venerdì 15 maggio 2015

CHE BRUTTO ESEMPIO DÀ UN PROF, SE BOICOTTA IL TEST [“Il Corriere Fiorentino”, 15 maggio 2015]

Sono giorni brutti per la scuola, comunque la si metta e chiunque alla fine riesca a vincere la partita tra sindacati dei docenti e governo. È tuttavia incomprensibile che in questi giorni dei docenti siano arrivati a invitare i loro allievi a protestare contro le prove Invalsi, in alcuni casi suggerendo di non venire addirittura a scuola, senza neanche rendersi conto che queste iniziative li allontanano anni da quello che dovrebbe essere l'esempio educativo da dare ai ragazzi. Liberi i docenti di ritenere la riforma renziana sbagliata e liberticida; e liberi di attuare le forme di protesta che più ritengono necessarie, evitando però quelle deontologicamente esecrabili nel momento in cui coinvolgono i ragazzi e perfino i bambini in uno scontro che è essenzialmente politico. Per quel che riguarda invece l'oggetto del loro “scontento”, mi preme far presente che la riforma della scuola complessivamente non mi entusiasma, anche se contiene anche elementi positivi, a partire dal rafforzamento del rapporto tra scuola e mondo del lavoro, senza escludere le interessanti novità relative all'aggiornamento dei docenti e alle forme con le quali esso dovrebbe concretizzarsi, finalmente non calate dall'alto e affidate spesso a formatori che nella scuola non hanno mai messo piede e che quasi nulla sanno delle sue reali necessità. Non mi entusiasma in particolare l'essere equiparato al ruolo di sindaco. Senza nulla togliere ai sindaci, un dirigente scolastico non aspira, come mi confermano molti colleghi, a nessun ulteriore potere rispetto a quelli, fin troppi, che oggi ha. Quello che auspico è che finalmente questi poteri che la legge ci dà sia possibile esercitarli veramente, tutelandoci, per esempio, rispetto alla miriade di circolari e di decreti, e soprattutto dai contenziosi che quotidianamente ci sopraffanno.
Da qualche mese sono giustamente iniziate le verifiche sul nostro operato di dirigenti. E tra tante proteste di questi giorni, mi sarei aspettato che un qualsiasi sindacato o una qualunque associazione dei docenti italiani, oltre a dire no alla riforma nella sua interezza, avesse anche provato a fare qualche proposta per assicurare alle famiglie, agli studenti e alla società tutta degli insegnanti seri, preparati e onesti, magari auspicando che almeno il demerito grave, facilissimo da individuare, possa essere finalmente sancito in modo certo e tempestivo. Invece, da decenni, sulle responsabilità dei docenti regna l’inerzia più generalizzata; e anche quando alcuni di loro raggiungono le pagine di cronaca locale e perfino nazionale dei giornali in virtù della loro neghittosità, impreparazione o assoluta mancanza di deontologia, è assai improbabile che alla fine sia resa giustizia agli studenti e alle loro famiglie che li subiscono e che avrebbero il diritto di avere docenti seri e preparati (che peraltro sono la grande maggioranza).
Infine una curiosità: anni fa il sindacato che oggi è il più agguerrito nel contrastare la riforma renziana, la Cgil, ispirò, o comunque sostenne con convinzione, l'allora ministro Berlinguer, che decise di premiare i migliori docenti. Peccato che lo strumento individuato fosse una sorta di quizzone che fu allora definito “un’avvilente lotteria”, attraverso il quale due insegnanti su dieci avrebbe avuto un aumento di stipendio. Una proposta indecorosa spazzata via, allora, dalla protesta di centinaia di migliaia di docenti che riuscirono a farla cancellare; senza però coinvolgere i loro studenti, come si addice a dei seri professionisti e a degli educatori che hanno a cuore, insieme ai loro interessi, anche  la formazione e il rispetto dei loro ragazzi. 
Valerio Vagnoli

giovedì 14 maggio 2015

LA TESTIMONIANZA DI UN GENITORE SULL'INVALSI TAROCCATO E SULL’INTIMIDAZIONE DI UN’ ALLIEVA

Marcello Dei, il sociologo che ha dedicato alla scuola buona parte delle sue ricerche ed è noto per il libro RAGAZZI SI COPIA. A lezione di imbroglio nelle scuole italiane, ci ha inviato lo scambio di lettere con un genitore a proposito dello svolgimento dei test Invalsi in una scuola elementare, che pubblichiamo nelle parti essenziali, opportunamente modificate per non rendere riconoscibili i protagonisti. Riprendiamo quindi il tema, già trattato nei giorni scorsi, dell’assenza nella scuola italiana di qualsiasi riflessione sull’etica professionale, i cui principi fondamentali non dovrebbero mai essere sacrificati neppure alla più motivata delle battaglie, anche perché non mancano i mezzi per farsi sentire, come ha dimostrato lo sciopero del 5 maggio. Di particolare rilievo è il punto della responsabilità educativa, anche attraverso i comportamenti, nei confronti degli allievi. Ma sarebbe forse sufficiente prendere sul serio l’articolo 54 di quella Costituzione che in tanti sbandierano di voler difendere a ogni costo. Dice: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.  

