mercoledì 23 dicembre 2009

QUALE EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA?

di Marcello Ostinelli

Nelle scorse settimane si è sviluppata sulle pagine culturali di alcuni quotidiani italiani una vivace discussione sulla legittimità e sulla validità dell’educazione civica nella scuola pubblica. Essa è stata occasionata dalla decisione del ministero italiano della pubblica istruzione di introdurre in tutti i curricoli scolastici, dalla scuola dell’infanzia alle scuole secondarie di secondo grado (come i licei), un insegnamento obbligatorio di un’ora settimanale di “Cittadinanza e Costituzione”.
A scatenare la polemica è stato un intervento di Ernesto Galli della Loggia che, sulle pagine del “Corriere della Sera”, ha accusato il progetto ministeriale di voler trasformare la democrazia in un catechismo, fornendo per giunta un’ulteriore spinta verso il declino dell’istituzione scolastica, che è costretta vieppiù a diventare una “insignificante agenzia di socializzazione”, “dedita alla prescrittiva somministrazione diretta di tavole di valori, meccanicamente desunte da un dover essere civico-ideologico”. Mettendo “l’Educazione al posto dell’Istruzione, l’Ideologia al posto della Cultura”, vi sarebbero “le premesse per uno Stato etico”, ha concluso Galli della Loggia. Gli hanno fatto eco altri commentatori, più o meno autorevoli, ma quasi tutti schierati sulle stesse posizioni. Carlo Lottieri ha sostenuto, sulle pagine de “Il Giornale”, che “l’idea d’introdurre un corso che insegni i valori della Costituzione e faccia tutti consapevoli dei diritti e doveri di cittadinanza ha ben poco di liberale”, tanto che, secondo lui, non sarebbe fuori luogo considerare l’ora di educazione alla cittadinanza come “l’ora di religione di quanti non credono più in Dio, ma nello Stato”. Susanna Tamaro, dal canto suo, si è spinta ancora più in là, affermando senz’alcuna riserva che la Costituzione non è un testo rilevante nella formazione della persona e vantandosi per giunta di non conoscerla, anzi “di non averla mai letta”.
Non interessa qui ovviamente discutere la proposta dell’attuale ministro italiano della pubblica istruzione. Giova invece riprendere quegli aspetti della discussione che sono rilevanti anche per chi dal progetto ministeriale italiano non è toccato e che riguardano, come già si diceva, la legittimità e la validità dell’educazione alla cittadinanza nella scuola pubblica di uno Stato democratico.
Va detto anzitutto che sotto l’etichetta di educazione della cittadinanza ci possono stare cose molto diverse. Non è difficile capire che ciò che un tempo veniva designata istruzione civica (o anche, più semplicemente, civica) un posto di diritto nell’educazione alla cittadinanza ce l’abbia. La conoscenza delle istituzioni politiche fondamentali dello stato, delle loro funzioni e delle loro procedure, dei principi dello Stato di diritto sono ovviamente un elemento essenziale della formazione del cittadino. Di certo, se di questo soltanto si trattasse, nessuno avrebbe verosimilmente eccepito contro l’educazione alla cittadinanza; al più avrebbe consigliato al ministro italiano di limitarla alla scuola secondaria. C’è pure chi crede che essa consista anche di ciò che nella lingua di Voltaire si dicono le civilités, vale a dire la creanza, le buone maniere, il rispetto delle regole di convivenza, indispensabili a scuola come in ogni altro momento della vita associata. Anche su questo c’è poco da dire, a parte il fatto che le civilités interessano l’attività didattica di ogni disciplina, dalla lingua materna all’educazione fisica. Oltre alla civica e alle civilités nell’educazione alla cittadinanza c’è tuttavia ben altro, per l’appunto ciò che ha scatenato il coro dei suoi oppositori italiani: l’educazione ai valori democratici, quei valori che sono a fondamento della convivenza civile in una società pluralistica e multiculturale.
Ha ragione chi ritiene che l’educazione ai valori della cittadinanza democratica apra la strada al “catechismo di Stato”?
In verità l’obiezione di Galli della Loggia e di Lottieri non è nuova e di per sé potrebbe valere per qualsiasi finalità educativa della scuola pubblica. Quale sia l’estensione del compito educativo che la società assegna alla scuola pubblica (che, è bene non dimenticarlo, è scuola di tutti), c’è sempre il rischio che esso interferisca arbitrariamente nelle credenze dei cittadini. In effetti il compito educativo della scuola pubblica di uno Stato democratico dev’essere compatibile con il diritto (non assoluto) dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni religiose o filosofiche (purché esse siano ragionevoli). L’educazione del futuro cittadino che si compie a scuola deve rispettarle. Quando fosse così, il contenuto dell’educazione alla cittadinanza non potrà essere giudicato settario o fazioso. Esso trova infatti la sua giustificazione in quei valori politici comuni che ogni persona ragionevole è in grado di riconoscere come condizione necessaria della convivenza civile di cittadini liberi ed eguali. Nella misura in cui non si estende oltre, l’educazione alla cittadinanza è legittima; se invece va oltre, essa arrischia di compiere quel passo verso lo Stato etico, paventato da Galli della Loggia.
Può sembrare un’ovvietà. A chi la pensasse così, si dovrebbe ricordare che in una società pluralistica e multiculturale che voglia prendere sul serio i diritti delle minoranze, molte cose che ai più sembrano ovvie non lo sono necessariamente per altri. Quel che è certo è che la convivenza civile di persone libere ed eguali non si riduce ad un mero modus vivendi, in cui gli individui perseguono i loro scopi egoistici senza alcuna considerazione di quelli degli altri; ed è pure altra cosa da uno Stato etico, che invece nega agli individui il diritto di realizzare nelle loro vita la concezione del bene a cui vorrebbero aderire.
Tra questi due estremi si colloca lo spazio legittimo entro cui la scuola pubblica opera per l’educazione del futuro cittadino democratico. L’impresa non è scontata: ogni futuro membro della società deve infatti riconoscere sulla base delle proprie ragioni la validità dei principi che regolano la convivenza civile di persone libere ed eguali. L’esercizio richiede la capacità di distinguere il diverso ruolo che le convinzioni personali ed i valori politici comuni svolgono nella giustificazione della struttura fondamentale della società. Occorre imparare ad integrare questi valori fondamentali della convivenza civile nelle diverse concezioni del bene delle persone e ciascuno lo deve poter fare sulla base delle proprie giuste ragioni. Non è un’impresa facile: qualcosa dovrà cambiare, probabilmente, nei contenuti delle diverse concezioni del bene dei cittadini; nessuno potrà illudersi che quest’aggiustamento non lo riguardi e l’onere debba essere sopportato soltanto dagli altri (magari soltanto da qualche minoranza stigmatizzata). Questa è una lezione che molti Stati democratici hanno appreso durante la loro storia e che anche uno Stato come la Svizzera, di antiche tradizioni democratiche, fondato su un nobile ideale di convivenza civile di religioni e lingue diverse, sarà tenuto a trarre dopo la recente votazione federale sull’iniziativa popolare contro l’edificazione di minareti. Nulla di nuovo, per la verità: qualcosa di simile è già accaduto nella storia recente del nostro paese con l’interdizione dei gesuiti che venne introdotta dopo la guerra del Sonderbund e che ebbe termine ufficialmente nel 1973 con l’abrogazione in votazione popolare degli articoli d’eccezione.
Il 2005 venne proclamato dal Consiglio d’Europa “Année européenne de la citoyenneté par l’éducation” con lo slogan “Apprendre et vivre la démocratie”. L’idea che ispirava questa meritevole iniziativa europea era che democratici non si nasce; lo si diventa conoscendo, praticando ed apprezzando i principi della democrazia e dello Stato di diritto, in un processo di deliberazione in cui si impara a confrontare e a ponderare le ragioni proprie con quelle degli altri, riconoscendo i valori politici che ci accomunano e rispettando le differenze religiose e culturali che ci distinguono. Insomma, diventare un cittadino democratico è l’esatto contrario di quanto ha sostenuto Susanna Tamaro, che crede che sui problemi della convivenza civile sia sufficiente affidarsi “a quella voce dentro di te che ti dice quello che è giusto e quello che è sbagliato”…

Marcello Ostinelli

mercoledì 25 novembre 2009

giovedì 19 novembre 2009

L'OPINIONE DI GIORGIO RAGAZZINI E LA RISPOSTA DI SERGIO CASPRINI

Giorgio Ragazzini:

A questo punto della polemica mi sento di proporre alcune considerazioni in parziale dissenso con Della Loggia.

1. La polemica di Galli Della Loggia mi pare molto sopra le righe. Probabilmente si è fatto trascinare dalla sacrosanta insofferenza per la retorica di cui è gonfio il documento di indirizzo per l'insegnamento di Cittadinanza e Costituzione, per concludere che i ragazzi saranno inevitabilmente imboniti a quella maniera. Forse non sa che purtroppo un po' tutto quello che si scrive della e nella scuola è affetto da questa compiaciuta logorrea, che chiunque, se sano di mente, si rifiuta di leggere per più di tre o quattro righe. Come verrà insegnata la materia dipende in gran parte dai libri e dagli insegnanti, non dai testi esplicativi (si fa per dire) che accompagnano la legge e spesso la infiorettano. Le leggi-manifesto e i regolamenti-proclama sono la regola. Come si dice, però, abusus non tollit usum. In questo modo Della Loggia si è esposto ai facili contropiede dei suoi interlocutori, che giustamente gli obbiettano: ma la Costituzione non la devono conoscere, i ragazzi?
2. Non è corretta la contrapposizione tra istruzione (col segno +) e educazione (con il segno -). Bisogna vedere come e in che limiti si educa. Se lo si fa con l'esempio (serietà, equità, scrupolosità, impegno...), facendo rispettare le regole e con un positivo stile relazionale, non solo questo è lecito, ma è essenziale nella professione dell’insegnante. Aggiungo la necessità di una riflessione filosofica su concetti come "libertà", "responsabilità", "giustizia". Dopo di che, illustrare i principi a cui si ispira la Costituzione, i diritti che garantisce, i doveri che chiede di rispettare è un fatto di cultura esattamente come conoscere la storia. Educazione e istruzione sono le due gambe della formazione che si riceve a scuola.
3. Infine ricordiamoci che non è catechismo insegnare che cos'è la democrazia, la quale è basata inevitabilmente su fondamenti morali. L'idea che la morale è un fatto solo individuale è assurda: ogni giorno chi fa politica nei modi più svariati compie in continuazione scelte morali.
4. Aggiungo che è molto più grave la mancanza di principi etici condivisi fra i docenti, che contribuisce a tutti quei comportamenti moralmente riprovevoli che abbiamo più volte stigmatizzato: insegnanti che fanno copiare, che falsificano i risultati del loro lavoro, che non esitano (esitavano) a fare della cattedra una tribuna politica (a questo sì, sono contrario), che coinvolgono gli allievi in manifestazioni di protesta sindacale e politica, eccetera.


