domenica 9 dicembre 2012

«MERITOCRAZIA VALORE DI DESTRA»: L’IDEA CHE LA SINISTRA DEVE ROTTAMARE, di Roger Abravanel

Dal “Corriere Della Sera” del 9 dicembre 2012 - Una settimana fa Pier Luigi Bersani ha vinto le primarie del centrosinistra. I suoi elettori dicono che ha fatto riscoprire la meritocrazia nella politica con le primarie del centrosinistra dopo che per anni si è assistito al proliferare di candidati scelti dai partiti (quando non personalmente dal padre padrone) unicamente sulla base della fedeltà invece che sul merito individuale. Adesso il suo compito è di creare una nuova sinistra per cercare di vincere le elezioni e governare con successo. 
 Creare una nuova sinistra non richiede solo di «rottamare» alcuni dei politici come vorrebbero in molti, ma anche alcune vecchie idee. La prima, e forse la più importante, è stata la risposta data al moderatore del dibattito di Sky tra i contendenti alle primarie che chiedeva a Bersani se fosse «in favore di più meritocrazia». Al che il segretario del Partito democratico ha risposto «va bene più meritocrazia, ma anche più eguaglianza». Il che sottintende che la competizione va bene per i vertici della politica e della economia, ma se estesa alle masse dei lavoratori e degli studenti può portare, per esempio, a licenziamenti di massa e alla perdita del «diritto allo studio». Ne deriva che l’unico modo efficace per ridurre la diseguaglianza è quello di ridistribuire la ricchezza dai ricchi ai poveri.
Nulla di nuovo. Per la sinistra italiana la meritocrazia resta un valore «di destra» e l’egalitarismo continua a restare il principio fondante, contrariamente alle sinistre nordeuropee che da più di vent’anni lo hanno fatto evolvere nella ricerca delle pari opportunità. L’idea era semplice: se uno va avanti solo se è bravo e non perché è furbo o raccomandato da qualcuno che gli deve un favore, la mobilità sociale aumenta perché anche un povero meritevole può salire sull’«ascensore sociale».
Questo sistema di valori è in realtà pienamente accettato dalla sinistra italiana che ha lottato negli ultimi anni molto di più della destra contro i privilegi anticoncorrenza e il non rispetto delle regole. Eppure resta sospettosa quando l’idea della competizione spinta viene estesa dall’élite alle masse. Questo avviene per due motivi. Primo, «il bisogno»: il lavoratore che fa male il proprio lavoro meriterebbe di essere licenziato ma «ha bisogno» del posto di lavoro (per mantenere una moglie che non lavora e i figli precari); e quindi resta l’articolo 18. Secondo: il «diritto acquisito»: il precario della scuola ha acquisito il diritto al posto fisso e quindi è giusto opporsi al primo concorso dopo 10 anni che lo mette in competizione con la nuova generazione di insegnanti. È ovvio perché questi due motivi valgono solo per le masse e non per il top: Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani non hanno né il «bisogno» né il «diritto» di diventare presidenti del Consiglio e quindi si accetta una competizione accanita. Ma non si accetta per milioni di lavoratori e studenti. E neanche Matteo Renzi, che pure ha preso posizioni coraggiose e anche controproducenti su pensioni e politica estera ha osato esprimersi chiaramente a favore di una meritocrazia più diffusa su temi come il lavoro e la scuola: ha dichiarato di voler adattare il giusto modello della flexsecurity di Pietro Ichino (quasi scomunicato dal Partito democratico) ma non ha parlato della meritocrazia individuale e, relativamente alla scuola, ci si sarebbe aspettata più enfasi nel sostenere l’esigenza di valutare gli insegnanti per migliorare la qualità dell’insegnamento dove è meno buona.
Il problema è che la sinistra italiana non si rende conto che rispettare i «bisogni» e i «diritti acquisiti» perpetua la spaventosa ineguaglianza della società italiana che abbiamo già descritto nelle pagine di questo quotidiano. Se non si può licenziare un lavoratore che lavora male (proteggendolo con ammortizzatori sociali orientati a reinserirlo rapidamente nel mondo del lavoro), aumenterà l’attuale apartheid tra 12 milioni di lavoratori di fatto inamovibili a livello individuale e 9 milioni licenziabili senza vincolo alcuno.
Se il «diritto allo studio» protegge insegnanti mediocri, ciò va a scapito degli studenti con meno mezzi per i quali la scuola è la unica vera chance di azzerare i privilegi della nascita; continuerà in Italia la discriminazione tra gli studenti del Nord che hanno scuole di livello europeo e quelli del sud che l’Ocse misura essere a livello dell’Uruguay e della Thailandia. Se la sinistra da un lato lotta giustamente contro la corruzione nella sanità, ma dall’altro protegge indiscriminatamente chi ci lavora, in alcune regioni del Centro Sud con sprechi assurdi, incompetenza e pessimo livello di servizio, l’ineguaglianza della qualità del servizio sanitario pubblico tra alcune regioni del Nord e altre del Centro Sud è destinata ad aumentare, in particolare adesso che non si può ricorrere più alla spesa pubblica.
La mancanza di meritocrazia ci ha resi più ineguali, nonostante la pretesa di essere una società basata sulla solidarietà. Ma è anche la principale causa della stagnazione economica degli ultimi 25 anni. L’apartheid del lavoro, oltre a essere ingiusto, ha distrutto la produttività, perché il precario bravo raramente riceve dalle imprese gli investimenti in formazione e in sviluppo professionale, che alla fine ci rimettono in produttività. E l’immettere ogni anno molto meno studenti eccellenti (un terzo) delle società nordeuropee con scuole capaci di seguire i più lenti ma anche di valorizzare i più bravi, non creerà la classe dirigente per fare ripartire l’economia del nuovo millennio.
Convincersi che la meritocrazia porta a più eguaglianza e conseguentemente «rottamare» tanti tabù della vecchia sinistra sarà essenziale a Pier Luigi Bersani per convincere gli elettori del Pd che hanno votato per Matteo Renzi a votare per lui alle prossime elezioni e a vincerle. Ma soprattutto sarà essenziale per governare un Paese fermo da 25 anni.