Gentile professor Dei,
ho letto la sua intervista su “La Repubblica” in cui Lei  analizza il fenomeno del copiare tra gli studenti, ma anche il più misero fenomeno degli insegnanti che suggeriscono durante le prove Invalsi. Mia figlia frequenta la V elementare e ieri ha avuto il test di Italiano. Agli studenti dalla preparazione "più debole" era stata fatta qualche giorno prima una "moral suasion" da parte dell'insegnante per non farli venire a scuola nel giorno del test. L’insegnante di italiano aveva comunicato ai bambini che a causa dello sciopero previsto anche per il 6 maggio (sic), le date per le prove erano state spostate al 7 maggio per Italiano e l'8 maggio per matematica. La prova di Italiano si è svolta invece il 6 maggio, ma, grazie alla confusione generata e ai condizionamenti, all'appello mancava un terzo della classe, i meno preparati. La maestra che ha somministrato il questionario ha fornito anche venti risposte, soprattutto della parte grammaticale, praticamente esaudendo tutte le richieste di aiuto che i bambini avanzavano e andando anche oltre. Essendo la prova su test diversi, l'insegnante ha spostato di banco i bambini in modo che ogni allievo potesse avere accanto il compagno col medesimo test e ha lasciato che si confrontassero liberamente sulle risposte. Ha chiesto ai bambini di tenere per sé la cosa, di non farne menzione a casa, perché è illegale (!!!). Quale lezione si ricava da questo?
Lettera firmata 

Gentile signor T.,
allo squallore che lei racconta aggiungo una triste considerazione: l'Invalsi non dice chiaro e tondo quante porcherie accadono, al massimo rileva dei "comportamenti opportunistici". Per il ministro e il ministero il problema fino a oggi è non esistito.
Quali sono gli argomenti della contestazione delle prove Invalsi? Mettiamo che siano obiettivi nobili come l'uguaglianza sociale. Vogliamo raggiungerli con la frode attraverso gli imbrogli organizzati del popolo dei furbi? Temo che se gli educatori premiano l'imbroglio, finiranno per allevare generazioni di evasori fiscali e di individui atti ad attività – diciamo così – disinvolte. A loro insaputa, s'intende. I dati delle prove Invalsi si possono utilizzare in vari modi, in Finlandia sono serviti per varare politiche di sostegno alle fasce sociali deboli. 
Le invio un articoletto che ho terminato da poco e mestamente la saluto. 
Marcello Dei 

Gentile Professore,
ieri ho preso mia figlia di 10 anni all'uscita di scuola: era ammutolita dall'angoscia, distrutta. Ho dovuto farla camminare per ore prima di riuscire a tirarle fuori poche parole.
Nella scuola si era evidentemente diffusa la voce che ieri le cose non erano andate secondo le regole. […] Nei corridoi è cominciata la caccia e temo di essere proprio io nel mirino.  Ho in effetti dei precedenti: in passato ho scritto alla dirigente scolastica per i comportamenti inqualificabili di maestre esaurite. Per farla breve la maestra di matematica ha sottoposto mia figlia a vero e proprio interrogatorio. L'ha interrogata lungamente a quattrocchi, insistendo, pressando... Voleva sapere parola per parola quello che aveva riferito a me e a mia moglie, presentando la questione come tentativo di difendere una povera collega, incastrata da una "spiona". "Non devi coinvolgere i tuoi genitori, hai compromesso la mia collega, tu non devi raccontarle le nostre cose, se adesso passa un guaio sarà per colpa tua, ma non dicevi di volerle bene?” Stanotte nessuno dormiva. Mia figlia non vuole più tornare a scuola. […] Grazie per le Sue parole di solidarietà.
Lettera firmata

giovedì 30 aprile 2015

QUANDO CI SI SCORDA DI ESSERE INSEGNANTI

Nei giorni scorsi, alla festa bolognese del Pd, la ministra Giannini e Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd, sono state contestate da una cinquantina di docenti, genitori e studenti, che, nonostante la ricerca di dialogo testimoniata dalla Puglisi, hanno alla fine costretto le due a rinunciare all’incontro. Un caso palmare di intolleranza e di violazione del fondamentale diritto di espressione? Macché, una parte del Pd, per non parlare di Sel, se l’è presa con la ministra per aver definito “squadristi” i contestatori. Ad esempio, Guerini e Orfini, con uno spericolato esercizio del più puro cerchiobottismo, hanno dichiarato: “È sbagliato che si impedisca di parlare a chi presenta la riforma, così come è sbagliato bollare di squadrismo chi manifesta il proprio dissenso”. Nel giro di un breve periodo, quindi, i contestatori prima “impediscono di parlare”, ma subito dopo non fanno che manifestare il proprio dissenso. Fratoianni, esponente di Sel, ha rubricato l’episodio come “dialettica democratica”. Un gruppo di docenti ha diffuso su facebook un documento da firmare denunciando la grave offesa ricevuta dalla Giannini. “Noi siamo i partigiani della Scuola e della Democrazia, non gli squadristi. La Democrazia è un bene prezioso, e va difeso con le unghie, con i denti, con le pentole e con le urla”. Sono solo alcuni esempi fra i tanti, ma bastano a illustrare due realtà. La prima è la diffusa mancanza di consistenza e di rigore dell’idea di democrazia. Dovrebbe essere evidente che il “diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero”, garantito dall’articolo 21 della Costituzione, non tutela chi la pensa come noi (questo è accettato anche nelle peggiori dittature), ma chi ha idee opposte alle nostre, proprio quelle che ci fanno saltare la mosca al naso e torcere le budella. Molti presunti difensori della Costituzione, come gli estensori del documento citato, e moltissimi che predicano con sussiego “l’ascolto dell’altro e del diverso”, dimostrano nei fatti una soglia bassissima di tolleranza, soprattutto se l’altro ha convinzioni politiche diverse. La seconda realtà sottolineata da questo episodio e dalle reazioni suscitate è l’assenza di un’etica professionale condivisa e ben radicata fra gli insegnanti italiani. La correttezza dei comportamenti è affidata al buon senso e all’educazione dei singoli, ma non è mai stata sorretta da un’adeguata riflessione in proposito e tanto meno da principi codificati rispetto ai doveri verso gli studenti, i colleghi, i genitori e anche verso la dignità e il prestigio della professione. Anche per questo i contestatori di Bologna  non sono stati neppure sfiorati dalla preoccupazione di dare un esempio di comportamento antidemocratico ai loro studenti, contraddicendo quello che – almeno si spera – dicono in classe. Doppiamente sbagliato, dunque, il loro comportamento: come cittadini e come insegnanti.