Risposta di Sergio Casprini:

Forse come tu dici Galli Della Loggia è andato nella sua polemica sopra le righe, però sostanzialmente sono d'accordo con lui su questa progressiva separazione, nata già da molti anni, tra saperi disciplinari e saper affidati ai molteplici progetti "educativi", che fanno parte del POF (educazione alimentare, stradale, sessuale, all'affettività e cosi via). Per me , forse inveterato docente gentiliano, insegnare Storia dell'arte è stato a un tempo istruire ed educare, perché insegnando educavo anche al rispetto delle modalità della lezione, sia quando spiegavo, sia quando interrogavo. Sul piano dei contenuti, senza approfondire argomenti che spettano al docente di storia, istruivo anche sui fondamenti normativi della democrazia moderna (confronto per esempio tra regime democratici della polis greca e quello attuale).Ovviamente anche il voto di condotta concorre al rispetto delle regole. Casomai, politicamente sia Galli della Loggia che il sottoscritto hanno perso questa battaglia: ormai, che sia ministro la Moratti, Fioroni o la Gelmini, è acclarato che la scuola deve istruire (sempre meno) ed educare (sempre di più) per difendere e rafforzare i ragazzi rispetto ai mali del mondo, dimenticando che la responsabilità del proprio destino è sempre individuale , come diceva con altre parole Salvemini, citato in maniera magistrale da Valerio [Vagnoli].

sabato 14 novembre 2009

LA COSTITUZIONE È LA PRIMA LEGGE, GIUSTO FARLA CONOSCERE AGLI STUDENTI

di Gherardo Colombo

Caro Direttore, le scrivo a proposito dell’articolo di Ernesto Galli della Loggia «Scuola — Così la democrazia diventa catechismo», pubblicato sul Corriere di domenica 8 novembre. Sono più d’uno i punti sui quali la mia opinione diverge da quella dell’autore. Il primo riguarda la presentazione della questione. Per evidenziare l’invasività del nuovo insegnamento, il professor Galli della Loggia ricorre ad un numero: 429 sono le ore che — dai sei ai 18 anni— ciascun giovane dovrà dedicare all’apprendimento di «Cittadinanza e Costituzione ». Certo, il numero non è insignificante, ma si tratta, come rileva anche il professore, di un’ora alla settimana: circa un trentesimo delle ore passate a scuola, ogni settimana, dagli studenti (e alle elementari, peraltro, l’insegnamento non è obbligatorio, ma solo suggerito). È la metà o un terzo delle ore dedicate all’educazione fisica, a seconda dei gradi scolastici. Gli altri insegnanti, pertanto, potranno continuare a proporre la Cultura e l’Istruzione senza eccessivo timore che questo nuovo insegnamento soffochi la libera formazione dell’identità dei discepoli. Il secondo riguarda il contenuto della Cultura e dell’Istruzione nel nostro Paese: è proprio sicuro il professor Galli della Loggia che la scuola proponga prospettive culturali davvero tanto varie da consentire una sufficiente possibilità di scegliere il modello che più aggrada? La nostra scuola non è, forse, fatta di cultura nord-occidentale? Magari monca, talora, di parti importanti di quel pensiero che non del tutto si confà con il cattolicesimo? E non le succede di ignorare, quasi del tutto, il pensiero filosofico e religioso che stanno fuori di quel modello? Sono allora, i nostri ragazzi, davvero liberi di formarsi la loro identità, o non sono piuttosto liberi di formarsi l’identità del nord-occidentale (vorrei si tenesse conto che non si tratta di una critica, ma di una constatazione)? Il terzo ha a che fare con la natura della Costituzione. Secondo il professore, insegnandola, la Costituzione «viene sottratta alla dimensione storico-politica, che è e dovrebbe essere propriamente l’unica sua», e trasformata in una sorte di vangelo, di religione politica. Ora, però, oltre ad avere (nelle sue origini) una dimensione storico-politica, la Costituzione è (attualmente) una legge. Anzi, non una legge, ma la legge fondamentale, la prima legge del nostro stare insieme. Vogliamo che si continui— come si è fatto finora— a non preoccuparsi che i cittadini conoscano la prima legge alla quale sono chiamati a rispondere? Non è che, per caso, la Costituzione debba essere conosciuta anche da chi intenda modificarla? Attraverso la discussione in classe gli insegnanti potrebbero ricongiungere la dimensione storica della Costituzione con il suo essere legge e dibattere con gli studenti quali parti siano attuali e quali invece attuabili. Non discuterne sarebbe forse meglio? Il fatto che sia legge evidenzia un altro aspetto, questa volta pratico. Quando si acquista una nuova auto, una nuova lavatrice, un nuovo software per la gestione della biblioteca, generalmente lo strumento è accompagnato da un libretto di istruzioni. Se approfondiamo solo un po’ la riflessione, ci accorgiamo che gran parte del nostro tempo è dedicata non a guidare l’auto, a fare il bucato, a catalogare e rendere reperibili i nostri libri, a pedalare sulla cyclette o a dedicarsi ad altre occupazioni simili. No, la gran parte del nostro tempo è dedicata a intrecciare e mantenere rapporti, a intessere relazioni, a decidere quali comportamenti assumere nei confronti delle persone con le quali siamo in contatto. Dove sono le istruzioni per le relazioni? Certo, i «libretti» sono tanti, e spesso provengono proprio dalla Cultura e dall’Istruzione come le ha descritte Ernesto Galli della Loggia. Ma quelle istruzioni non bastano, è anche necessario conoscere gli aspetti più pratici, tipo «se giri la chiave si accende il motore». La Costituzione è anche un «libretto di istruzioni», è il primo riferimento per quel che riguarda i rapporti con le altre persone, quello che ti dice il perché e il per come del funzionamento della società nella quale vivi. Mi chiedo, sempre più spesso, se l’elevato livello di trasgressività alle leggi e il dilagare dell’arroganza non dipendano anche dalla generale scarsa conoscenza della Costituzione. Su una cosa sono d’accordo con il professor Galli della Loggia: Cultura ed Istruzione non si impongono. Ma Cultura ed Istruzione si possono proporre, e credo sia difficile proporre ciò che non si condivide. E credo, contemporaneamente, che non sia né scandaloso né disdicevole proporre la cultura che promana dalla nostra legge fondamentale. Forse, anzi, è una cosa che va fatta. Prestando, certo, attenzione alle opinioni divergenti, ma nello stesso tempo sottolineando gli aspetti, oltre che legali, anche storici e culturali che hanno portato a scriverla e ad adottarla. Ed evidenziando il perché essa si basa sul rispetto reciproco, considerato l’antidoto ai drammi e alle tragedie che le persone avevano concretamente vissuto nella prima metà del secolo scorso. Certo, sarebbe bello— anche qui concordo con il professor Galli della Loggia— che la nostra Costituzione venisse insegnata mentre si trattano le altre materie, ma credo che oggi non tutti gli insegnanti ne sarebbero capaci. Ed allora ecco che è necessario, a mio parere, introdurre quell’ora settimanale di Cittadinanza e Costituzione.

martedì 10 novembre 2009

LA POLEMICA SULL'EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA

L'intervento di Galli della Loggia sul "Corriere della Sera".
Sul "Giornale" le opinioni di Giorgio Israel e di Carlo Lottieri
Giancarlo De Cataldo su "L'Unità".

MERCOLEDÌ 11 NOVEMBRE

Sul tema dell'educazione alla citadinanza una breve dichiarazione di Gustavo Zagrebelsky ("La Repubblica") e un articolo su "L'Unità" di Bruno Gravagnuolo.

lunedì 9 novembre 2009

POSTILLA AL CONVEGNO DI FIRENZE: LA SPARIZIONE DEGLI ISTITUTI D'ARTE

di Sergio Casprini

Nel suo appassionato intervento al convegno su “Obbligo scolastico e formazione professionale”, Valerio Vagnoli ha fatto notare che con la svalutazione della formazione professionale si rischia di perdere definitivamente il ricco patrimonio di mestieri artigianali, che attraverso l’apprendistato si trasmettevano dal maestro all’allievo nelle botteghe di una volta. Un rapporto fecondo, che oggi possiamo ritrovare in quello tra docenti di laboratorio e studenti che a quattordici anni entrano in una scuola professionale.Voglio a questo proposito porre all’attenzione come emblematica la situazione degli Istituti d’Arte o “scuole d’arte”. Esse sono caratterizzate dalla presenza nei primi anni di molti laboratori, afferenti all’indirizzo professionale nell’ambito dell’artigianato artistico scelto dagli allievi. Per esempio, a oreficeria gli studenti trovano il laboratorio di cesello e sbalzo e quello di gioiello; a pittura, il laboratorio di lacche e doratura; a moda, decorazione su stoffa e taglio e confezione; ad arredamento, modellistica e metalli; ad arti grafiche, incisione e stampa; e così via.Già negli ultimi anni il peso di queste discipline - o meglio mestieri - nell’orario complessivo delle lezioni è diminuito a vantaggio delle materie teorico-culturali, come in tutti bienni degli istituti professionali.Il futuro si presenta ancor meno roseo: con la riforma Gelmini gli istituti d’arte confluiscono nel sistema dei licei, diventano appunto licei artistici, perdendo la loro identità culturale e professionale soprattutto nei primi due anni, con la conseguenza di più abbandoni e, quel che è più grave, di scomparsa dell’apprendistato nel campo dei mestieri artistici. Se la Regione Toscana avesse più coraggio nel superare vecchi pregiudizi sulla formazione professionale “precoce” e non ritardasse l’apprendimento dei fondamenti dei vari mestieri, avremmo sicuramente dati più confortanti sulla dispersione scolastica. Molti allievi frequenterebbe dal primo anno i laboratori con maggior profitto rispetto ad una acquisizione superficiale di nozioni di cultura generale. D’altronde su una sperimentazione maggiormente incisiva in questo senso la regione toscana non mancherebbe di punti di riferimento, in primis la provincia autonoma di Trento e la Regione Lombardia, che hanno da tempo imboccato questa strada.