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martedì 4 dicembre 2012

IL GOVERNO DELLE SCUOLE. PER UN CONFRONTO NON PROPAGANDISTICO SUL PROGETTO "EX APREA"

A quanto pare il progetto di legge 953, detto “Ex Aprea”, si sta arenando sui fondali del Senato, dopo essere stato modificato e approvato dalla Camera. Possiamo approfittarne per discutere senza utilizzare gli slogan e gli stereotipi che abbondano su internet e nei cortei. 
Su pochi argomenti come la gestione degli istituti scolastici l’Italia dimostra di essere quel “Paese del pressappoco” di cui ha parlato Raffaele Simone. Mentre da anni e anni si discetta su come riformare gli organi collegiali senza concludere nulla, il dibattito in merito si svolge regolarmente senza tener conto di un certo numero di fatti: 
1. una buona parte dei dirigenti è priva di qualsiasi cultura gestionale; 
2. in ogni caso i dirigenti validi sono sopraffatti dalla molteplicità di incombenze di ogni genere e hanno poco tempo per esercitare quel ruolo di “leader educativi” che dovrebbe sostenere l’efficacia formativa dell’istituto; 
3. leggi e regolamenti non assicurano ai dirigenti poteri sufficienti per tutelare gli studenti da insegnanti gravemente inadeguati, anche quando abbiano agito da autentici mascalzoni; e quando ci provano devono spendere tali e tante energie che il più delle volte si ripromettono per il futuro di lavarsene le mani; 
4. i loro collaboratori, a cominciare dal vicario, si arrabattano volonterosamente come possono, spesso assentandosi dalle classi più volte nella mattinata e ricevendo in cambio un modesto aumento di stipendio; 
5. non esiste, se non in casi fortunati, una qualificata “classe dirigente” composta da docenti capaci di occuparsi proprio di quelle incombenze che l’autonomia delle scuole presuppone: progettazione curricolare, aggiornamento, servizi alla didattica, consulenza ai  nuovi docenti, valutazione e via dicendo; 
6. è scarsissima la cultura del controllo e della verifica; 
7. quanto al Consiglio d’Istituto, si fa fatica a mettere insieme il numero minimo dei candidati e la maggior parte degli insegnanti e dei genitori si rende disponibile, spesso dopo molte insistenze, per spirito di servizio, ma è poco preparata e non ha neppure voglia o non viene messa in grado di approfondire i temi trattati; di conseguenza si discute poco e male, spesso non si raggiunge il numero legale e si rimedia segnando come presenti gli assenti consenzienti; 
8. molte segreterie lavorano ancora come vent’anni fa, non sanno usare bene gli strumenti informatici, tanto che ancor oggi in troppe scuole la comunicazione interna viene affidata unicamente al registro delle circolari; 
9. infine, per raggiungere gli ambiziosi obbiettivi che risuonano nelle leggi di riforma non ci sono neppure i soldi, spesso insufficienti anche per finanziare l’ordinaria amministrazione.
Di fronte a tutto questo ai legislatori sembra sufficiente proclamare la parole d’ordine “più autonomia”, la cui efficacia è chiaramente diventata una credenza indipendente dai fatti, cioè dalle concrete possibilità di realizzarsi.
Fatta questa premessa, utile a prevenire l’illusione che questa o quella legge (Aprea o non Aprea) produca risultati positivi senza che si siano risolti questi grossi problemi, restano pur sempre da sventare numerosi e gravi pericoli. Cercando però di individuare quelli veri e non quelli immaginari, tra i quali la gettonatissima “privatizzazione” della scuola.
Per cominciare a discutere, chi ne ha voglia può leggere o rileggere:
- il testo del disegno di legge approdato al Senato;
- il parere di Rino Di Meglio della Gilda degli Insegnanti, centrato sull’autoreferenzialità delle scuole;
- il parere di Francesco Greco dell’Associazione Nazionale Docenti, preoccupato per l'avvento del dirigente-autocrate;
- tre nostre note del 2009 a proposito del governo della scuola:
Insegnanti e genitori, Dal volontarismo alla competenza, Organismi studenteschi
Due raccomandazioni: nei commenti cerchiamo di essere sintetici compatibilmente con l’argomento e di attenersi al tema; chi legge il post provenendo da facebook ci farebbe un favore lasciando il suo commento sul blog (o anche sul blog), in modo da sviluppare un’unica discussione.
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