martedì 31 marzo 2015

UNA MAMMA SCRIVE: MIO FIGLIO HA PERSO L'ENTUSIASMO PER QUESTA SCUOLA, TROPPA TEORIA E POCA PRATICA

Pubblichiamo la bella lettera che la madre di un allievo (Luca è un nome di fantasia) ha scritto al dirigente di un istituto professionale toscano. La lettera costituisce un’altra inequivocabile conferma della necessità di rivedere urgentemente il quadro orario degli attuali istituti professionali “licealizzati”, ridando molto più spazio all’apprendimento nei laboratori e potenziando l’alternanza scuola-lavoro e l’apprendistato. 

Gentile Preside, 
scrivo questa lettera, sperando che possa porre la sua attenzione alla mia esperienza scolastica, vissuta quest’anno con mio figlio Luca, e possa apprendere veramente le difficoltà che vivono le famiglie e i propri figli in età adolescenziale, quindi già molto critica di suo. Non tutti si nasce con la predisposizione allo studio, non siamo tutti uguali, c’è anche chi è predisposto per la pratica. Mio figlio Luca ha cominciato l’anno con molto entusiasmo, convinto della scelta scolastica che aveva fatto. Ma con lo scorrere dei mesi, qualcosa è cambiato, si trovava sempre più in difficoltà, troppe materie da studiare, e di ciò che lo aveva reso più entusiasta, cioè la pratica, c’erano pochissime ore. I mesi passavano e l’interesse si spengeva sempre  più, diventava sempre più sofferente e  svogliato. Ho cercato in tutti i modi di fargli capire che con un po' di impegno e costanza ce l’avrebbe fatta, ma lui mi ripeteva che non ce la faceva. “Mamma quando sono lì mi sembra che mi scoppi la testa!!” Ai primi colloqui con i professori ho cominciato a preoccuparmi, dicevano il ragazzo studia poco. Cercavo di capire attraverso il dialogo con lui cosa non andava, quali fossero i suoi disagi, ma tutto era inutile, anzi la mattina partiva da casa per andare a scuola e poi non frequentava. Il problema si ingigantiva sempre più e i pensieri anche… e lui continuava ad ammettere il suo sbaglio, ma si giustificava dicendomi che studiare per lui è pesante e  voleva fare una scuola dove ci fosse più pratica, ma qui questa possibilità non esiste. Il problema più grosso è che ragazzi come mio figlio non vengono stimolati, anzi, in un età comunque molto critica come l’adolescenza tendono a mollare, a prendere la strada più facile perdendo così stima di se stessi. Allora io mi chiedo perché una scuola professionale, che dovrebbe preparare a livello anche lavorativo qualificato, non inserisca più ore di laboratorio. Magari metà delle ore potrebbero essere di studio per le loro basi, che sono molto importanti, e metà di pratica che li formeranno sulla loro professionalità lavorativa; solo così avrebbero un grosso stimolo. Invece pretendiamo  che frequentino perché è scuola dell’obbligo, senza dare loro l’opportunità e il giusto stimolo alla professione che hanno scelto di fare. Il rifiuto, o l’indifferenza, la vogliamo noi, e così usiamo violenza psicologica senza  soffermarsi ad ascoltare le esigenze dei nostri figli, che proprio in questa fase così critica dovranno gettare le basi del proprio futuro e nel loro piccolo hanno i loro modi di pensare e di agire. Impariamo ad ascoltare di più le loro esigenze, magari è un modo di stimolarli per la loro crescita. Solo attraverso l’ascolto possiamo capire i loro disagi, solo così possiamo davvero aiutarli, altrimenti avremo risultati peggiori, creando grossi problemi alle famiglie che non sanno più come gestire tali situazioni. Purtroppo, non tutti si nasce con la dote dello studio, ma non per questo non si può diventare delle grandi persone. Diamo la possibilità di crescere anche a chi ha doti di praticità. La mia nonna diceva: “Con la forza non si fa nemmeno l’aceto”. Io quest’anno ho lottato con tutte le mie forze e tanto sacrificio, usando tutte le strategie possibili, con le buone e con le cattive, per fargli capire che lo studio è una cosa importante che è alla base del proprio futuro e senza di esso non ci sono molte opportunità lavorative. Purtroppo funziona così, non è una scelta ma un obbligo, ma il giusto stimolo deve arrivare anche dalla scuola, altrimenti tutto il da fare non serve a niente, anzi si arriva al rifiuto totale. La mattina Luca partiva per andare a scuola ma in realtà non ci andava, ero disperata e tutte le sere era la stessa romanzina, non sapevo più come prenderlo. Lui rimaneva sempre molto remissivo, come se mi volesse chiedere scusa… ma era più forte di lui… Quando una sera dopo l’ennesima romanzina gli dissi. “Ti rendi conto di sbagliare? Almeno abbi il coraggio di esprimere quello che senti!” Lui mi espose di nuovo i suoi pensieri, dicendomi che si rendeva conto di sbagliare nei nostri confronti, è che la scuola che aveva scelto gli piaceva, voleva soltanto più pratica e meno studio. Quella sera ripensai a tutto ciò che aveva detto. Ma perché devo imporre una cosa a mio figlio, quando comunque è un ragazzo in gamba, educato, rispettoso e anche per tanti versi responsabile. Ha solo poca voglia di studiare ma tanta di imparare, io lo vedo  in casa, mi aiuta a preparare la cena, apparecchia e poi fa delle crepes favolose; perché devo fargli violenza psicologica, non lo trovo giusto. Ascoltandoli possiamo ottenere di più e con il giusto canale, che in questo caso è  la scuola, potremmo stimolare le loro potenzialità, questa è l’età giusta per incoraggiarli. Io sono qui a scrivere questa lettera, per chiedere che le scuole professionali diano la possibilità di crescere anche a questi ragazzi stimolandoli attraverso la pratica, inserendo più ore di laboratorio, magari tre giorni di teoria e tre di pratica, fin dal primo anno, anzi è proprio qui che andrebbero aiutati di più e poi chissà. Magari, anche chi ha meno voglia prende un andamento diverso, altrimenti sono anni persi, soldi persi e comunque disagi per le famiglie. Diamo la possibilità a questi ragazzi di crescere e di farsi un futuro e non di perdere due anni della loro vita. Solo così potremmo ottenere di più. Diamogli i mezzi per accrescere le loro potenzialità anche pratiche. Ringrazio per l’attenzione.