UN’ ADESIONE ALLE TESI DI GALLI DELLA LOGGIA E UN OMAGGIO A SALVEMINI

di Valerio Vagnoli

Salvemini scrisse che ",,,,gli alunni hanno bisogno di una cultura intellettuale ben equilibrata….attraverso studi che non devono essere ordinati per tutti allo stesso modo, né una stessa forma deve essere imposta a tutte le intelligenze." Forse nessuno, tra gli intellettuali del secolo scorso e del nostro tempo ha avuto il coraggio di schierarsi come fece lui, contro, sono parole sue “..la leggerezza presuntuosa di molti pedagogisti” le cui teorie “messe alle prove coi fatti, dovevano poi sottostare alle più clamorose smentite e sconfitte” preconizzando come, ancora oggi, troppe riforme forse hanno trovato la propria origine piuttosto in astratte teorie pedagogiche anziché su una seria analisi di dati reali (svolta, per esempio, anche con un convinto coinvolgimento degli addetti ai lavori che, ancor prima dei pedagogisti, sono proprio i docenti). Ed ancora, pochi anni prima della sua morte, in un articolo salacemente polemico con il pedagogista e storico della pedagogia Lanfranco Borghi che auspicava una scuola che formasse, nei giovani, ideali finalizzati a costruire una società universale, egli rispondeva chiedendosi quale fosse il compito del docente “Quello di addomesticare l’alunno o quello di educarlo all’autonomia del pensiero e della volontà?...e allora può l’insegnante educarlo a un ideale sociale che è quello dell’insegnante, ma che domani potrebbe non essere quello dell’alunno?” Evidentemente la domanda retorica di Salvemini apriva e apre ancora ai tempi nostri problematiche decisive su quello che è il principio della vera libertà d’insegnamento e su quanto possa essere facile da parte di un docente, magari anche in buona fede, sconfinare in una sorta di vera e propria illegalità, se non altro di carattere etico, facendogli credere di fare altissima opera pedagogica quando educa i suoi allievi “ ai più grandi ideali” di questo mondo, magari trascurando i saperi disciplinari. E decisamente attuale è anche un’altra sua riflessione che compare nello stesso articolo a commento delle ripetute richieste, da parte di alcuni deputati di allora appartenenti a varie formazioni politiche democratiche, sulla necessità di svolgere, nella scuola, le più svariate, e nobili, educazioni: alla democrazia, all’antifascismo, alla libertà e altro ancora. Di fronte a tutta questa serie di richieste l’antifascista Salvemini rivendicava, ancora una volta, la vera autonomia del docente affermando che questi “..non deve essere trattato come un menestrello pronto a cambiar canzone a capriccio della castellana…si esce fuori dal buon senso se si pretende che l’insegnante anticipi una società futura che, del resto, neanche lui saprebbe definire. Si può solo domandargli se cerchi di sviluppare nelle nuove generazioni quel tanto di abiti critici, di cui l’umanità è capace e di cui i nuovi venuti faranno a loro tempo l’uso che potranno, migliore. Le nostre donne portano il bambino a messa e dicono - Quando sarà grande farà a modo suo - Gli insegnanti dovrebbero portare i loro alunni a ragionare e dire - Quando saranno grandi faranno a modo loro -. Parole come queste non possono non ricordarci quanto sia controproducente, e fazioso, credere di educare i ragazzi attraverso vere e proprie palestre educative quali sono i più svariati progetti, tanto di moda in questi anni, nell’illusione, da parte dei politici, dei pedagogisti che li propagandano e dei docenti che li fanno propri, di costruire nei ragazzi attraverso le più svariate “educazioni”un futuro cittadino modello, libero, puro e consapevole come se, per esempio, l’educazione alla legalità e la lotta al sistema mafioso non si potessero costruire attraverso una seria e faticosa analisi dei Promessi sposi manzoniani o di qualsiasi altro speculare contenuto disciplinare senz’altro più consono a restare nella memoria dei giovani rispetto a molte conferenze di esperti della legalità o ai tanti happening con cantanti, attori, scrittori di grido e, diciamo così, “impegnati”

