mercoledì 14 maggio 2014

MAESTRE DI SCUOLA E DI VITA

Domenica scorsa, al Poggio Imperiale di Firenze, sede dell'Educandato della SS. Annunziata, si è festeggiato l’ingresso della Villa, insieme ad altre dimore storiche medicee, tra i beni riconosciuti dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Come sappiamo, la villa ospita dal 1865 una scuola anch’essa “storica”, l’Educandato statale della SS. Annunziata, che ha ospitato principessine destinate a diventare regine, nobili ragazzine destinate a regredire allo stato borghese e borghesi che ambivano a diventare nobili, talvolta anche riuscendovi. La scuola, in passato, forse appariva troppo compresa nel suo ieratico isolamento, concedendosi poche volte alla città che vedeva con stupore “le poggioline” sfilare per le eccezionali passeggiate nel centro storico, scese a piedi in fila militaresca,  nella loro divisa quasi monacale che le rendeva alla fine  forse un po’ tristi, come le rappresentò in uno dei suoi quadri più belli il pittore fiorentino Gianni Vagnetti.
Gli anni settanta del secolo scorso cancellarono il passato anche al Poggio: le divise scomparvero e la scuola si aprì anche ai maschi, aggiungendosi alle convittrici studenti e studentesse fiorentini e della provincia, purché versassero una retta a dire il vero  per nulla esosa.
I fiorentini, da parte loro, conoscono poco il Poggio e capita spesso che la gente, anche dell’ambiente scolastico, si dichiari convinta che l’Educandato sia una scuola privata, malgrado, invece, sia una delle scuole statali più antiche, se non addirittura la più antica.
Al Poggio, come si conviene in qualsiasi storica istituzione del nostro Paese è passato di tutto: gente onesta e furfanti, ladri di opere d’arte con evidenti complicità interne e amministratori che si sono intascati, per anni, centinaia di miglia di euro senza che nessuno si preoccupasse di chiederne conto. Docenti quali Matteo Marangoni (il Poggio è stata la prima scuola italiana in cui si sperimentò, proprio con l’allora giovane Marangoni, l’insegnamento della Storia dell’arte), Enzo Faraoni e Luigi Baldacci, tanto per fare i nomi di alcuni grandissimi maestri del Novecento, ma anche  Direttrici e Consiglieri di amministrazione estasiati nel condurre le  bambine e le ragazzine   del Poggio, con bandiere svolazzanti le croci uncinate, ad urlare eccitate “nella sera della loro tregenda”, come la definì Montale, i nomi di Hitler e Mussolini in occasione della loro sfilata fiorentina della primavera del ’38.