giovedì 19 marzo 2015

LO STILE EDUCATIVO PATERNO: UN RECUPERO NECESSARIO

La festa del papà può anche essere utile se induce a una riflessione sul ruolo del padre. Per esempio a partire da un bel libro del 2006, ma ancora disponibile, dello psicoterapeuta Osvaldo Poli: Cuore di papà (sottotitolo Il modo maschile di educare). Un testo importante per i genitori, ma anche per gli insegnanti e per tutti gli educatori, soprattutto in una cultura, come la nostra, maternalizzata all’eccesso, in cui cioè si tende a utilizzare in modo quasi esclusivo lo stile educativo materno, legato alla cura e alla protezione, e a evitare sempre e comunque ai figli l’incontro con prove, difficoltà, limiti, sofferenze, con il risultato di renderli fragili. Lo stile paterno tende invece a mettere i figli di fronte alla realtà. Usa un linguaggio più diretto e franco, è meno disposto ad abbassare gli ostacoli, sopporta meglio la paura di far soffrire i figli quando è necessario dire la verità o spingerli ad affrontare le difficoltà oppure ad assumersi le loro responsabilità.
Poli fonda la sua riflessione “sul presupposto antropologico che esista un’originaria diversità, che caratterizza l’uomo e la donna sul piano fisico, psicologico e spirituale; e che le differenze di genere non siano riconducibili ad una sovrastruttura culturale, dal cui potere di condizionamento sia desiderabile e possibile liberarsi”. Ma avverte anche che “gli stili educativi paterno e materno sono presenti solo in termini di prevalenza nei papà e nelle mamme concreti, ed è certo che molte madri si riconosceranno maggiormente nel profilo qui indicato come maschile più che in quello femminile”. Facendosi “contaminare” dalle rispettive sensibilità, i genitori possono costruire una cultura educativa di coppia, in cui i due stili educativi, entrambi necessari, si completano e si armonizzano.
Naturalmente la riflessione è estremamente utile anche per la scuola, il cui primo gradino non a caso si chiamava “scuola materna”, ma che, in quanto ha il compito di introdurre nel mondo le nuove generazioni, non può assolutamente permettersi di trascurare il codice paterno; come purtroppo colpevolmente sta facendo da decenni. (GR)

mercoledì 11 marzo 2015

FARAONE SULLE OCCUPAZIONI? È STATO EQUIVOCATO...

(Da "TuttoscuolaFOCUS") ___ È la sottosegretaria ai Beni culturali Francesca Barracciu a rispondere, in commissione Cultura della Camera, a una interrogazione di Forza Italia - a prima firma Antonio Palmieri - sulle dichiarazioni rilasciate dal sottosegretario all'Istruzione Davide Faraone ad un quotidiano nazionale sulle occupazione e le autogestioni.
"In via preliminare occorre precisare che si parte da un equivoco interpretativo di quella che è stata un'opinione circa il fenomeno delle occupazioni", ha premesso Barracciu, e in ogni caso "nell'articolo in questione è stata riferita un'esperienza personale che, in quanto tale, non dovrebbe essere sottoposta a giudizio e soprattutto non dovrebbe essere presa ad esempio per generiche strumentalizzazioni".
Tra le affermazioni riportate nell’interrogazione Palmieri aveva ricordato che “Faraone ha sostenuto che le occupazioni e le autogestioni scolastiche sono 'esperienze di grande partecipazione democratica' e che 'in alcuni casi sono più formative di ore passate in classe'”.
Il sottosegretario ha osservato che “le occupazioni e le autogestioni possano rappresentare anche occasioni formative nella misura in cui si traducano in momenti di confronto e di ascolto. Infatti simili contesti possono porre gli studenti in una situazione in cui sono chiamati a prendere posizione, e spesso è proprio questo che viene rimproverato ai giovani: non prendere decisioni e non assumersi responsabilità".
Lo stesso Faraone, ricorda Barracciu, ha peraltro ribadito che le occupazioni sono comunque illegali, asserendo che chi intende fare lezioni deve essere libero di farlo e soprattutto ha stigmatizzato ogni tipo di violenza e vandalismo perché “’La scuola è un bene comune: chi lo deturpa o - peggio - lo vandalizza si esclude dal confronto e merita solo la punizione più severa prevista dalle nostre leggi'".
Dunque per Barracciu "le affermazioni rilasciate, nel loro insieme, secondo le intenzioni del sottosegretario, intendevano principalmente sollevare, in sostanza, una questione fondamentale: gli studenti sono persone in grado di pensare, proporre, scegliere e organizzare iniziative, come dimostrano le esperienze positive di molte scuole che hanno realizzato autogestioni e cogestioni. Il loro protagonismo deve essere rispettato e promosso e in tal senso la scuola è chiamata a costruire contesti in cui la capacità di discutere e di creare le basi per un confronto venga sperimentata ed esercitata in concreto, nel rispetto delle regole democratiche e delle persone".  (6 marzo 2105)

sabato 28 febbraio 2015

RELAZIONE INTRODUTTIVA ALL'INCONTRO-DIBATTITO "UNIFICARE ISTRUZIONE E FORMAZIONE PROFESSIONALE?"

