspica una scuola sempre più attenta ai bisogni di ciascun studente, dall’altra si costringono migliaia e migliaia di ragazzi  a un tipo di  scuola che finisce per spersonalizzarli. Ecco,  sono davvero alla fine, e  vorrei così chiudere il cerchio richiamando proprio il tema del sogno accennato all’inizio di questo intervento. A tale proposito  mi preme affermare che anche per me  i sogni hanno un   profondo valore, tuttavia non accetterei mai che la mia immagine del mondo e del futuro diventasse una gabbia per gli altri, se gli altri sono in particolare dei giovani ai quali dobbiamo  rispetto e comprensione per  le loro attese; soprattutto  se queste  attese sono finalizzate a un progetto di vita.
Qualsiasi azione educativa  e formativa non può essere ispirata da asserzioni categoriche e, diciamolo pure, prettamente ideologiche. Sia concesso ai ragazzi di fare le loro scelte, rendiamoli liberi dai pregiudizi  sociali e incoraggiamoli a scoprire e a valorizzare i propri talenti e i propri sogni, invece di costringerli a seguire i nostri. Insomma,  come canta Giorgio Gaber nella sua ultima struggente canzone, senza insegnare loro la nostra morale, soprattutto se vogliamo sperare in  un nuovo umanesimo, che poi forse significa, citando Charles Peguy, tornare a scolpire, come accadeva un tempo, gambe di sedie ben fatte non per il salario, né per il padrone, né per i clienti del padrone. Ma ben fatte in sé; una storia, un assoluto, un onore esigevano che quelle gambe di sedia fossero ben fatte e che ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o non visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto. 
E così, a distanza di oltre un secolo da queste importanti e nello stesso tempo suggestive riflessioni di Péguy, la mia sensazione è che si debba ripartire proprio da una consapevolezza dello stesso genere, che esprime un profondo  riconoscimento nei confronti di un uomo che sa trovare il senso più profondo di sé e il suo talento nel fare bene quello che fa, perché ogni lavoro ben fatto, qualunque esso sia, è sempre il frutto di un uomo ben fatto.
Valerio Vagnoli 

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giovedì 26 settembre 2013

LA SCUOLA DI FRONTE A DIFFICOLTÀ E DISABILITÀ: PIÙ FLESSIBILITÀ E MENO STEREOTIPI ANNI '70

Il professor Michele Zappella, neuropsichiatra dell’età evolutiva, è noto per avere studiato a lungo l’autismo nelle sue varie forme. Fin dagli anni sessanta si è occupato dell’integrazione sociale e scolastica dei disabili, l’argomento che torna in questo intervento sul nostro blog, insieme a quello del bisogni educativi speciali. 

