Il nostro
percorso complementare è ispirato a quello
già da tempo avviato in alcune scuole del Veneto, tuttavia con qualche importante variante, almeno sul piano
della strategia didattica. La più significativa di queste consiste senz’altro
nell’offrire ai ragazzi l’opportunità di potersi misurare, soprattutto in prima
e seconda, con un maggior numero di ore dedicate alle discipline
tecnico-pratiche, sottratte a materie come italiano e matematica,
eliminando fisica e chimica a vantaggio
delle discipline centrate sull’esperienza pratica. In terza, gli studenti
potranno recuperare le competenze di base quando avranno saputo trovare le
giuste motivazioni e gli opportuni
equilibri cognitivi per poter finalmente comprendere e utilizzare in
modo consapevole e appropriato i
contenuti fondamentali di materie come lettere e matematica. E sempre in terza,
saranno attivati corsi aggiuntivi per far acquisire le altre competenze di base in
fisica e chimica, non studiate in prima e seconda, per chi desidera rientrare
l’anno successivo, in quarta, nel percorso dell’istruzione.
Tale
recupero avverrà diminuendo le ore
delle discipline tecnico-pratiche, che
rimangono tuttavia numerose e già privilegiate in prima e seconda classe, e
corroborate, sempre in terza, dalle attività di stage.
Il percorso complementare, inoltre, potrebbe
permettere a quegli studenti del corso
tradizionale, che nei primi mesi di scuola si trovino a vivere situazioni di demotivazione
per non aver trovato quello che si
aspettavano, di poter passare al percorso maggiormente professionalizzante. Tuttavia,
a conferma di quanto in didattica non vi debbano essere asserzioni categoriche
e definitive o presunzioni di aver trovato formule risolutive, mi preme
informarvi che in queste settimane ho negato ai due studenti ripetenti e iscritti al percorso statale che
me l’avevano chiesto, la possibilità di trasferirsi nel complementare. Infatti
ho pensato che si debba evitare che il nuovo modello possa apparire come una scorciatoia e una sorta di refugium peccatorum,
perché tutti i percorsi formativi devono avere pari dignità, anche se un po’ tutti, in questi
decenni, abbiamo contribuito a trasmettere l’idea
completamente opposta, e cioè che al vertice del nostro sistema formativo vi
siano i licei e poi a scendere i tecnici, i professionali e infine la
formazione professionale.
Ai due ragazzi ho chiesto d’impegnarsi per
essere promossi e l’anno prossimo potranno così accedere al complementare.
Ad oggi una delle due mie classi prime
dimostra, in buona sostanza, i problemi canonici dei professionali: e cioè una
buona parte dei ragazzi si caratterizza per una scarsa scolarizzazione, nel
senso di mancanza del necessario adattamento ai requisiti di atteggiamento e di
metodo che la scuola richiede. La stessa
situazione di questa mia classe si riflette in quella di Figline Valdarno come
mi ha fatto presente il collega Marchetti col quale ci confrontiamo
frequentemente anche su questo percorso.
Tuttavia, per
entrambe le classi non sussistono grossi problemi disciplinari che sono invece tipici delle altre. Tanto per fare un esempio,
se nelle prime “statali” chiamiamole così,
i provvedimenti disciplinari sono
all’ordine del giorno, queste nostre due prime, pur essendo composte da ragazzi da
scolarizzare, come sopra abbiamo visto, tuttavia forse proprio in virtù del
maggior numero di ore in laboratorio, quindi di una loro maggior soddisfazione
personale, riescono a mantenere un comportamento decisamente gestibile.
Se l’esiguo
numero delle classi non ci autorizza ad esprimere giudizi definitivi ( non a caso non approfondisco la realtà dell’altra
prima in assoluto la migliore tra le tredici), tuttavia questi elementi devono
incoraggiarci ad andare avanti e magari a potenziare questa sperimentazione aumentando ulteriormente le ore di laboratorio
in prima e in seconda e anche aumentando, se le scuole lo chiederanno, il
numero delle classi.
A mio parere
sarebbe davvero opportuno che la Regione Toscana continuasse a scommettere,
anche per altri indirizzi, sul modello complementare, magari snellendone
l’apparato gestionale, e credo sia un
danno profondo aprire ai ragazzi la strada della formazione professionale solo
a 16 anni e sempre dopo che questi hanno ripetutamente fallito il percorso
dell’istruzione. Un sistema del genere
finisce col trasmettere loro la consapevolezza che la formazione
professionale è un percorso per falliti e di conseguenza si continua ad
alimentare la distorta mentalità che approdare ad un lavoro manuale è una
strada riservata ai perdenti.