Ma dal Poggio è passata anche tanta gente per bene e tra queste mi preme ricordare due nomi, entrambi valtellinesi: Pio Rajna, che per diversi anni e oramai vecchissimo ne fu presidente del Consiglio di amministrazione,  e Maria Patrizi che ne fu, più o meno nello stesso periodo,  direttrice. Del primo “ un esemplare di ciò che fu l’homo sapiens prima che la sapienza fosse peccato” come lo definirà lo stesso Montale,  forse  qualcosa a malapena rimane, almeno nella memoria di coloro che si occupano di Filologia romanza. Dell’altra di sicuro sono tra i pochissimi ad averne memoria, per puro caso e forse solo in virtù della fortuna che mi è caduta addosso nell’avere ricevuto anche l’incarico della  reggenza del Poggio, oltre alla scuola che normalmente dirigo. E per non correre il rischio di rimanere, stavolta per dirla con Ungaretti, il solo a sapere “ancora che visse” vorrei dedicare a lei, a Maria Patrizi, appunto, la festa di questi giorni al Poggio Imperiale. E ricordare che trattò Mussolini, quando questi venne a visitare per la prima volta la figlia Edda, al pari degli altri genitori facendolo  aspettare in sala d’attesa per farlo poi accompagnare dalla portinaia nel suo ufficio. E alla richiesta del dittatore di visitare seduta stante il collegio, oppose un essenziale e  netto rifiuto limitandosi ad allargare le tende della sua finestra per mostrargli le bambine che stavano facendo ricreazione in giardino. Da allora in poi, per il periodo in cui Edda rimase al Poggio (solo per l’anno scolastico 1925-26 )  Mussolini si recherà più volte a trovare la figlia senza tuttavia scendere di macchina attendendo fuori dall’istituto che essa uscisse.
Dieci anni dopo, Maria Patrizi fu cacciata dal Poggio. Oramai scomparso il Rajna e forse evaporato del tutto quello spirito liberale che pur era riuscito a sopravvivere nei primi anni del fascismo, il regime non le perdonò di non aver permesso alle allieve di ascoltare la sera del 9 maggio, in diretta alla radio, il discorso del duce che proclamava la nascita dell’Impero. Alle otto di sera si doveva come sempre cenare e nessun ordine e nessun proclama avrebbe infranto le regole dell’Istituto.
Qualcuno, dall’interno, avvertì a Roma il gerarca di riferimento e la mattina successiva arrivò l’ordine di immediata rimozione e allontanamento entro 24 ore della direttrice, esattamente l'11 maggio di settantotto anni fa, a cui subentrò la sua vice. (Per caso e solo per caso la nostra festa si è svolta proprio l’11 maggio).
Nel registro dei verbali dei Consigli di amministrazione manca quello del mese di maggio del ‘36, e la numerazione delle pagine si interrompe al numero 11, appunto all’ultima pagina del mese precedente. Poi, come se niente fosse accaduto, i verbali ricominciano dal mese di giugno senza più alcuna numerazione e su quello che era successo il mese precedente non compare, da nessuna parte,  un pur minimo riferimento. Pensavano, per dirla con Sciascia, di aver cancellato la loro miserabile azione e invece omettendo di raccontare quanto era accaduto, avevano firmato la loro condanna e confessata la loro appartenenza ad una razza di fanatici lacché, mediocri e ottusi.
Per nostra fortuna, la Storia è fatta anche da persone come Maria Patrizi, una granduchessa della modernità, almeno sul piano etico e morale; un patrimonio anch’esso da non dimenticare.
Valerio Vagnoli