Il tema del bell’articolo di Giorgio Ragazzini sui BES del 6 settembre scorso e sull’effetto negativo che le nuove norme probabilmente avranno in prospettiva su tutta la scuola, riducendo all’individuo ogni problema e dando a questo una soluzione strettamente personale, si inserisce in una lunga storia che val la pena di ripercorrere e che risale ai primi anni settanta quando ha inizio il processo dell’integrazione scolastica in Italia. A questo riguardo va ricordato che una grande motivazione per chiudere le scuole speciali e differenziali fu determinata dal rendersi conto che al loro interno c’era un gran numero di figli di emigrati italiani interni (dal Sud al Nord) ed esterni (verso altri Paesi d’Europa), messi da parte perché parlavano in dialetto ed erano culturalmente deprivati. Metterli in classi particolari aveva il significato di dare a dei bambini normali un percorso educativo di serie B: ed è bene ricordare che c’erano scuole speciali dove ogni classe (la prima, la seconda, ecc.) veniva sistematicamente ripetuta per due anni! La conseguenza era una prospettiva di lavoro sottoqualificato, che inchiodava il bambino ad un futuro di marginalità. Questo fu il principale argomento che persuase dapprima i partiti di sinistra e poi tutti i movimenti politici a proporre l’abolizione dei percorsi differenziali a scuola e a integrare tutti i bambini, compresi quelli disabili (vedi De Luca G, Zappella M., L’alba dell’integrazione scolastica, a cura di M. De Luca, Roma, Carocci, 2013).
In quel contesto ci furono due diversi indirizzi. Da un lato c’erano scuole che cercavano di adeguarsi per l’accoglienza di bambini con disabilità: ricordo bene, per esempio, una scuola elementare a Monte San Savino, vicino ad Arezzo, che nel 1971-72 eliminò gli spazi di una classe speciale che aveva avuto al suo interno, articolando la didattica  in occasioni comuni come musica, teatro e mimica e mantenendo in altre ore i bambini con disabilità più gravi in ambienti meglio organizzati per loro. Dall’altro, invece, i bambini venivano messi in classe con gli altri, indipendentemente dal grado e tipo di disabilità: lo slogan più comune era “devono fare come gli altri”, per cui i diversi vanno trattati come i normali; una parola d’ordine che dopo tanti anni non è scomparsa. Anzi è diventata una indicazione politicamente corretta.
La prima svolta istituzionale a questo riguardo è nella legge che nel 1977 istituisce l’insegnante di sostegno e sposa in pieno il secondo tipo di soluzione,  assegnando il sostegno per tempi variabili a seconda della gravità della disabilità e dando al problema una soluzione individuale o, si usa dire oggi, ‘personalizzata’. Da allora, con poche eccezioni, avremo scuole in cui, nella maggior parte dei casi, c’è una stanzetta dedicata ai bambini più gravi e per il resto tutti i bambini, qualunque sia la loro difficoltà, sono in classe con gli altri. Non importa che siano iperacusici e che siano molto disturbati dalla confusione come dal suono della campanella, come spesso succede con i bambini autistici, che siano vittime del bullismo o che siano con abilità cognitive lontanissime da quelle degli altri: devono stare nella classe, quasi fosse un rigido plotone: "per non sentirsi esclusi" .  
La direttiva del Ministero sui BES del 5.3.13 va oltre le disabilità e si occupa anche dei  ragazzi stranieri che non conoscono la nostra lingua. Per loro, il buon senso e il confronto con altri Paesi europei avrebbero dovuto far pensare alla priorità assoluta dell’apprendimento della lingua italiana e quindi a questo scopo a studenti stranieri organizzati in maniera omogenea, eventualmente sulla base della loro lingua madre. Ci si aspetterebbero anche riscontri scientifici sui percorsi di maggiore validità educativa, visto che il problema esiste da molti anni. Invece per loro si scrive che “è possibile attivare percorsi individualizzati” e successivamente frasi stupefacenti come quella per cui “le 2 ore di insegnamento della seconda lingua nella scuola secondaria di primo grado possono essere utilizzate anche per potenziare l’uso della lingua italiana”(sic!). Come se non conoscere la lingua parlata in classe fosse piccola cosa che si può risolvere utilizzando le ore della seconda lingua o con percorsi individualizzati che non vengono definiti. Nei fatti ci si può immaginare che per molte ore i ragazzi stranieri siano costretti a stare in classe anche se non capiscono nulla di quello che si dice. Se questo fosse vero anche in piccola parte, questo tipo di ‘personalizzazione’ riuscirebbe paradossalmente ad avere per i figli degli immigrati precisamente quello che le scuole differenziali ottenevano per i figli dei nostri emigrati prima di quarant’anni fa: li porterebbe in un percorso educativo deprivato. Come allora i figli degli immigrati italiani, bambini normali il cui limite era nel dialetto e nella deprivazione culturale familiare, lasciati in classi differenziali erano condannati a un percorso lavorativo di quart’ordine, lo stesso verrebbe prospettato per i figli degli immigrati stranieri. La vera esclusione difatti non è nello spazio, ma nel tipo di percorso educativo: in questo caso del tutto inadeguato al punto di non capire nulla di quanto si dice o scrive in classe e gravemente impoverito rispetto alle possibilità di questi ragazzi che sono normali e hanno diritto a conoscere innanzitutto la lingua e la cultura del Paese dove vanno, per poter avviare un percorso educativo valido come gli altri. 
Qualche commento aggiuntivo merita il GLI (Gruppo di lavoro per l’Inclusione) che verrebbe ad avere nella scuola un ruolo predominante su vari aspetti dell’inclusione. Non è una novità: in Toscana abbiamo già avuto negli anni ottanta nelle USL il GOIF (Gruppo Operativo Istituzionale Funzionale), un gruppo numeroso e composto da diverse professionalità che si riuniva mensilmente. Lì i vari casi di disabilità venivano passati in rassegna da persone che in grande maggioranza non li conoscevano, spesso con proposte del tutto inadeguate, danneggiando così l’alunno in questione, in quanto nel rapporto tra insegnanti di classe e specialisti si inseriva come un corpo estraneo questo sciagurato raggruppamento. Il GLI appare come un simile collettivo giudicante, del tutto inadatto a gestire sia il singolo alunno in difficoltà che grandi fenomeni come, per esempio, il bullismo, che riguarda sia alunni normali (in particolare quelli più  bravi) sia quelli con disabilità, come i ragazzi con ADHD (iperattivi) e i soggetti autistici di discreta intelligenza. Ebbene, se si guarda la letteratura internazionale, le strategie più efficaci per contrastare questo fenomeno, presuppongono il coinvolgimento dell’intera scuola, comprendendo tutti i docenti, gli studenti e i rappresentanti dei genitori, per strutturarsi poi, con precise strategie e sanzioni, nelle singole classi (Olweus Dan, Promoting Education, 1, 27-31, 1994; Vreeman R.C. et al, “Archives Pediatric and Adolescent Medicine” 161, 78-88, 2007).
In questo modo nei Paesi scandinavi il bullismo è potuto scendere a valori sul 6%.  Non è dunque strano che l’Italia, che da decenni si trastulla tra prospettive ‘personalizzate’ e collettivi giudicanti del genere sopra indicato, abbia insieme alla Lituania il primato del bullismo tra i Paesi occidentali, con percentuali attorno al 40% (Due P. et al, “European Journal of Public Health” 15, 128-32, 2005).
Questo perché, ripeto, vi sono problemi, come quello appena citato, che vanno affrontati dall’intera comunità scolastica e poi suddivisi in tempi e modi successivi più specifici. Altre questioni relative, per esempio, a luoghi ben attrezzati di tempo libero di cui vari alunni con disabilità hanno, periodicamente, bisogno vanno anch’esse valutate a livello di comunità scolastica: se, invece, questi e altri bisogni sono ignorati, l’alternativa è passeggiare nel corridoio. Lo stesso discorso può essere fatto per intolleranze sensoriali e anche per particolari  esigenze didattiche.
Non affrontare questi problemi vuol dire avere una scuola rigida, incapace di modularsi e adattarsi rispetto a difficoltà e devianze. Legata a stereotipi della parte più rozza di un periodo antistituzionale ormai lontano nel tempo. Troppo spesso la scuola propone solo la classe come luogo elettivo di socialità e in questo modo rischia di non garantire la crescita intellettuale, emotiva e sociale di chi è diverso per lingua madre o per difficoltà e disabilità di qualunque genere.  
Michele Zappella 