Si è tenuto ieri pomeriggio a Firenze l’incontro-dibattito Unificare l’istruzione e la formazione professionale?, a cui hanno partecipato, oltre al relatore principale, il professor Michele Pellerey, il sottosegretario all’istruzione Gabriele Toccafondi e l’assessore regionale all’istruzione e alla formazione Emmanuele Bobbio, tutte e due autori di ampi interventi. Pubblichiamo la relazione introduttiva di Valerio Vagnoli, membro del Gruppo di Firenze e dirigente dell’Istituto Alberghiero “Aurelio Saffi”.
Buonasera, vi ringrazio per la partecipazione e mi fa piacere notare che diversi di voi furono presenti anche al nostro primo convegno sulla formazione professionale del novembre 2009 all'Istituto degli Innocenti. Dal quell’incontro uscì, di fronte alla constatazione delle evidenti disfunzionalità del percorso statale di istruzione professionale, una proposta ben precisa che l'anno seguente sarebbe stata fatta propria anche da 85 presidi toscani e che consisteva nel richiedere alla costituenda Giunta regionale di avviare in tutte le provincie e in un certo numero di istituti la sperimentazione di percorsi triennali di formazione professionale a cui accedere dopo l'esame di licenza media.
Le cose per un po’ andarono diversamente; la Regione Toscana adottò infatti il sistema integrato che, seppure scelto dalla maggior parte dei ragazzi, non ha evitato che l'abbandono scolastico continuasse ad essere tra i più preoccupanti dell'intero Paese. Negli ultimi anni qualcosa è iniziato a cambiare e finalmente, proprio in accordo con la Regione, si stanno sperimentando in due istituti alberghieri dei percorsi complementari che dal prossimo anno scolastico saranno offerti anche da altre scuole e per altri indirizzi. La sperimentazione, come sapete, è resa possibile grazie alle quote di flessibilità e alla condivisione delle stesse quote con l'Ufficio scolastico regionale. In virtù di tutto ciò è possibile togliere dal curriculum, ore di alcune discipline dell'area comune per far posto ad  altre ore delle cosiddette materie di indirizzo. Tutto all'apparenza sembrerebbe tornare, se non vi fosse alla base la sconcertante realtà dei nostri quadri orari, che ci impongono fino a quindici materie; e pur utilizzando l'intera quota del 25% , alla fine si può tagliare ogni anno al massimo una disciplina e qualche ora all'una o all'altra materia. 
Quello che mi mancherà di più quando lascerò la scuola, sarà l'incontro al mattino presto con i ragazzi nel parco-giardino che porta all'ingresso dell'Istituto. E passando tra i tanti gruppetti di ragazzi che, provenendo da lontano come accadde a me studente sostano fino all'ultimo minuto all'interno dei loro capannelli, così spesso mi capita di scambiare con loro brevi saluti e qualche battuta, e da parte loro avverto un naturale senso di fiducia e di disponibilità ad affidarsi agli adulti, all’istituzione scuola e anche a me che salutandoli e chiedendo loro come va, sento il dovere e la responsabilità di rappresentarla. Un’istituzione, però, che da lì a poco rappresenterà invece per molti di questi ragazzi la loro sconfitta, la loro capitolazione. Alla fine della lunghissima mattinata, li sentirò scappare in rumorosa fuga da una scuola che nel voler dar loro troppo, gli nega alla fine la possibilità di poter apprezzare il poco, ma di grande qualità, che ogni buona scuola deve dare ai propri allievi. E invece nei professionali tutto è troppo: sono troppi i bocciati, troppi i DSA, troppi gli abbandoni, troppi i disabili, troppi i docenti non di ruolo, troppi i problemi di ogni sorta e troppe, assolutamente troppe, le discipline.
Intendiamoci, la novità di questi percorsi complementari è comunque rilevantissima, perché costituisce un passo nella giusta direzione, anche se non sufficiente, per dare alla formazione professionale quel senso di completezza a cui pure aspireremmo. Ma sappiamo che nella vita la norma non è conquistare subito il massimo. E infatti, a un anno e mezzo dall’inizio della loro sperimentazione, si possono già cogliere alcune criticità sulle quali è giusto riflettere. Non mi dilungo sugli aspetti positivi, evidentissimi già nell'aver quasi  dimezzato, rispetto al percorso integrato, la percentuale di dispersione scolastica e aver tenuto a scuola, solo in virtù delle loro ottime performance in laboratorio, ragazzi che da tempo avremmo sicuramente perso, qualcuno magari avviato per strade assai pericolose.
La maggiore di questa criticità è data dal rischio di identificare questi percorsi come un'ulteriore differenziazione in negativo dell'istruzione-formazione professionale. Già io stesso, pur attento affinché ciò non accada, ho più di una volta accettato che alcuni ragazzi transitassero alla fine nel percorso complementare, pur di evitare che abbandonassero a metà della prima o della seconda classe la scuola, perché non essendo  magari ancora sedicenni non sarebbero stati accolti nei percorsi per i cosiddetti drop-out; e non passa settimana che qualche consiglio di classe o qualche docente di sostegno non mi chiedano di accogliere ora uno ora l'altro ragazzo in difficoltà. Questo è uno dei motivi che consigliano di andare verso un unico modello, che integri l'istruzione e la formazione professionale avvicinandosi sempre più a quello trentino, che come saprete si basa su tre gambe: i licei, l’istruzione tecnica e la formazione professionale. Quest’ultima si sviluppa verso l’alto fino a poter approdare ad una vera e propria alta formazione. Un modello chiaro, lineare e percepibile come realmente efficace, anche da parte dei ragazzi e delle loro famiglie, ai fini di una adeguata preparazione al lavoro. Solo così si potrà evitare quello che anche da noi troppo spesso accade; e cioè che la scelta di un professionale rappresenti l'ultima scelta, o ancora peggio, una non scelta in attesa che accada qualcosa. Un secondo, importante motivo per puntare in questa direzione mi pare questo: la formazione professionale è ben sviluppata solo in poche regioni, mentre in molte altre è nel migliore dei casi embrionale. Invece, esistono ovunque gli istituti professionali statali, con i loro laboratori, oggi in genere sottoutilizzati, e le loro sperimentate competenze professionali. Da questi si deve ripartire, naturalmente “delicealizzandoli” quanto prima.  