venerdì 6 novembre 2009

OBBLIGO SCOLASTICO: PIÙ OPPORTUNITÀ = PIÙ UGUAGLIANZA

di Valerio Vagnoli

RELAZIONE INTRODUTTIVA AL CONVEGNO “OBBLIGO SCOLASTICO E FORMAZIONE PROFESSIONALE”
Firenze, Istituto degli Innocenti, giovedì 5 novembre 2009
La scelta della Regione Toscana di far adempiere il diritto-dovere all’istruzione attraverso l’esclusivo canale dell’istruzione pone a mio avviso problemi sui quali occorre serenamente riflettere. Sono sempre più numerosi gli studenti che si rivolgono agli indirizzi professionali sperando di trovare, finalmente, un percorso ove l’attività pratica, laboratoriale e comunque legata alla concretezza possa essere funzionale ai loro desideri e alle loro esigenze. Molti di loro sperano, attraverso questo tipo di percorsi, di riscattare un passato scolastico già segnato da insuccessi e frustrazioni. Invece, finiscono col trovarsi di fronte ad una formazione professionale tale solo sulla carta e si arrendono presto di fronte a una girandola di materie e di ore che metterebbe in seria crisi anche studenti ben motivati e ben preparati per un percorso di tipo liceale.Pensare infatti che si possa riempire con la quantità il vuoto culturale che certi studenti, per i vari motivi, si portano dietro non risponde ad alcuna logica pedagogica concreta. Penso invece che proprio nei confronti dei ragazzi che alla fine della scuola media sono ancora lontani dal completamento delle competenze di base si debba usare un criterio piuttosto omeopatico che non generalista e quantitativo, che rischia di demotivarli definitivamente. Forse queste competenze le si possono costruire facendo leva proprio sulla formazione professionale, che può fare da battistrada al percorso dell’istruzione. Intendo dire che sarebbe meglio iniziare con poche ore dell’area che chiameremo, per intenderci, “culturale”, per poi aumentarle in un secondo momento, quando gli studenti potranno toccare con mano che alla fine non basterà essere bravi tornitori o bravi falegnami o bravi cuochi: occorrerà anche essere bravi nella matematica e nell’italiano, magari per prendere con precisione le misure o per rilasciare fatture corrette e padroneggiare le frazioni per non distruggere una ricetta. Oggi, invece, accade esattamente il contrario: le attività di laboratorio e di stage sono, nei primi anni dell’istruzione professionale, assai marginali a vantaggio delle molte discipline di ordine generale che molti ragazzi rifiutano. Che una strada di questo tipo, cioè che assecondi le istanze dei ragazzi per recuperare in loro, in seguito, altri saperi e altre competenze, sia la più proficua, lo dimostra la stessa esperienza di molti adulti che si sono cimentati con lo studio di una lingua straniera o del computer, tanto per fare un esempio, solo quando sono diventati indispensabili all’evoluzione della loro professione; altrimenti ne avrebbero fatto volentieri a meno.
Ho visto decine di amici artigiani e operai della mia stessa generazione costruirsi per tutta la vita una cultura politica, scientifica e umanistica, con esiti talvolta anche profondi e originali; e dubito che avrebbero fatto la stessa cosa se fossero stati costretti nella loro adolescenza a subire due-tre anni di umilianti frustrazioni scolastiche. Molti di loro vanno orgogliosi di quello che hanno fatto e stanno facendo nella loro vita: doratori, meccanici, muratori, falegnami, pellettieri. Casomai rimpiangono di non aver potuto trasmettere ai giovani ciò che essi stessi hanno imparato, spesso rubando letteralmente i segreti del mestiere (un tempo si chiamavano i trucchi) ai maestri più anziani, gelosi custodi dei segreti di un’arte che si sarebbe tramandata integralmente quando il maestro fosse stato sicuro delle motivazioni del proprio allievo. Vi era, fino a pochi anni fa, una sorta di senso del sacro e del magico dietro a molti mestieri d’arte che oggi si stanno irrimediabilmente perdendo, perché si griderebbe allo scandalo se si ipotizzasse un quattordicenne intento ad imparare un mestiere, per esempio, in una delle ultime botteghe di doratori, restauratori o argentieri rimaste in città, ma sono centinaia che, alla stessa età, patteggiano quotidianamente la loro di fatto ingestibile permanenza a scuola o che, senza alcuna remora, trascorrono le giornate tra sottopassi delle stazioni o sale giochi in bar. Non occorre avviare indagini particolari per capire cosa fanno ogni giorno centinaia e centinaia di quattordicenni-quindicenni in fuga dalla scuola. Nel Valdarno, a Pontassieve, ad Empoli vi sono bar che si arricchiscono a loro spese e a Firenze basta dare un’occhiata a qualche sala giochi dalle parti di piazza san Marco o via Faenza per rendersi conto di quanto sia devastante il fenomeno. Anche in Toscana i giardini vanno riempiendosi di bande e sono sempre più numerosi i ragazzi che girano con i coltelli in tasca e magari, come abbiamo più volte letto nella cronaca di questa città, si divertono a dar fuoco a poveri animali. Riempiono così giornate che non chiedono loro nulla, prive di punti di riferimento in grado di trasmettere loro dei valori finendo, spesso, per assumere o affinare comportamenti tipici del bullismo.
Quello che ci preme sottolineare con forza è che a quattordici anni si può benissimo iniziare una seria formazione professionale che possa trovare da subito un preciso riferimento nelle attività di stage e in mirate attività complementari di stampo culturale, senza dover attendere che un ragazzo abbia fallito su tutti i fronti prima di potergli proporre l’incontro con un mondo, che, anche culturalmente, non merita il ruolo marginale in cui è stato collocato. È ben triste doverci accorgere che sono le crisi economiche ad obbligare i meno fortunati, quelli cioè che non possono contare a lungo sul sostegno delle proprie famiglie, ad adattarsi a lavori che da loro non possono che essere denigrati e ritenuti umilianti. Il paese che costituzionalmente riconosce nel lavoro il punto di riferimento ineludibile, attraverso il quale si diventa a tutti gli effetti cittadini, ha permesso che si creasse una vasta categoria di paria, in genere gli immigrati, destinati ad occuparsi dei lavori diventati nel frattempo più che umili, umilianti, perché alla mercé di qualsiasi arbitrio, sfruttamento, schiavitù e, tanto perché non si pensi solo alle badanti o ai raccoglitori di pomodori, mi permetto di aggiungere altri mestieri come il muratore, l’imbianchino, lo stuccatore, il potino sia di ulivi che di viti, e altro ancora. È possibile che non si possa uscire da un professionale per l’agricoltura senza provare aspettative per la potatura o, per esempio, la coltivazione ortofrutticola, unitamente al desiderio di fare una scelta di vita che sfido chiunque a ritenere di serie B? Evidentemente è possibile, visto che probabilmente i nostri ragazzi, finendo col misurarsi con una formazione professionale, che fa di tutto per svilire di fatto il lavoro e l’esperienza pratica, alla fine del percorso di studi superiori finiscono col sentirsi piuttosto in attesa di chissà quali altre aspettative che non pronti a misurarsi finalmente col lavoro. Non occorrono, credetemi, indagini statistiche per avvalorare quanto appena affermato: date un’occhiata ai bar e ai ristoranti per rendervi conto di come sia sempre maggiore il numero degli stranieri senza alcun titolo specifico, che si dedicano alle professioni tipiche della nostra formazione alberghiera! E quasi ogni giorno sono sottoposto a richieste di nominativi di ragazzi diplomati che siano disponibili a lavorare in hotel e ristoranti anche di pregio e di fama e quasi sempre queste richieste rimangono lettera morta, perché il sistema sembra più finalizzato a creare universitari spostati che non dei giovani autonomi e magari disponibili ad andare a lavorare a qualche centinaio di chilometri dalla propria famiglia. La sensazione è che molti ragazzi e famiglie, non potendo avere altra scelta, scelgano l’istituto professionale piuttosto per arrivare comunque a “prendere il pezzo di carta” attraverso un percorso ritenuto più facile di altri, che non perché motivati e intenzionati a creare le basi per il proprio futuro. È di questi giorni la risposta mesta e quasi giustificativa di chissà quale fallimento, da parte di una allieva che è tornata a scuola a ritirare la certificazione del recente diploma di maturità. Alla mia domanda su cosa stesse nel frattempo facendo, mi ha risposto, appunto con mestizia e quasi con senso di vergogna e sconfitta, che aveva trovato lavoro in un bar: pensate che abominio per una ragazza diplomatasi nell’indirizzo di Ristorazione dover lavorare in un bar senza neanche tentare l’università o permettersi, come moltissimi suoi compagni di aspettare, aspettare, aspettare che siano gli altri a pensare a loro, visto che fino ad allora, per loro, è stato appunto sempre così! Troppo spesso, almeno questa è la mia sensazione, ci trinceriamo dietro la paura che a quattordici anni far fare ai ragazzi delle scelte che riguardano il loro futuro sia prematuro e perciò sbagliato e discriminante; ma forse varrebbe la pena soffermarsi con altrettanta attenzione e premura su come sia estremamente negativo rinviare loro sine die questo incontro con la responsabilità. Anch’essa, come molte altre cose, la si impara e la si costruisce in un periodo ben preciso della nostra esistenza e i 14 anni fanno parte, appunto, di quel periodo.
Ogni anno si conferma o cresce, malgrado la miriade di progetti messi in atto, il numero dei bocciati nelle prime classi degli Istituti professionali e tecnici; anzi, la scelta di risolvere l’obbligo solo all’interno del percorso dell’istruzione e la struttura stessa degli istituti professionali troppo licealizzati, contribuisce, senza timore di smentita, all’aumento delle bocciature. A rendere ancora più drammatica la situazione - ne sono ben consapevoli i servizi sociali territoriali - sta crescendo in modo quasi esponenziale il numero degli studenti che proprio nelle prime classi dei professionali (e da un po’ di tempo anche dei tecnici) abbandonano la frequenza e scompaiono letteralmente dalle aule scolastiche anche prima del compimento dei sedici anni.
Inutile soffermarsi sulle problematiche che, quotidianamente, si vivono nelle scuole per il comportamento di quegli studenti che, pur rimanendo nel sistema scolastico, rendono di fatto impossibile il regolare svolgimento di buona parte delle lezioni; ragazzi che dichiarano esplicitamente, spesso all’unisono con i loro genitori, di attendere i sedici o i diciotto anni per poter andare a lavorare anche in settori che niente hanno a che fare con la scuola che frequentano. È opportuno confermare che la scelta dei professionali è spesso legata alla speranza di trovare, da parte dei ragazzi e delle loro famiglie, una scuola facile e idonea ad assorbire i tanti “sufficienti” che escono dall’esame di scuola media. Inutile dire che il comportamento di questi studenti, com’è tipico di chi non ha motivazioni e di chi vive una costante situazione di frustrazione, molte volte non si sente vincolato ad alcun rispetto delle regole, finendo così col penalizzare fortemente e in modo irreparabile quei loro compagni che, insieme alle loro famiglie, attendono dall’indirizzo scelto il rispetto di quanto loro è dovuto. Talvolta nelle classi prime l’ora di lezione si riduce a una decina di minuti in tutto e il resto del tempo si perde nei vari tentativi, da parte dei docenti(solitamente straordinari e comunque incolpevoli se fino ad oggi quasi nessuno si è preoccupato d’investire sulla loro formazione) di ricomporre un gruppo classe ingestibile e refrattario a qualunque regola. Si ricordi che a quell’età si hanno capacità di apprendimento, ovviamente anche nell’imparare un lavoro, che non si ripresenteranno più nella vita di un uomo: e ciò ci rende chiara quale sia la portata dei danni che si fanno agli uni, obbligandoli a fare ciò che non amano, e agli altri, che vedono vanificare il loro primo e importante investimento per il futuro e, a dirla con franchezza, il diritto allo studio.
Proprio per salvaguardare la qualità degli istituti professionali e per diminuire l’alto tasso di bocciature, da anni la Regione, le Province e lo stesso Ufficio scolastico Regionale supportano con progetti mirati e di solito molto pertinenti, le attività didattiche, in particolar modo nel biennio. Ed è particolarmente encomiabile l’impegno della Provincia di Firenze nel sostenere un importante progetto teso a diffondere tra i docenti la cultura della didattica laboratoriale, diversificata e personalizzata. Ma è chiaro che anche strumenti del genere non potranno incidere più di tanto sulle percentuali degli insuccessi, né soddisfare le aspettative di quei ragazzi che, come dicevo prima, hanno una particolare passione per il fare. Perché ciò accada, perché si possa cioè ridurre veramente ai minimi termini la dispersione scolastica, si dovrà cominciare a prendere in esame i dati relativi all’evasione in quelle regioni e in quei paesi ove si ritiene che la formazione professionale sia una vera e propria risorsa per lo sviluppo sociale ed economico, prima ancora che un percorso teso a recuperare una certa categoria di studenti. Di questo ci renderà tra poco testimonianza il professor Drago. Dobbiamo, insomma, vedere nello studente che vuole fare il carrozziere, il muratore, l’idraulico, il falegname o magari l’argentiere o il doratore, non qualcuno da rieducare o recuperare, bensì una vera e propria risorsa da seguire e assecondare, col rispetto che si deve a chi, ad un certo punto della propria esistenza, rivendica un riconoscimento al proprio carattere e, uso un brutto termine caro al linguaggio pedagogico, alle proprie vocazioni. Abbiamo il dovere di educare ma tenendo conto degli interessi precisi e motivati degli studenti. Dante Alighieri ha mirabilmente chiosato in una terzina questo concetto: "Sempre natura, se fortuna trova / discorde a sé, com’ogne altra semente/ fuor di sua region, fa mala prova". È difficile, veramente difficile che si possa riempire di nozioni e competenze di ogni tipo chi si affaccia alla determinazione della propria vita con ben altre attese e ben altri interessi. Il rischio è quello di inaridirlo, di costringerlo, a dirla con Dante, ad una “mala prova”, destinata però a rifarsi costantemente viva nelle persone perché i fallimenti, i disagi, l’essere stati sbattuti in una sorta di ultima spiaggia quando si è adolescenti può lasciare dei segni profondi e duraturi per tutta la vita. E permettetemi ancora una citazione, visto che l’intenzione di questa relazione non è quella di delineare un nervoso je accuse nei confronti del “modello toscano” quanto invece, sulla scia di una cultura e di maestri nei confronti dei quali abbiamo più di un debito, proporre e proporci degli interrogativi, stimolare, anche dentro di noi, come ci insegna Popper, dubbi e percorsi che possano ampliare strade già aperte, come questa della Toscana, con l’onestà vera di chi ha a cuore il futuro dei giovani. Scrive il Vasari introducendo la figura di Giuliano da Maiano: “Non piccolo errore fanno que’ padri di famiglia che non lasciano fare nella fanciullezza il corso della natura agl’ingegni dei figlioli, e che non lasciano esercitarli in quella facultà che più sono secondo il gusto loro. Perocché il voler volgerli a quello che non va loro per l’animo, è un cercar manifestamente che non siano mai eccellenti in cosa nessuna; essendo che si vede quasi sempre, che coloro che non operano secondo la voglia loro, non fanno molto profitto in qualsivoglia esercizio.”È decisamente interessante constatare come la Regione Toscana attivi percorsi di recupero (terzo anno professionalizzante o percorso diversificato anche, in casi particolari, dalla prima superiore) per i ragazzi che hanno questo tipo di attese o per i ragazzi che hanno avuto difficoltà ad entrare in un percorso di istruzione: ma perché aspettare che questi ragazzi accumulino frustrazioni e fallimenti? Perché far ulteriormente passare il messaggio che la formazione professionale è alla fine un percorso per chi ha fallito o non ha addirittura affrontato quello dell’istruzione, evidentemente ritenuto il solo attraverso il quale si diventa cittadini preparati e consapevoli? Perché mortificare ragazze e ragazzi incanalandoli in un percorso formativo di recupero che a tutti gli effetti è ritenuto e soprattutto si presenta ed è percepito come marginale, residuale, se non addirittura una sorta di ammortizzatore per ragazzi difficili e svogliati?
Per molti aspetti è ammirevole l’attenzione dei legislatori toscani nel tentativo di evitare, attraverso opportuni interventi di supporto, discriminazioni nei confronti dei ragazzi svantaggiati, per esempio perché figli di genitori con basso titolo di studio o perché stranieri. Ma gli stessi legislatori, prevedendo queste azioni di supporto e di recupero per coloro che “ si troveranno in situazioni di grave difficoltà al limite della interruzione della frequenza... o per coloro che l’abbiano già interrotta” riconoscono di fatto l’impossibilità di evitare gli abbandoni. A noi piacerebbe invece prevenirli questi abbandoni ed evitare, almeno in queste percentuali, che i ragazzi diventino sempre più “difficili”, anche grazie alla scuola e alle frustrazioni che essa procura loro. Provate per un attimo ad immedesimarvi in un ragazzo costretto a seguire un percorso che non ama, e che non desidera, senza poi trovare neanche accidentalmente una gratificazione rispetto a quello che gli viene imposto! Piacerebbe pensare, ripeto, come pur accade in altre regioni e in altri paesi europei, ad una formazione professionale che fosse in grado di non dover frettolosamente recuperare nessuno, ma con i tempi lunghi e propri anche della formazione professionale, potesse diventare qualcos’altro rispetto alla pur importante necessità d’insegnare un mestiere ai ragazzi. In altre parole, una scuola vera e propria ove chi la frequentasse non si sentisse inferiore rispetto a chi riceve una cultura considerata alta che, malgrado e forse per questo, non ha sempre contribuito in maniera puntuale, come afferma anche Norberto Bottani, a garantire lo sviluppo della democrazia e del senso di uguaglianza tra gli uomini. Non ho timore alcuno di smentita, invece, nel dichiarare, senza alcuna facile inclinazione populistica, che casomai proprio dal mondo del lavoro, e da quello artigianale in particolare, è venuto il meglio di questo paese proprio sul piano della crescita civile e democratica. Ma torniamo all’ipotesi di una formazione professionale allineata alle istanze di cui parlavo poco fa: ovviamente essa non dovrà mai precludere in nessun momento il passaggio da un sistema all’altro, dalla formazione all’ istruzione e viceversa. Nel primo caso sarebbe auspicabile che soprattutto nel terzo anno della formazione professionale, quando più consapevolmente può essere maturata da parte dello studente (si badi bene: dello studente), la volontà di entrare o rientrare nel percorso dell’istruzione, si potesse contare allora sulla possibilità di integrare la parte relativa alle discipline da recuperare o approfondire per agevolare allo studente il rientro nel percorso dell’istruzione ma anche permettergli di continuare in percorsi di alta qualificazione professionale.
Essere competenti e appassionati nel e del proprio lavoro: questa è la grande scommessa a cui non ci dobbiamo sottrarre, il grande progetto illuminista per rendere più liberi gli uomini perché, come appunto afferma Primo Levi nella Chiave a stella “…. il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo”. E perché ciò accada non ci possiamo permettere che i giovani scelgano il proprio futuro quando già adulti o per ripiego. Eppure i dati offerti da Alma laurea, una delle poche agenzie che in questo paese è in grado di offrire analisi precise intorno al problema della scuola, ci dicono come molti percorsi universitari siano dannosi all’ingresso nel mondo del lavoro, sia perché finalizzati a formare profili assolutamente inutili nel campo economico, sia perché, illudendo i giovani, li sbattono poi nel mondo del lavoro, quando va bene, a 26-27 anni senza alcuna competenza specifica e senza possibilità alcuna di trovare riferimenti in ambiti che abbiano per loro un minimo d’interesse e motivazione. Vorrà pur dire qualcosa, se (i dati sono del Miur – Nardiello, convegno CONFAO) in Francia ogni anno sono 280.000 i giovani entro i 18 anni che hanno esperienza di apprendistato, mentre in Italia sono appena intorno ai 5.000! E qualcosa vorrà pur dire se una recentissima inchiesta di Confartigianato (Corriere della sera del 20 agosto) mette in risalto come certi settori della nostra economia (ristorazione, parrucchieri, tornitori, falegnami, elettricisti, pavimentatori, agricoltura, sarti, verniciatori industriali, attrezzisti di macchine utensili, fabbri, pittori-stuccatori, pasticceri, idraulici, meccanici di auto, saldatori, panettieri, etc.) siano ampiamente scoperti. E non mi soffermo su quello che è stato il destino di molte delle nostre botteghe artigiane, che si sono definitivamente perse, anche perché non le abbiamo sostenute nell’apprendistato o, comunque, nel valorizzarle come una sorta di agenzie formative ante-litteram!
Altro che di serie B! Purtroppo la formazione professionale è diventata un percorso forse inconsapevolmente classista; classista perché, appunto, residuale e perché specifico di un paese che ancora ha da fare i conti con una mentalità che continua a riferirsi al modello gentiliano, che a sua volta altro non era che una emanazione della mentalità ottocentesca, tipica di una società ingessata che, non senza ragione per quei tempi, pensava che la classe dirigente si dovesse formare attraverso una formazione selettiva ed esclusivamente legata ad una cultura classica. Purtroppo e in ritardo di decenni rispetto ad altri paesi, è da qui che dobbiamo ripartire, dal ribaltare cioè una visione piramidale della cultura, che ridia valore anche a quella che trova nella pratica e nel lavoro manuale una pari dignità e una identica occasione per migliorarsi e per appagare le nostre aspettative. A questo proposito è davvero esaustivo un delizioso Buongiorno di Gramellini (la rubrica pressoché quotidiana che egli tiene sulla Stampa) scritto pochi giorni dopo l’elezione, giusto un anno fa, di Obama a presidente degli Stati Uniti ed ispirato ad una intervista ad un vecchio compagno di scuola media dell’allora appena eletto presidente. Scrive Gramellini:
“Quando il tuo ex compagno di scuola viene eletto presidente degli Stati Uniti, hai un bel ripetere a tutti i microfoni che sei contento. Nella migliore delle ipotesi proverai un pizzico di umanissima invidia. Nella peggiore, verrai assalito dal morbo letale dei paragoni, che ti provocherà la sensazione di essere una nullità. Perciò mi ha spiazzato e commosso la breve intervista a un ex compagno di scuola di Obama. – Il suo destino era diventare presidente, il mio diventare orologiaio. E ce l’abbiamo fatta tutti e due- ha detto con naturalezza.
E si capiva che per lui non esistevano una serie A e una serie B, ma due desideri di eguale valore che si erano realizzati. La cultura dominante ripete ogni giorno che per essere felici bisogna entrare nel piccolo cerchio della notorietà e che solo i mestieri che garantiscono fama e denaro meritano di essere perseguiti. Invece l’ex compagno di Obama ci ha detto una cosa diversa. Che tutti ma proprio tutti abbiamo un talento, piccolo o grande, e l’unica cosa che conta è accorgersi di possederlo. Per superficialità o blocchi interiori, molti non riescono a metterlo a fuoco e conducono vite magari brillantissime ma infelici, perché scentrate rispetto alla missione iniziale del loro vivere.
Non c’è nessuna differenza fra chi ripara orologi e chi viene chiamato a riparare il mondo, se entrambi infondono nel proprio lavoro il senso profondo di un’esistenza. Soltanto uno dei due finirà sui libri di storia, ma poco importa. Importa che anche l’altro potrà dire di aver vissuto davvero.”
Ecco, aiutare i ragazzi a rintracciare il loro talento, aiutarli a farglielo trovare e irrobustire nella consapevolezza che anche da qui possa, senza presunzione alcuna, riorganizzarsi un futuro in grado di ridare vita alle botteghe artigiane e a un lavoro qualificato e amato che, in quanto tale, potrà liberare gli uomini dalla rincorsa quasi sempre frustrante di una professione da ostentare al prossimo, indotta dalla moda o dalle aspettative delle famiglie piuttosto che rispondente alla propria passione, ai propri desideri e alle proprie e vere attese.