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venerdì 13 settembre 2013

UN MINISTRO INCITA GLI STUDENTI ALLA RIBELLIONE

“Siate ribelli. Ricordate le parole di Kant, uscite dall’adolescenza e rifiutate le imposizioni, ribellatevi ai genitori, ai prof e alla scuola”. Che un adulto senta nel 2013 il bisogno di rivolgersi ai giovani in questi termini sessantottardi significa senza dubbio che non è consapevole di quello che serve a un adolescente per crescere. Ma è ancora più grave che parole di questo genere le dica il Ministro della Pubblica Istruzione all’inizio dell’anno scolastico. Così facendo acquista forse un’effimera popolarità, ma abdica al suo dovere di ricordare agli adolescenti la vera strada per costruire il proprio futuro. Evidentemente la Ministra non ha letto e meditato lo splendido discorso che Barack Obama rivolse agli studenti americani nel 2009, proprio all’apertura dell’anno scolastico, nel quale tra l’altro ebbe a dire: “Alla fine noi possiamo avere gli insegnanti più appassionati, i genitori più attenti e le scuole migliori del mondo: nulla basta se voi non tenete fede alle vostre responsabilità. Andando in queste scuole ogni giorno, prestando attenzione a questi maestri, dando ascolto ai genitori, ai nonni e agli altri adulti, lavorando sodo, condizione necessaria per riuscire. […] Non vi piacerà tutto quello che studiate. Non farete amicizia con tutti i professori. Non tutti i compiti vi sembreranno così fondamentali. E non avrete necessariamente successo al primo tentativo. È giusto così”. Altro che auspicare ribellioni contro non si sa cosa. D’altronde le ribellioni generazionali non devono essere né auspicate né concesse graziosamente dagli adulti, come fanno, spesso pelosamente, i coccolatori di chi occupa le scuole. Se si ritengono necessarie si fanno e basta, prendendosi tutti i rischi e accettando le eventuali conseguenze negative. Come hanno sempre fatto tutti i veri ribelli. (GR)