D’altra parte essi sono destinati comunque a cambiare, se diverranno presto realtà le 200 ore annue di alternanza scuola lavoro previste dalla Buona Scuola e se si svilupperà l’apprendistato come strumento di apprendimento e insieme di ingresso nel mondo del lavoro. In ogni caso, bisognerà a mio avviso superare il ruolo residuale della formazione professionale, sottoposto, per trovare un suo spazio, al duplice filtro delle scelte regionali e di quelle in capo a ciascuna scuola, in cui le inevitabili preoccupazioni e timori per il proprio immediato futuro, in particolar modo dell'organico preesistente,  fanno comprensibilmente velo all’interesse della scuola nel suo insieme. A noi invece  pare una scelta strategica che dovrebbe essere offerta a tutti i ragazzi su tutto il territorio nazionale. Capita a volte, parlando con colleghi refrattari ad un sistema del genere, che io indichi   come modello a cui guardare, proprio il successo dell'esperienza trentina di fronte al quale,  certi colleghi non potendo argomentare altre critiche, finiscono col rispondere che essa è improponibile perché nessun altra regione ha la fortuna di avere i finanziamenti che lo Stato trasmette al Trentino.  Nessuno si chiede però quanto costi all’erario sostenere un modello che non funziona e che  negli anni lascia per strada  centinaia di miglia di studenti per i quali dovranno poi essere attivati ulteriori e ripetuti corsi  di formazione e di riqualificazione.
Per il momento il rischio che dovremmo evitare è quello di creare confusione permettendo alla stessa scuola di affiancare al percorso statale sia il modello integrato che quello complementare. Più in generale, quello che mi preme con forza sottolineare è la necessità di tornare a guardare con il principio di realtà l'anima della stessa nostra Costituzione, che si riferisce direttamente e indirettamente ai nostri giovani laddove essa sottolinea il diritto di ciascun ragazzo ad avere  l’opportunità per crescere secondo le proprie attese e le proprie capacità, per diventare un adulto responsabile e civilmente consapevole. Invece il fallimento è sotto gli occhi di tutti, o almeno di tutti coloro che non sono accecati dalle certezze ideologiche che impediscono di vedere la realtà, di fare i conti con essa perché tesi (in buona fede) a pianificare la vita di intere generazioni appiattendole su un’istruzione voluta uguale per tutti addirittura fino ai 16 anni. Sarebbe questa una scelta alla fine irrispettosa dei giovani, che hanno il diritto di fare delle scelte ben prima della loro giovinezza, prima cioè che sia tardi per imparare bene quello che ci serve per crescere bene, sia pure questo l'apprendimento di una professione e di un lavoro. Di quanto sia diffusa  questa mancanza di rispetto nei confronti della formazione dei ragazzi ne è prova la recente proposta di legge d'iniziativa popolare che prevede addirittura un biennio unico con qualche ora orientativa e nessuna funzione della formazione professionale se non dopo i 18 anni. Positivi invece sono i punti presenti nel documento governativo in relazione alla valorizzazione del rapporto tra scuola e lavoro, anche se, purtroppo, nulla si dice in tutto il documento su una condizione che deve essere ineliminabile per tutti gli indirizzi scolastici; e cioè un richiamo forte all'impegno e alla serietà con cui, nel loro stesso interesse, gli studenti devono affrontare qualunque percorso scolastico, perché è solo la carenza di preparazione che separa le persone e le proietta verso un futuro più o meno svantaggiato. Non è il lavoro diverso che si troveranno a svolgere a farli cittadini più o meno dotati di dignità, ma come lo faranno e con quale consapevolezza e preparazione lo sapranno fare. Nessuno di noi, tantomeno il sottoscritto, vorrebbe cancellare l'importante ruolo formativo che hanno le cosiddette materie di base e comuni a tutti, e fra queste si deve senz'altro oggi annoverare anche la lingua inglese. Ma da insegnante avvezzo a lavorare con ragazzi refrattari alla scuola, quella tradizionalmente intesa in quanto impegnata a trasmettere importanti saperi di base, posso invece dire con tutta franchezza che questa cultura è spesso recuperabile solo se prima appassioniamo certi studenti a qualcosa di pratico, di concreto. Negli anni successivi si potrà fare leva su questa passione per far poi loro apprendere concetti fondamentali del sapere astratto, ancora non fatto odiare del tutto, come spesso accade con l’attuale struttura dei professionali.
Non sto a ripetere quello che da anni ho scritto e detto sulla insufficienza, che in alcune regioni arriva addirittura all'assenza, della nostra formazione professionale: peraltro oggi molto meglio di me ne parleranno altri, in primo luogo il professor Pellerey.  
Ora, seguendo da molti anni, direi da decenni,  l’istruzione e la formazione professionale, difficilmente troviamo, tra coloro che sostengono la necessità di una scuola uguale per tutti almeno fino ai 16 anni, indicazioni convincenti su come superare la catastrofe didattica di cui vi ho parlato poco fa. Salvo il rimandare il problema della formazione ad età comprese tra i 16 e i 18 anni o all'utilizzo della didattica laboratoriale, sarà difficile trovare proposte credibili e realistiche circa il dramma dell'evasione scolastica. E gli stessi dovrebbero pur dirci qualcosa a proposito degli effetti di questo prolungamento dell'adolescenza, in Italia più accentuato che in altri paesi, o forse meglio dire che in tutti gli altri paesi del mondo, e non lasciare solo alla ex ministra Fornero o al compianto Padoa Schioppa il compito di sollevare per un attimo, con una battuta, il velo su questa situazione. Bisogna in ogni caso rifiutare l’idea che si è cittadini veri e fortunati solo se abbiamo studiato ai licei. Agli sfigati i lavori manuali, come era scritto e rimasto a lungo ben in vista lo scorso anno alla finestra di un'aula della scuola ( tecnico e liceo ) dirimpettaia alla mia. Senza parlare poi delle prevenzioni e dei pregiudizi che resistono tra alcuni docenti delle medie: come dimenticare l'umiliazione subita da una ragazzina, lo scorso anno, che avendo la media del dieci fu aspramente redarguita dalla sua docente di lettere perché avrebbe sprecato la sua intelligenza, se si fosse iscritta, come poi avvenne, all'Istituto alberghiero! E qui in sala i docenti dei professionali che fanno orientamento alle medie ne avrebbero di storie da raccontare!!!