Occorre davvero ribadire che i percorsi
tradizionali costringono gli studenti a seguire 12-13 discipline, che sarebbero
senz’altro insopportabili e didatticamente insostenibili anche per gli stessi
percorsi liceali. A questo proposito, permettetemi di non gioire affatto per
l’ora in più di Geografia che è stata recentemente introdotta dal Decreto
scuola. I Tecnici e soprattutto i Professionali hanno bisogno di ben altre
modifiche dei loro piani di studio. Sono anzi convinto che la prospettiva più
giusta sia quella di andare verso la fusione
a livello nazionale dell’ Istruzione professionale statale e della formazione
professionale regionale: una fusione basata in maniera accentuata
sull’alternanza scuola-lavoro. E di questo obiettivo a mio parere dovrebbero
essere proprio le regioni a farsene carico anche perché la Costituzione, come
sappiamo, assegna questa materia alla
competenza regionale. E in una auspicabile rivoluzione di questo ambito,
sarebbe davvero importante non rinunciare all’aspetto forse più originale del
nostro Complementare; e cioè quello di recuperare i valori della cultura
astratta soprattutto nell’ultimo anno, anche perché allora i ragazzi saranno in
grado di legare questi saperi al saper fare e sapranno riconoscerne così
l’importanza anche in riferimento al loro futuro.
Siamo tutti
convinti che dietro a ogni lavoro, qualunque esso sia, vi è sempre
un progetto di vita: progetto di vita che, invece, è difficile individuare in
quelle migliaia e migliaia di ragazzi che sono letteralmente espulsi, in
particolare dagli istituti professionali, in mezzo alle strade, nei giardini di
qualche periferia e frequentemente verso l’incontro con forme di trasgressione
destinate, per dirla con Umberto Saba, ad aprire loro “solchi di dolore”:
scuole che pur adottando tutte le strategie didattiche possibili non potranno
tuttavia coinvolgere ragazzi e ragazze che nelle scuole, appunto, non trovano
la misura giusta e idonea alle loro attese, ai loro veri talenti e perché no,
alle loro stesse difficoltà che sappiamo benissimo da dove, nella maggioranza
dei casi, esse provengono. E spiace constatare che il modello integrato, da
quel che mi risulta oltre alla mia personale esperienza, anche a livello nazionale non riesce a soddisfare
questa fondamentale esigenza e spiace
anche constatare che ha dei costi veramente molto alti, non solo sul piano
dell’evasione scolastica. Ha infatti dei
costi pesantissimi anche nello sviluppo dell’economia che potrebbe trovare proprio
in un’adeguata formazione professionale l’investimento migliore per rilanciare mestieri e professioni che
fanno parte della nostra tradizione e del nostro potenziale economico e
culturale: non sto naturalmente pensando solo alle professioni legate
all’enogastronomia e all’ospitalità, ma anche a quelle artistiche e
artigianali. Valga fra tutti l’esempio della liquidazione degli istituti d’arte
che inseguendo il presunto maggior prestigio dell’istruzione liceale, sono stati,
appunto, letteralmente eliminati. E anche su questo sarebbe necessario,
soprattutto in Toscana, per i motivi che tutti noi conosciamo, adoperarsi per non disperdere
definitivamente saperi, competenze e maestri che rappresentano un patrimonio
irrinunciabile. A tale proposito so che proprio qui a Firenze si sta
pensando di chiedere la possibilità di inserire
all’interno dei licei artistici derivati dagli istituti d’arte, provvisti
quindi dei laboratori e delle competenze necessarie, un percorso triennale
professionalizzante nell’ambito dell’artigianato artistico. Ci stanno lavorando
la dirigente dell’Istituto di Porta Romana e due colleghi del Gruppo di
Firenze.
Come mi diceva,
quand’ero ragazzo, un vecchio maestro artigiano (e che maestro!) un mestiere
non si impara a 18 anni perché a quell’età è tardi per poter sperare di
diventare, almeno in molti campi, un bravo professionista. Non a caso, tanto
per fare degli esempi, la danza, la musica lo sport si iniziano da piccoli e solo
iniziando da ragazzi si ha la possibilità di poter diventare in questi settori
dei professionisti. Allo stesso modo non ci preoccupiamo se i ragazzi a 14 anni
scelgono il liceo: decisione che spesso rappresenta anch’essa una scelta di
vita definitiva, in quanto iscrivendosi ai licei si rischia di ipotecarsi il
futuro con inutili anni di università
che costringono sempre più spesso e sempre in numero maggiore i nostri
giovani-adulti a dover poi subire lavori
di scarso appeal e che non richiedono
una specifica preparazione.
Non dobbiamo perciò temere di avviare un ragazzo verso la formazione professionale
fin dai suoi 14 anni; il diploma al quarto anno del complementare e la
possibilità del quinto anno “integrativo” che apre agli studenti della formazione
professionale l’ opportunità del diploma
di Stato quinquennale, rappresentano ottime occasioni per permettere a
chi lo voglia, di continuare gli studi. D’altra parte ci incoraggiano verso una
scelta del genere le esperienze del Trentino, ma anche numerosi esempi europei
tra i quali il grosso successo di quello tedesco che assicura ai giovani un
lavoro qualificato e, come accennavo sopra, un consequenziale progetto di vita.
Insomma, non dobbiamo aver paura di educare un
ragazzo fin dai suoi 14 anni al lavoro; dobbiamo aver paura, anzi il terrore,
di non educarlo affatto.
Valerio Vagnoli
Per i commenti torna alla pagina precedente.