(“Corriere Fiorentino”, 14 maggio 2014)
 

martedì 6 maggio 2014

L’AGGIORNAMENTO: DIRITTO O DOVERE? UN DILEMMA DA SUPERARE RESTITUENDO AI DOCENTI LA DIGNITÀ DI PROFESSIONISTI

Se tu hai una mela e io ho una mela e ce le scambiamo,
tu ed io abbiamo sempre una mela ciascuno.
Ma se tu hai un'idea e io ho un'idea e ce le scambiamo,
allora abbiamo entrambi due idee. 
(George Bernard Shaw)
Il numero 513 di “TuttoscuolaFOCUS” torna sull’obbligo di aggiornamento, che come diritto-dovere esiste sulla carta già da tempo, ma che di recente è stato ribadito come vero e proprio obbligo, almeno relativamente a situazioni particolari, nel decreto legge 104/13, detto “L’istruzione riparte” dall’ex ministro Carrozza e poi confermato nonostante le obbiezioni di parte sindacale. “Tuttoscuola” ritiene però che “nel DNA professionale dei docenti italiani” sia difficile da sradicare l’idea che l’aggiornamento sia un diritto e basta, che poi nei fatti è diventato “il diritto contrattuale di non aggiornarsi”. A conferma, la rivista porta un recente episodio. “La Regione Lazio propone ad una ventina di scuole della capitale un breve ciclo di lezioni tecnico-didattiche sull’uso delle LIM, le lavagne interattive multimediali. Mette a disposizione fior di esperti. Le lezioni sono riservate ad un paio di docenti per scuola, per un massimo di una cinquantina di docenti. Su 50 docenti attesi erano presenti in 5. Lezioni molto ben condotte per un’aula quasi vuota. Che peccato, che spreco”. 
Proprio questo esempio, però, è altamente dimostrativo di quanto poco si cerchi di comprendere questa resistenza. A nessuno infatti è venuto ancora in mente che si dovrebbero interpellare gli stessi insegnanti in merito agli argomenti su cui sentono il bisogno di aggiornarsi, invece di continuare a proporre argomenti che non sono per forza in cima alla lista dei loro interessi. Tutti abbiamo avuto esperienza di corsi inutili e magari anche noiosi; e nel caso specifico, poi, può aver pesato il fatto che di lavagne interattive spesso non ce n'è che una in tutto l'istituto, non esattamente la condizione ideale per motivare i docenti. Ma soprattutto c’è un fondamentale problema di metodo: più volte su questo blog, e da ultimo nel nostro dossier Una grande riforma a portata di mano, abbiamo fatto presente che negli ultimi decenni ci si è sistematicamente rivolti agli insegnanti italiani soltanto come a oggetti passivi di aggiornamento sulle varie mode pedagogiche e didattiche (quelle che tra l’altro hanno inferto colpi durissimi alla scuola italiana), così contribuendo pesantemente a demotivarli. Se è logico considerare la formazione continua un dovere primario di ogni professionista, dovrebbe esserlo altrettanto considerare ogni professionista – docenti inclusi – anche come depositario di competenze e di esperienze potenzialmente utili ai propri pari. Eppure la pratica del lavoro seminariale, tipico delle professioni e della ricerca, è praticamente assente nella scuola italiana, specialmente in quella secondaria. In altre parole, gli insegnanti non vengono considerati, né in genere considerano sé stessi, esperti di didattica della propria materia, mentre vengono presentati come veri esperti una serie di personaggi, che, con le dovute eccezioni, hanno idee molto approssimative su che cosa succeda veramente in una classe. Mettersi intorno a un tavolo e scambiarsi ordinatamente idee e esperienze su un tema di comune interesse (cioè non calato dall’alto) produce invece una serie di effetti positivi. Il primo è quello di rendere possibile la circolazione di un ricco insieme di idee e di esperienze, che, attraverso il confronto e la discussione, contribuiscono alla crescita professionale dei docenti molto più di tante conferenze. A sua volta questo arricchimento reciproco è fortemente motivante per i partecipanti, proprio perché viene data per scontata la loro competenza professionale e la possibilità di essere utili ai colleghi. Inoltre, con il susseguirsi di queste esperienze, si costruisce un gratificante senso di appartenenza a una comunità professionale, all’interno della quale ci si sente sostenuti e potenziati. Infine, attraverso il libero confronto fra diversi approcci agli stessi problemi, si può comprendere in concreto quanto sia importante e feconda la più ampia libertà metodologica e quanto sia necessario difenderla dai ciclici tentativi di imporre un’ortodossia didattica. Naturalmente non si vuole qui invitare all’assoluta autoreferenzialità: non è affatto escluso, infatti, che si senta la necessità di interpellare su qualche argomento un (vero) esperto esterno alla scuola.
Quanto al dilemma diritto-dovere da cui siamo partiti, non è pensabile che, di fronte alla crescente difficoltà del mestiere di insegnante, i docenti in maggioranza non sentano l’esigenza – e magari l’urgenza – di una crescita professionale. È molto probabile che la disponibilità o meno all’aggiornamento dipenda in gran parte dalla percezione della sua effettiva utilità e che le resistenze siano destinate a venire meno nel momento in cui gli insegnanti siano messi in grado di sceglierne i contenuti in base alle proprie esigenze e di esserne protagonisti attivi e non più solo passivi. E il metodo seminariale, come mi conferma l’esperienza personale, possiede per l’appunto queste essenziali caratteristiche. (GR)