Veniamo tuttavia alla conclusione. Da questo convegno, ripeto, ci aspettiamo che si possa aprire un confronto sereno e pacato su quali possono essere le opportunità per aiutare i ragazzi a trovare, coltivare e affermare con dignità e determinazione il proprio talento, anche al di fuori dall’esclusivo percorso dell’istruzione. Le esperienze, e la possibilità di poterle sfruttare, queste opportunità, grazie anche al lavoro che la Regione ha fatto in questi anni, non mancano. Grazie a questo lavoro abbiamo a disposizione personale qualificato e competente e ben inserito da tempo nei percorsi integrati della formazione. Lo si trova all’interno del mondo del lavoro, delle Agenzie formative, delle associazioni delle professioni, delle imprese, oltre beninteso che nel mondo scolastico. Non è un impegno da poco e nelle conclusioni questo aspetto lo si potrà ancora approfondire con maggior chiarezza e puntualità; si tratta in fondo di lavorare per aiutare le nostre ragazze e i nostri ragazzi ad essere quanto più possibilmente competenti e pertanto felici e orgogliosi di sé stessi. E’ il compito più alto e difficile che i maestri devono ai loro allievi, che la società deve ai suoi individui, che la politica deve ai cittadini, e non è detto che questo compito, per i ragazzi, debba esclusivamente passare solo dai banchi di scuola. Il nemico vero del nostro e del loro futuro è abituarli all’abulia, all’attesa e all’illusione che debba essere il mondo ad andare da loro, quando è invece vero esattamente il contrario, come ci insegna la grande rivoluzione del Rinascimento che trovò ad un certo punto, come tutti sappiamo, anche fra queste mura, dei riferimenti precisi: una rivoluzione legata anche al genio di un architetto, al quale peraltro è dedicata questa sala, che aveva però raccolto il meglio delle scoperte, come poi avrebbe fatto lo stesso Galileo, che erano maturate da tempo nelle botteghe fiorentine. Un architetto che si era potuto avvalere dell’aiuto di maestranze che godevano di diritti e prestigio ancor oggi invidiabili perché entrambi, prestigio e diritti, nascono, al di là dei tempi in cui siamo chiamati a vivere, anche dal ritenere quello che si fa e come lo si fa, qualunque mestiere esso sia, uno degli aspetti che più contribuiscono, per dirla con Gramellini e Primo Levi, a dare un senso profondo alla nostra esistenza.
Grazie davvero per la paziente attenzione
Valerio Vagnoli

