Il merito come eccellenza e il merito come serietà
Quando si parla di puntare sul merito come leva del progresso sociale e civile, ci si riferisce in genere alla valorizzazione dei più bravi; in altri termini, alle cosiddette “eccellenze”. Dico subito che valorizzare i migliori in tutti i campi è giusto e soprattutto necessario, perché la società di oggi e quella che domani sarà dei nostri figli ha bisogno di eccellenti professionisti, imprenditori, politici, tecnici, scienziati, studiosi; e non solo perché operino al meglio ciascuno nel proprio settore, ma anche perché con la loro azione, con il loro esempio, con i loro scritti, con il loro insegnamento trasmettano alle nuove generazioni, al più alto livello possibile, il nostro patrimonio culturale. Questo per il merito come eccellenza. Ma per la società è altrettanto importante il riconoscere e valorizzare il merito di chi svolge con impegno e serietà il proprio compito, qualunque esso sia. Coltivando i propri talenti, quali che siano. Impegnandosi per fare bene le cose che fa. Purtroppo in Italia il merito come serietà è, se possibile, ancora più misconosciuto del merito come eccellenza. Eppure si tratta di qualcosa che tiene letteralmente insieme la società. Ora, chi fa il proprio dovere verso la società può avere un solo, ma fondamentale premio o riconoscimento: quello di non essere trattato come chi il proprio dovere non lo fa; di non veder tollerare i disonesti e gli incapaci da chi avrebbe la responsabilità di richiamare i primi ai propri compiti (e se necessario sanzionarli) e di proteggere dai secondi chi può avere un danno a causa della loro incapacità. Considero questo un tratto fondamentale di una società più giusta.
Il merito nella valutazione dei docenti: due priorità
In linea di massima queste considerazioni valgono anche per la scuola. Anche alla scuola si possono applicare le due idee di merito: come eccellenza e come serietà. Ma la questione della valutazione dei docenti va posta con grande concretezza e con altrettanto buon senso. Dobbiamo avere ben chiari tanto i vantaggi per il sistema scolastico, quanto i possibili effetti indesiderati.
Per cominciare, è ovvio che quando si insiste sulla valutazione dei docenti si punta a migliorare la qualità media del corpo insegnante. Propongo perciò di partire da questa domanda: per migliorare la qualità della scuola italiana è più utile individuare e premiare economicamente i migliori insegnanti oppure lavorare perché tutti i docenti siano almeno “sufficientemente buoni”? A me pare molto più sensato puntare sulla seconda prospettiva. Dal punto di vista dell’interesse generale, infatti, è dubbio che la qualità media dei docenti crescerebbe premiando chi già lavora molto bene e senza dubbio continuerà a farlo anche senza premi, in quanto motivato dalle soddisfazioni professionali che ottiene. D’altra parte, le esperienze di altri paesi, per esempio quella del Regno Unito, segnalano una controindicazione che questo tipo di valutazione comporta rispetto al clima che si viene a creare all’interno delle scuole: individuare i docenti più meritevoli (e sorvolo qui sull’attendibilità dei metodi per farlo) significa in pratica tracciare una linea che li separa da quelli appena meno meritevoli e comunque da chi fa dignitosamente il proprio lavoro, con il risultato di demotivare dei buoni insegnanti. Oltre a tutto in questi ultimi si acuirà la consapevolezza di essere retribuiti esattamente quanto quel certo collega assenteista o incapace di cui tutti si lamentano. Questa diversità di retribuzione a parità formale di lavoro tende quindi a danneggiare la possibilità di costruire in ogni istituto un clima positivo e collaborativo e di conseguenza anche quella comunità professionale, la cui assenza viene lamentata da molte parti soprattutto nella scuola secondaria.
Quali sono invece le leve che promettono di essere effettivamente in grado di migliorare quello che è il principale patrimonio della scuola in ogni tempo, il cuore dell’offerta formativa, cioè il corpo insegnante? A nostro parere le due priorità, restando in tema di valutazione, dovrebbero essere due. La prima riguarda il merito come eccellenza, ma intesa in senso diverso, cioè come possesso di ulteriori talenti utili alla scuola, oltre alla capacità di docente in senso stretto. Se non appare produttivo, come ho detto, premiare gli insegnanti migliori a parità di lavoro (tra l’altro non mi pare che in nessun altro settore si sia presa questa strada: si premiano i migliori tra i giudici? I medici e gli infermieri più bravi?), sarebbe invece utilissimo e urgente selezionare tra gli insegnanti le nuove figure professionali indispensabili per un governo efficiente delle scuole autonome (questo sì, in analogia con altre professioni). In altre parole, la scuola ha bisogno di docenti capaci sul piano organizzativo, di responsabili delle attività di aggiornamento, di altri che seguano la formazione dei nuovi insegnanti, magari tramite distacchi all’università, che curino i servizi alla didattica, che coordinino gli interventi di integrazione degli stranieri e dei disabili e via dicendo. In una situazione di risorse molto scarse, gli investimenti necessari per la creazione di questo “ceto di governo” sarebbero a nostro avviso molto più remunerativi rispetto alla politica delle “eccellenze” come sperimentata, non a caso con difficoltà, dal ministero. Non ci si può più accontentare di soluzioni come le funzioni strumentali, mal retribuite e affidate a volte a colleghi bravissimi, ma più spesso a chi è dotato solo di buona volontà, quasi sempre in assenza sia di una seria progettazione che di una verifica del lavoro svolto. Naturalmente ci saranno tanti ottimi docenti che vorranno continuare a insegnare e basta.