Da anni sembra diventata un sorta di mantra l'idea che sarà la didattica laboratoriale, beninteso importante, a salvare i ragazzi dai loro fallimenti scolastici. Credo però che insieme a questa vadano ripresi altri modelli di apprendimento, senza escludere quello ripetitivo. Un apprendimento che per certi luminari della pedagogia istupidisce la mente. Ma negli istituti professionali tedeschi, che ho visitato di recente, viene invece considerato indispensabile, perché solo attraverso l’esercizio più volte ripetuto è possibile affinare la tecnica, immedesimarsi alla fine col lavoro che facciamo.  Gli studenti di musica e tutti i bambini che fanno sport, o che si cimentano per la prima volta con un nuovo gioco, sanno bene quanto sia fondamentale l'esercizio ripetitivo per diventare sempre più competenti nelle attività e nelle discipline che si affrontano. È in particolare grazie alla mano che molte cose, molti concetti entrano nella nostra testa.  Ed invece è proprio la mano, il lavoro manuale, beninteso finalizzato anche a riscrivere esercizi e costrutti di ogni sorta o finalizzato al disegno, che abbiamo voluto bandire ad ogni costo dalle aule scolastiche trasformando anche gli istituti professionali in quella sorta di casa degli orrori formativi che sono, appunto, oggi, certi istituti professionali. Limitandomi all'unico professionale che conosco, direi, abbastanza bene, non ho timore di alcuna smentita nell'affermare che alla fine dei cinque anni, magari anche in presenza di pluriripetenze, la maggioranza dei ragazzi che escono col diploma di sala e cucina rifiuta d'impiegarsi, pur essendovi nel settore ampie possibilità d'impiego. Noi stessi che gestiamo un nostro ristorante scolastico e che abbiamo, ingrandendoci, necessità di assumere altri ex nostri studenti,  incontriamo grandissime difficoltà non dico a selezionare, ma addirittura a trovarne qualcuno disposto a impiegarsi pur a tempo indeterminato e con l'assoluta certezza che non andrà incontro a nessun tipo di sfruttamento. Queste sono le conseguenze dell’aver voluto a suo tempo sostituire la tradizionale eccellente formazione alberghiera con una sorta di liceo professionale che aprisse a tutti i diplomati la possibilità di accedere a qualsiasi facoltà universitaria, ma purtroppo non ad un lavoro qualificato. In nome della superiorità della cultura diciamo così astratta, per decenni alla fine della terza si è chiuso qualsiasi rapporto con le attività di laboratorio (solo dall’anno scorso ci sono due ore di laboratorio alla settimana), demandando l'esperienza pratica a due-tre settimane di tirocinio per ciascun rimanente anno. Le medesime due-tre settimane di tirocinio annuale che mi sembra siano rilanciate nella proposta di legge d'iniziativa popolare a cui accennavo poco fa.
Si possono immaginare le conseguenze di tutto ciò sul turismo e sulla qualità dell'ospitalità anche gastronomica, tanto che ogni anno, anche per questo, scivoliamo sempre più in basso nelle graduatorie internazionali. Tanti turisti stranieri, spesso  i migliori perché viaggiano osservando oltre che consumando,, rimangono sbalorditi dal pessimo servizio che in genere incontrano in questo Paese  nei ristoranti, nei bar e negli hotel ove pur pagando, sembrano trattati da chi riscuote come se si trattasse di ruoli invertiti. Ma una approssimazione nella preparazione professionale in genere non reca s danni soltanto  all’economia e all’occupazione.  Gli istituti professionali hanno il fine d'insegnare ai ragazzi a svolgere bene un lavoro e, citando Richard Sennet “a mettere in grado gli individui di governarsi e dunque di diventare bravi cittadini. La cameriera industriosa tenderà a dimostrarsi una brava cittadina assai più della sua annoiata padrona. […] Nel corso della storia moderna, la convinzione che il lavoro ben fatto sia il modello di una cittadinanza consapevole andò deformandosi e pervertendosi, per finire nelle vuote e deprimenti menzogne dell'impero sovietico. […] Il nostro intento è quello di recuperare in parte lo spirito dell'Illuminismo adattandolo al nostro tempo. Vogliamo che l'attitudine al fare, che è comune a tutti gli uomini, ci insegni a governare noi stessi e a entrare in relazione con altri cittadini su tale terreno comune”. ( L'uomo artigiano, Feltrinelli ) Così Richard Sennet!
Per quel che mi riguarda, non rinuncio a sperare che quanto prima i miei studenti che saluto al mattino prima di entrare a scuola abbiano addosso, all'uscita, solo la fretta per la corriera che parte e non la rumorosa rabbia di chi non ha avuto quello che si aspettava dalla sua scuola, dalla nostra scuola. I modelli per cambiare esistono, in Italia e in altri paesi europei, ed esistono le persone in grado di farlo. E deve alla fine pur esistere la concreta consapevolezza che la scuola professionale ha il compito straordinario di trasmettere ai ragazzi il senso più profondo di sé e il loro  talento nel fare bene il lavoro che fanno, il lavoro  che faranno.  Ed è questo e solo questo, per dirla con Vittorini, che fa l'uomo più uomo, e può rendere un’adolescenza ricca di aspettative e di contentezza di se stessi. Così i ragazzi restituiranno alla collettività, che ha investito su di loro, la certezza di essere dei bravi cittadini perché aiutati a trovare la loro strada senza, appunto, abbandonarli alla strada,  come non è più tollerabile debba continuare ad accadere.
Beata la scuola e la società che contribuiranno a formare cameriere industriose piuttosto che persone frustrate e annoiate come spesso, sempre più spesso invece accade.
Valerio Vagnoli