martedì 19 maggio 2009

MODELLO DI LETTERA ALLA COMMISSIONE DI CONCILIAZIONE

Alla Commissione di Conciliazione
C/o U.P.L.M.O.
Via ……………………………
…………………………………….
Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca
Ufficio Scolastico Regionale della …………………………….
Via ……………………………
………………………..
U.S.P. di ………………………….
Via ……………………………………….
………………………………….

Oggetto: richiesta di conciliazione ex art. 410 c.p.c. per l’espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione.
Nella qualità di procuratore dei dott.ri :
1) …………………………………………. nato a…………………….. il ……………dirigente scolastico in servizio presso l’istituto…………………..di…………………………………. in virtù di contratto individuale sottoscritto il…………………………………….
2) …………………………………………. nato a…………………….. il ……………dirigente scolastico in servizio presso l’istituto…………………..di…………………………………. in virtù di contratto individuale sottoscritto il…………………………………….
3) …………………………………………………………………………………………..
ed elettivamente domiciliati presso lo studio del sottoscritto in ……………………………. alla Via X……………………………………….. n……………………….., espongo:
Gli istanti rivestono la qualifica di dirigente a seguito del superamento del concorso ordinario.
Come è noto, a seguito dell’entrata in vigore del D. lgs. 165 del 2001, con l’art. 23 viene istituito il ruolo unico dei dirigenti delle amministrazioni dello Stato articolato in due fasce: i dirigenti generali ed i dirigenti di seconda fascia. Il successivo articolo 25 si occupa dei dirigenti scolastici inquadrati in ruoli regionali.
Trattasi, per le istituzioni scolastiche, di figura professionale nuova senza alcun precedente specifico e, di conseguenza, senza anzianità nel medesimo ruolo già acquisita. Infatti, la funzione docente e quella soppressa dei Presidi ha, nel primo caso, ed aveva, nel secondo, inquadramento giuridico diverso rispetto a quello dirigenziale.
Ciò significa che alla data di stipula del relativo contratto individuale di lavoro non può esistere, a prescindere dal sistema di reclutamento, anzianità pregressa.
La struttura della retribuzione per i dirigenti scolastici è stata definita con il primo C.C.N.L. pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 62 del 14/3/2002.
All’art. 39, secondo comma di detto Accordo collettivo, viene consentita e riconosciuta una retribuzione individuale di anzianità per ciascun dirigente scolastico.
Nell’interpretazione ed esecuzione data a detta disposizione contrattuale è risultato il riconoscimento di questa voce retributiva unicamente ai dirigenti provenienti dal ruolo dei Presidi. Viceversa, allo stato, per i dirigenti scolastici vincitori di concorso è prevista unicamente la corresponsione della retribuzione risultante dalle voci contenute nel precedente articolo 37 con esclusione della voce sub c).
Conseguenza pratica dell’applicazione delle norme contrattuali pattizie è una diversità di trattamento economico dei dirigenti scolastici in ragione del precedente ruolo di provenienza. Tale evidente discriminazione pone un problema di interpretazione delle norme contrattuali alla luce dei principi di civiltà giuridica espressi dal nostro Ordinamento. Nello specifico, va detto che i dirigenti scolastici rientrano nell’ambito dell’organizzazione statale più complessiva ove la funzione dirigenziale non è legata ad anzianità di servizio, ed al personale compete uno stipendio legato alle singole voci della struttura retributiva. Ciò è determinato dal fatto che il dirigente non è legato alla maggiore o minore quantità di ore di servizio e neppure ad una maggiore professionalità acquisita negli anni. Il dirigente pubblico è legato al raggiungimento dei risultati stabiliti in contratto ed alla valutazione positiva o negativa cui deve essere sottoposto.
Vale a dire che la ratio alla quale è legata la retribuzione dei dirigenti in genere è legata ai parametri di efficienza ed efficacia che trovano la loro fonte nella norma costituzionale costituita dall’art. 97. E legata ai principi costituzionali è anche la ragione che porta a ritenere che una diversa retribuzione a parità di funzione non può trovare ingresso nel nostro ordinamento giuridico. L’art. 36 della Costituzione riferisce la retribuzione alla qualità e quantità del lavoro prestato. Nel caso di specie la pesatura di detti indici è costituita dall’attribuzione dei risultati. Orbene, nel sistema delineato del ruolo unico dei dirigenti, appare contra ius che a parità di incarico dirigenziale possa verificarsi un diverso trattamento retributivo. Tale considerazione porta alla conseguenza necessaria che la parificazione dei dirigenti sotto l’aspetto giuridico debba avere il suo naturale sbocco anche con la parificazione economica. Il principio della parità di trattamento al ricorrere delle medesime condizioni di partenza è conquista ormai datata in campo lavorativo e più volte affermata dalla giurisprudenza. Cosicché la retribuzione del dirigente scolastico vincitore del concorso ordinario non può essere inferiore rispetto a quella dei dirigenti provenienti da altri canali atteso che, per tutti, l’inquadramento giuridico nel ruolo dirigenziale e la costituzione del rapporto di lavoro avviene con la sottoscrizione di un contratto che è il medesimo per tutti.
Da qui la necessità di rivendicare l’attribuzione anche per l’istante della retribuzione individuale di anzianità in aggiunta allo stipendio con decorrenza dalla sottoscrizione del contratto individuale di lavoro.
Alla luce di quanto sopra gli scriventi si vedono costretti a far valere, se necessario, anche in sede giudiziaria il proprio buon diritto e, pertanto,

CHIEDONO

Che venga convocata la commissione di conciliazione per l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione della controversia in essere con il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca – Ufficio Scolastico Regionale della Calabria.
Nominano sin d’ora, quale componente dell’istituenda commissione, l’avv. ……………………… del foro di ……………………………………, con studio in ……………………………… n……....
Nominano per l’assistenza avanti la commissione il sottoscritto procuratore al quale conferiscono potere di conciliare e transigere.
Sottoscrivono la presente anche gli istanti sia per la designazione del proprio rappresentante che per l’assistenza legale.

Dott…………………………………………….. - firma…………………………………………….
Dott…………………………………………….. - firma…………………………………………….
Dott…………………………………………….. - firma…………………………………………….
Dott…………………………………………….. - firma…………………………………………….

Avv. ………………………………
…………………………… lì ………………………..

I PRESIDI DISCRIMINATI NON CI STANNO

Pubblichiamo la lettera ai colleghi con cui due dirigenti scolastici della provincia di Cosenza avviano un'iniziativa per la modifica del contratto nazionale all'origine della discriminazione economica di cui abbiamo parlato l'11 maggio scorso (Il merito non riconosciuto). Dopo aver riportato la lettera di Valerio Vagnoli e degli altri dirigenti scolastici toscani, i due presidi calabresi aggiungono quanto segue:

Per ottenere l’equiparazione retributiva agli altri dirigenti scolastici abbiamo contattato, già dal mese di marzo, un avvocato che ci ha informato che la via maestra da seguire per “sanare” la disparità di trattamento retributivo è una modifica contrattuale che riconosca, come per i presidi transitati nella dirigenza, la carriera pregressa.
Lo stesso ci ha assicurato che la nostra azione ha elevate possibilità di conseguire gli obiettivi sperati.
Nello specifico, ritiene che il principale riferimento normativo da considerare è l’art. 36 della Costituzione, là dove recita: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. (…)”
Detto questo, abbiamo concordato che la nostra iniziativa debba avere un duplice obiettivo: dar luogo ad un procedimento giudiziario e determinare, in questa stessa fase, una forte pressione sulla trattativa che i sindacati stanno portando avanti e sul governo . Per agire secondo la strategia concordata, il primo passo consigliato dall’avvocato è la richiesta di conciliazione davanti all’Ispettorato del lavoro di ogni provincia.
Vi allego, quindi, la proposta di “conciliazione” (noi nella provincia di Cosenza l’abbiamo già presentata nel mese di Aprile come vi accennavo al telefono)con la richiesta del riconoscimento dell’equiparazione economica motivata dall’incostituzionale disparità di trattamento.
Non dovete far altro che apporre le vostre firme e presentare il ricorso collettivo e la richiesta di conciliazione presso l’Ispettorato del lavoro della provincia di appartenenza.
Come avrete capito è necessario muoversi con grande rapidità e promuovere, fin da ora, i singoli gruppi provinciali che si costituiranno in conciliazione nominando un proprio rappresentante. Quest’ultimo può essere un dirigente o un avvocato. Evitate i sindacati in questa fase perché non sono interessati alla nostra problematica in quanto essendo per la maggior parte ex presidi incaricati continuano a percepire l’assegno ad personam e puntano solo all’equiparazione alla dirigenza pubblica che il governo non è disposto a concedere causa crisi….
Sperando di essere stati sufficientemente chiari e di aver dato tutte le informazioni necessarie per proseguire con rapidità lungo la strada intrapresa, porgiamo a tutti cari saluti

Michela Bilotta e Giuseppe Giudice

P.S.: ogni gruppo provinciale, nel momento in cui si organizza, dovrebbe nominare un coordinatore per tenere con noi i contatti e-mail.