La seconda leva l’ho già accennata in apertura, è quella che, insieme a una maggiore selettività in entrata, servirebbe a garantire insegnanti “sufficientemente buoni” a tutti i ragazzi, cioè una valutazione di minima adeguatezza. In altre parole ci dovrebbe essere la possibilità di prendere provvedimenti tempestivi e risolutivi nei casi di conclamata inadeguatezza oppure di grave o ripetuta scorrettezza professionale di un docente. Sappiamo tutti bene che oggi non è affatto così. Spesso un pessimo insegnante viene tutt’ al più trasferito da una scuola all’altra: con quale miglioramento per il sistema è inutile sottolinearlo. Anche quei dirigenti che vorrebbero tutelare gli studenti coinvolti, attualmente si scontrano con una carenza di strumenti e con lungaggini procedurali, e spesso finiscono per darsi per vinti o di rinunciare in partenza di fronte allo stress e alle frustrazioni a cui vanno incontro. Non ignorare il “demerito” significherebbe invece riconoscere indirettamente il merito di tutti quei docenti che fanno almeno dignitosamente il loro dovere e spesso molto di più, un po’ come una lotta efficace all’evasione fiscale rende giustizia e dà soddisfazione ai contribuenti corretti.
Per ammettere che sia giusto basta riflettere sul fatto che nessuno di noi è disposto a farsi curare da un medico notoriamente incapace. Il fatto che non si ponga rimedio ai casi in cui siamo al di sotto della sufficienza è deleterio per il prestigio della scuola pubblica, per quello della categoria e soprattutto per i ragazzi con cui hanno a che fare. Il superamento di questo vero e proprio tabù costituirebbe un importante passo verso la doverosa rivalutazione della categoria, che ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione culturale della nazione e che ha al suo interno grandissime risorse di intelligenza, di esperienza e di passione civile che attendono di essere valorizzate anziché mortificate.
Non è certo difficile individuare i docenti che proprio non vanno, anche perché sono spesso oggetto di lamentele e proteste da parte dei genitori. Ma sarà comunque necessario “oggettivare” queste situazioni con una qualche procedura: e io vedrei la soluzione più ovvia in una rinnovata funzione ispettiva, che non a caso è stata letteralmente smantellata negli ultimi decenni. Mentre nel Regno Unito ci sono 1500 ispettori e in Francia 3000 in Italia ce ne sono solo 100. Nel Lazio uno. In Toscana nessuno. Eppure il necessario complemento dell’autonomia scolastica è un sistema efficiente di controlli, come in generale la responsabilità è il pendant della libertà.
Perché la cultura del controllo di legalità è così carente in quasi ogni settore? Io credo che, per una serie di motivi storico-politici e ideologici che non ho il tempo elencare, il rigoroso rispetto delle regole è stato associato non alla giustizia e alla libertà, come sarebbe ovvio perché sulle regole si basano, ma piuttosto all’autoritarismo, all’oppressione dello Stato o delle classi dominanti; e addirittura alla mancanza di umanità; chi fa rispettare una regola viene spesso percepito come poco sensibile o comprensivo.
A questo punto credo di avere risposto dal mio punto di vista alle domande posteci dagli organizzatori, per quanto riguarda la valutazione dei docenti. Certo, comprendo benissimo le riserve e le resistenze alla valutazione quando sento questo o quell’esperto sostenere come pacifica la possibilità di valutare gli insegnanti in base ai risultati dei propri allievi.
Ma quando un’esigenza si afferma, è bene prendere un’iniziativa, fare delle proposte concrete, dire dei sì, che legittimino anche alcuni no, altrimenti c’è il rischio di trovarsi a combattere le stesse battaglie nelle condizioni meno favorevoli. Riassumendo, la proposta del mio gruppo è semplice: da un lato cominciare dal basso la valutazione degli insegnanti, affinché agli studenti italiani, se non potranno mai avere insegnanti tutti eccellenti, possiamo garantirne di “sufficientemente buoni” o adeguati che dir si voglia; dall’altro fare in modo che la crescente complessità della scuola possa essere governata e arricchita da nuove specializzazioni della funzione docente.
Grazie dell’attenzione.
[Per i commenti, tornare alla pagina precedente]