venerdì 6 febbraio 2015

LETTERA AI GENITORI DELL'ISTITUTO ALBERGHIERO "SAFFI" DI FIRENZE

Cari genitori,
su mia richiesta, stamattina è intervenuta la Polizia con i cani antidroga per controllare sia gli spazi esterni che quelli interni, comprese alcune classi  scelte casualmente a campione.
Grazie a questo intervento sono state trovate alcune sigarette (spinelli) e piccole quantità di marijuana  nascoste nei luoghi più impensati dell’edificio. Sono stati però rinvenuti alcuni trita marijuana e questo fa pensare ad un discreto consumo quotidiano da parte di più studenti.
Ci tengo a dire che la nostra non è una eccezione e nei giorni scorsi altre quantità di droga sono state trovate in altri istituti a conferma che quello della droga è un problema generalizzato, come era del resto già noto.
Ho sempre ritenuto giusto che per debellare il problema, o almeno cercare di farlo, sia necessario affrontarlo alla luce del sole, senza timore di aprire le porte alle forze dell’ordine che, peraltro, si sono dimostrate professionalmente ineccepibili e rispettose dei ragazzi e dell’ambiente scolastico.
Sono certo che questo intervento, che non resterà isolato, trasmetterà ai ragazzi un messaggio molto concreto sui rischi che essi corrono, anche penalmente, facendo uso di droghe.
Come sapete, la scuola si adopera anche con altre iniziative per mettere in guardia i ragazzi dai rischi degli stupefacenti. Confido naturalmente  che anche Voi cogliate questa occasione per mettere in guardia i vostri figli. Sono certo, come Dirigente scolastico,  che le famiglie siano meglio tutelate e rassicurate dall’affrontare apertamente il problema anche attraverso l’aiuto delle Forze dell’Ordine.
              
Firenze, 4 Febbraio 2015                                     Il Dirigente scolastico
                                                                                  Valerio Vagnoli

sabato 31 gennaio 2015

LA SCUOLA VA MALE PERCHÉ I DOCENTI HANNO IN MEDIA 53 ANNI? UNA LETTERA AL DIRETTORE DEL “CORRIERE”

Qualche giorno fa Gian Antonio Stella ha commentato con abbondanza di confronti internazionali i dati sull’età media elevata degli insegnanti italiani. Il problema non è nuovo e risaputa ne è la causa fondamentale: i numerosi aumenti dell’età pensionabile degli ultimi vent’anni. Stella lo tratta in tono catastrofista, quasi avesse trovato l’origine di tutti i mali della scuola. Non è un problema da trascurare, soprattutto per la scuola dell’infanzia e la primaria che richiedono maggiore energia; ma non è certo il motivo principale della crisi, anche considerando che l’esperienza può compensare in parte il logorìo di una professione sempre più impegnativa. Anche ben oltre i cinquant’anni si può essere motivati, purché il governo della scuola dia ai docenti mezzi e stipendi adeguati, dirigenti preparati e ben retribuiti, edifici confortevoli e funzionali; e ne sostenga l’autorità di fronte alle famiglie e agli studenti, ai quali invece indirizza spesso messaggi demagogici e deresponsabilizzanti. Di fronte a questa semplificazione, un docente romano si è risentito e ha scritto al “Corriere”. Enrico Rufi, giornalista di “Radio Radicale” gli ha dedicato un efficace servizio. (GR) 

L’articolo di Gian Antonio Stella.