I nostri riferimenti sono:

Michela Bilotta IIS “Enzo Siciliano” Bisignano –Cosenza
Tel. 0984 949887 – 335 5399732 e.mail: mickbil@alice.it ; michela.bilotta@inscuola.net
http://www.inscuola.net/

Giuseppe Giudice ITCG Fermi di San Marco Argentano
Tel 0984 512523 – 3931664629 e.mail: giuseppe.giudice.77@alice.it

domenica 5 aprile 2009

Al Ministro della Pubblica Istruzione, On. Mariastella Gelmini

Gentile Ministro,
la valorizzazione del merito e il contrasto a tutte le forme di buonismo che negli ultimi decenni hanno negativamente caratterizzato la scuola italiana, a tutto scapito della sua credibilità, costituiscono la ragione sociale del nostro gruppo ed erano al centro della “Lettera per una scuola del merito e della responsabilità” firmata nel marzo del 2008 da alcuni prestigiosi opinionisti e intellettuali. Non possiamo quindi che apprezzare l’impostazione complessiva del Suo provvedimento sulla valutazione, soprattutto per quanto riguarda la valorizzazione del comportamento nel quadro complessivo dei risultati scolastici.
Desideriamo però farLe presente in tutta franchezza le nostre perplessità su quanto si prevede per l’ammissione all’Esame di Stato (Art. 3, comma 2), cioè la necessità di conseguire una votazione non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina. Siamo infatti convinti che tale norma produrrà paradossalmente risultati di segno opposto a quelli auspicati, poiché è prevedibile che un consiglio di classe, in presenza di due/tre insufficienze non gravi, trasformerà quelle insufficienze in sei, con due conseguenze, a nostro parere molto negative:
▪ un quadro delle valutazioni alterato e non corrispondente alla realtà, inattendibile anche come fonte integrativa di informazioni per la Commissione di esame, in aggiunta al credito scolastico;
▪ una iniqua equiparazione, per quanto riguarda il credito scolastico, degli studenti con insufficienze con quelli che la sufficienza l’hanno raggiunta con le proprie forze. Per esempio uno studente potrebbe passare da una media “reale” compresa tra il 5 e il 6 (con un credito da 1 a 3 punti) ad una media tra 6 e il 7 (con un credito tra i 4 e i 5 punti).
Ci pare insomma che esista un concreto rischio di “eterogenesi dei fini” rispetto all’obbiettivo di valutazioni più rigorose che Lei intende perseguire e che noi assolutamente condividiamo. Si può certo pensare a una formulazione più stringente dei criteri di ammissione; ma, proprio al fine di consentire una ulteriore riflessione sull’argomento e anche in considerazione del fatto che il cambiamento delle norme avverrebbe a meno di tre mesi dagli esami, ci permettiamo di raccomandarLe un rinvio della nuova norma al prossimo anno scolastico.
La ringraziamo per la Sua attenzione e Le rinnoviamo i nostri auguri di buon lavoro.
Sergio Casprini Andrea Ragazzini Giorgio Ragazzini Valerio Vagnoli

Firenze, 22 marzo 2009

martedì 20 gennaio 2009

SULLA "SELEZIONE" DEGLI INSEGNANTI

Pubblichiamo la lettera della collega Giulia Biti, che fa seguito alle dichiarazioni sulla scuola di Michelle Hunziker, da noi riportate ieri.


Leggo oggi sul blog le dichiarazioni della Hunziker.
La selezione del personale docente è indubbiamente una conditio sine qua non, e non intendo mettere in discussione questo punto. Mi chiedo però se sia davvero così opportuno porvi l'accento in maniera così enfatica, come se tutti i mali della scuola gravassero effettivamente sulle spalle del solo insegnante: un elemento fondamentale, ma nel contempo soltanto parte di un sistema – il sistema educativo, appunto – estremamente complesso e non sempre così semplice da vivere e da gestire.
Inoltre, cosa intendiamo realmente per selezione?
Ce lo chiediamo (anche piuttosto indignati) sia io che molti miei giovani colleghi, usciti dai celebri corsi abilitanti, noti come SSIS che – si noti bene – sono lunghe specializzazioni rigorosamente post-accademiche.
Volendo fare un esempio pratico sulla base non soltanto della mia esperienza, ma di numerosi coetanei insegnanti o aspiranti tali, riassumo brevemente l'iter formativo a monte della tanto auspicata selezione.
La SSIS è un percorso biennale a frequenza obbligatoria, a cui si accede per concorso pubblico e che prevede una serie piuttosto articolata di insegnamenti tra l'area disciplinare d'interesse, l'area delle scienze umane (psicologia, pedagogia, didattica, etc...) e il tirocinio. Ora, volendo prescindere da fondate, quanto purtroppo sterili polemiche sulla validità di tali insegnamenti (parecchi precetti della cosiddetta area trasversale sono né più né meno che norme di comune buonsenso – su cui però sono stati scritti fiumi d'inchiostro! E il settore disciplinare in certi casi si limita a una rielaborazione artificiosa di contenuti noti a una persona laureata), sta di fatto che ci sono numerosi esami da preparare, sotto forma di elaborati scritti e di verifiche orali, su ciascun fronte, compreso il tirocinio e per entrambi gli anni. Le ore di tirocinio previste sono 290 per l'intero biennio, il che assommato all'obbligo di frequenza (anche fuori sede), comporta comunque una buona dose d'impegno e costituisce di per sé un discreto criterio selettivo. Dunque oltre al concorso d'ingresso, agli esami e alla pratica in itinere, ci sarebbe anche l'esame di stato finale che si basa sui trascorsi SSIS e sulla performance in loco del candidato......
Per "diventare" insegnanti di sostegno occorre passare necessariamente per il biennio SSIS ed essere abilitati, poi si concorre per titoli a un ulteriore anno di specializzazione "ad hoc". E in questo caso la frequenza alle lezioni è quotidiana (in Toscana non si sono risparmiati neanche con il sabato e – non scherzo! – la domenica), con l'aggiunta di altre 100 ore di tirocinio. Durante l'anno si effettuano questionari-esami sulle singole discipline (dalla didattica speciale delle discipline alla pedagogia della marginalità alla neuropsichiatria, etc....) per culminare con la discussione di una tesi finale.
Ammettendo di dedicarsi anche al sostegno, un docente ha già sulle spalle quasi 400 ore di pratica scolastica, delle quali le ultime 100 particolarmente dure e intense, anche perché, oltre alla difficoltà oggettiva del contesto, in qualità di docenti abilitati si ha maggiore libertà d'azione e autonomia. E non mi soffermo a quantificare l'enormità di tempo dedicato a frequentare lezioni, produrre elaborati, tesi e relazioni....
Al di là degli immaginabili disagi e sacrifici che questo processo di selezione possa creare, io riterrei opportuno sottolineare che le persone che si sono cimentate in questo percorso, e che addirittura scelgono di proseguirlo, possano essere definite almeno potenzialmente "insegnanti selezionati". Non fosse altro che per la motivazione, la pertinacia e la voglia di fare che sinceramente ho avuto modo di riscontrare in tante altre esperienze parallele alla mia. Senza nulla togliere al valore - e penso a un recente articolo di Casprini - dell'esperienza sul campo, all'amore per la propria disciplina e il proprio mestiere. Posso assicurare che la maggior parte dei neo-insegnanti, se non avesse amato ciò che aveva precedentemente studiato e la prospettiva di insegnare, avrebbe smesso questa assurda "corsa ad ostacoli" che rappresenta un'evidente selezione (basti lo sfinimento!), specie in tempi così avari di rosee prospettive.
In definitiva il concetto di selezione andrebbe affrontato con maggior consapevolezza, perché è davvero semplice banalizzare; e dopo anni di "preparazione" al "mestiere dell'insegnante", garantisco che non è particolarmente gradevole incorrere sempre nei soliti luoghi comuni. Tra l'altro se per selezione s'intende un controllo sul lavoro degli insegnanti saremmo in molti ad approvare. Direi anzi che allo stato attuale delle cose sarebbe forse meglio parlare di "controllo" o di "selezione derivante da controllo". E su questo punto, anche se da prospettive diverse, si potrebbe forse affermare che la vediamo allo stesso modo.
Mi scuso per essermi dilungata e per essermi permessa di esprimere un'opinione, ma questo argomento sta particolarmente a cuore a me e agli insegnanti che in questi ultimi anni hanno fatto le mie stesse scelte.

Giulia Biti

domenica 11 gennaio 2009

LA DIRIGENZA SCOLASTICA TRA INNOVAZIONI E CONFERME

di Valerio Vagnoli

Con l’autonomia delle scuole, come sappiamo, la figura del preside ha preso nuove connotazioni, a partire dal nome che oggi dovrebbe essere quello di Dirigente scolastico.
Allo stesso modo dell’abito che non fa il monaco, questa nuova definizione appare fuorviante anche perché si dovrebbe adattare ad una scuola del tutto autonoma che, per fortuna o purtroppo - come cantava Giorgio Gaber rispetto al sentirsi italiano - è ancora lontana dal realizzarsi.
Di fatto si è creata una autonomia parziale che finisce col responsabilizzare enormemente i presidi, senza però dare loro gli strumenti per gestire autonomamente e con piena responsabilità la vita della scuola.
Mi spiego meglio. Rispetto al passato le incombenze dei dirigenti scolastici (citerò, non a caso, ora l’una ora l’altra definizione) sono aumentate in modo quasi esponenziale, senza però che siano stati dati loro gli strumenti per poterle gestire, come si addice ad una scuola sempre più anche azienda e che in molti casi può coinvolgere oltre 1000 studenti, centinaia di adulti fra docenti e personale ATA e migliaia di genitori.
Oggi, ad un preside, si richiedono competenze e responsabilità inaudite. A fianco di quelle tradizionali, talvolta purtroppo relegate dai dirigenti in secondo piano, (ma su questo ritornerò più avanti), si affiancano compiti che in una vera azienda sono supportati da collaboratori o liberi professionisti che rispondono pienamente, ed economicamente, a chi dirige l’azienda stessa.
Nella scuola, invece, è il preside a doversi far carico di una miriade di responsabilità senza potersi spesso valere di consulenze interne all’amministrazione né tantomeno esterne, se non quelle informali e riconducibili al proprio sindacato o associazione di categoria. Valga per tutti l’esempio dei conflitti in materia di lavoro, frequentissimi anche in virtù di un precariato diffuso e regolamentato da leggi per numero e contenuto spesso più vicine alle gride manzoniane che non alla legislazione degna di uno stato di diritto. Se si deve dare per scontato che di fronte ai tentativi obbligatori di conciliazione (dovuti peraltro quasi sempre a inadempienze dell’amministrazione centrale) dovrà essere il dirigente scolastico a rappresentare l’amministrazione della scuola davanti al collegio di conciliazione, paradossale è il compito che lo stesso dovrà affrontare di fronte alle cause per motivi di lavoro. Tocca infatti al dirigente rispondere, per conto dell’amministrazione, davanti al giudice del lavoro per il processo di primo grado, ovviamente preparandosi da solo la difesa e misurandosi con una controparte che è invece accompagnata da avvocati di fiducia dotati di competenze specifiche che un dirigente scolastico non può avere, salvo che non sia laureato in legge.
Tralascio tutte le implicazioni legate alla responsabilità che il dirigente ha per i problemi legati alla sicurezza, per tutelare la quale, è provato, si dovrebbero chiudere buona parte delle scuole italiane.
Si dice che con la scuola dell’autonomia un preside debba essere anche manager e per certi versi, soprattutto in relazione alle scuole di indirizzo tecnico e professionale, è proprio così. Anche se sostenuto dai suoi collaboratori e dai coordinatori dei vari progetti, sarà sempre il dirigente scolastico ad essere il responsabile dei progetti stessi e sarà sempre lui a firmare i contratti e a rispondere in prima persona di qualunque inadempienza: sia questa di carattere organizzativo, didattico o amministrativo.
E’ inoltre compito del preside individuare le linee fondamentali della “politica” scolastica relativa all’istituto che egli dirige. In parole povere, ogni singola scuola dovrà avere, nel pieno rispetto delle leggi e della Costituzione, una propria anima, un proprio modo di realizzare quella che in un determinato contesto è l’azione didattica e culturale più utile a formare ed istruire gli studenti: e questa impronta vi è se all’interno della scuola c’è un dirigente in grado di progettarla o di indirizzarla nel giusto verso.
E toccherà al dirigente mantenere i rapporti con le amministrazioni locali e con le realtà economiche e culturali del territorio, perché oggi è impossibile pensare una scuola, di qualunque ordine e grado essa sia, al di fuori di qualsiasi dialettica col contesto in cui essa è inserita. Basterà fare dei banalissimi esempi: una seria attività di orientamento o di alternanza scuola-lavoro la si fa coinvolgendo innanzitutto le varie realtà economiche, sociali e culturali del territorio, così come il sostegno ai ragazzi handicappati lo si garantisce soprattutto se si condividono specifiche istanze educative e progettuali con il mondo delle associazioni e con le ASL. Allo stesso modo una seria educazione alla cittadinanza non si potrà costruire senza il coinvolgimento degli enti locali che, essendo i proprietari-gestori degli edifici scolastici, sono comunque interlocutori coi quali un dirigente si misura quasi quotidianamente. In particolare per la scuola primaria moltissime attività, a partire dall’organizzazione della mensa scolastica per finire a quella del trasporto degli studenti, devono e possono essere organizzate solo attraverso una costruttiva collaborazione tra dirigenza scolastica e i vari assessorati di riferimento.
Vi sono infine le mansioni tradizionali, quelle che da sempre sono alla base, almeno nel nostro sistema scolastico, del ruolo del preside: l’attenzione alla quotidianità della didattica, i problemi disciplinari, che possono concernere i ragazzi, ma anche il personale docente e non docente. Per la valorizzazione del merito, si sa, il preside non può incidere in alcun modo; in questo è accomunato alle altre dirigenze, essendo il merito, nella pubblica amministrazione di questo paese, ancora una sorta di tabù.
Un preside non può fare a meno di presiedere gli scrutini di tutte le classi, anche per dare omogeneità alla valutazione, e non dovrebbe esimersi dall’avere rapporti frequenti con le classi stesse e con gli studenti in generale.
Vi sono, poi, i rapporti con le famiglie, sempre più complicati e per questo non facilmente delegabili ad altre figure scolastiche, soprattutto se tali rapporti sono legati a dinamiche di carattere conflittuale fra docente e allievo.
Talvolta si nota che il carico di lavoro legato ai problemi gestionali-amministrativi, ha penalizzato proprio questo tipo di competenze, sempre più delegate dai presidi ad altre figure che, se pur preparate, rischiano però di far scomparire dalla scuola il punto di riferimento al quale, almeno in caso di necessità, rivolgersi. Nessuno nega l’importanza della delega per il buon funzionamento dell’istituzione scolastica, ma vi sono ruoli e funzioni, in una scuola, che non possono essere scissi, pena la perdita d’identità dell’istituzione stessa.
E’ evidente che in un contesto del genere diventa urgente dare alla figura del dirigente scolastico una struttura in parte diversa rispetto a quella che ha oggi. Gli si dovrebbe permettere, per esempio, di poter gestire dei fondi specifici per potersi avvalere, soprattutto per il suo ruolo di amministratore e di “dirigente,” di consulenti esterni in grado di supportarlo per problemi particolarmente gravosi; e si dovrebbe, comunque, creare una sorta di carriera separata per la vice-presidenza, in modo da aver garantite specifiche competenze gestionali e amministrative da parte di chi lo dovrà sostituire quando sarà preso da altri impegni, oltre che per le ferie.
Per fare un esempio; sarà difficile per un preside occuparsi interamente della gestione della didattica se nel contempo sarà coinvolto in una causa con un dipendente per motivi di lavoro. Un’ incombenza questa, come ho sopra ricordato, che comporta quasi sempre una mole di lavoro pesantissima, sia sul piano della quantità che della qualità.
E ancora: se un preside ha la sventura di trovarsi di fronte ad una persona vistosamente disturbata e inadatta al proprio compito di educatore, ha diverse strade da percorrere. La prima è quella d’ignorare il caso, tutt’al più confidando in un trasferimento della persona stessa. Un’altra sua possibilità è quella di riuscire a tamponare eventuali proteste di genitori e allievi convivendo così alla meno peggio col problema. La terza possibilità, a parer mio obbligatoria, è quella di avviare un procedimento disciplinare. Facendo ciò un preside è costretto ad intraprendere un percorso che ha, nelle modalità e nei tempi, delle implicazioni paradossali, che peraltro molto raramente assicurano poi risultati positivi.
Non vi è settore della pubblica amministrazione la cui dirigenza sia gravata da così tante incombenze come invece accade nella scuola e, nello stesso tempo, non vi è settore come quello della scuola che sia così vago nello stabilire quali compiti spettino realmente ad un dirigente.
Ma vi è dell’altro a rendere esageratamente complicato il ruolo del dirigente scolastico: vi sono, per esempio, le numerosissime e talvolta inutili circolari che giornalmente arrivano in ogni scuola “autonoma” di questo Paese, circolari che il dirigente deve leggere, decifrare e applicare.
Inutile soffermarsi sulla mole di leggi e leggine che in questi decenni hanno invaso la scuola italiana costringendo i presidi a veri e propri salti mortali perché esse trovassero puntuale applicazione, o sul ruolo secondario che il preside ricopre all’interno del Consiglio d’Istituto, peraltro nell’organo preposto a deliberare tutto quello per cui il dirigente è responsabile.
Occorre che si intervenga con urgenza per dare chiarezza e vera sostanza al ruolo del preside, anche per non dare alibi a quei presidi che di fronte a tante incombenze e contraddizioni ritengono legittimo non sporcarsi le mani, gestendo grigiamente la quotidianità nella certezza che nessuno valuterà il loro operato.
Insomma, occorre fare in modo che coloro, la maggior parte, che non rinunciano a scindere il ruolo di presidi da quello, più recente, di dirigenti scolastici, possano veramente essere in grado di prendersi tutte le responsabilità della gestione della scuola, senza doversi costantemente improvvisare giuslavoristi, psicologi, esperti di marketing, di sicurezza, di salute e di chissà quante altre cose.
Basterebbe dar loro tutti i mezzi necessari per poter essere, alla fine, presidi e dirigenti nello stesso tempo; salvo ovviamente pretendere che vi siano controlli specifici e valutazioni periodiche, perché la società ha il diritto di conoscere come sono spese le risorse destinate alla scuola, ovvero all’istituzione indispensabile a garantire il futuro stesso della società, ed infine perché una scuola non potrà mai veder garantiti merito e responsabilità se questi principi non si applicano innanzitutto a chi la dirige.