“Per fare bisogna innanzitutto avere la
voglia di fare e la volontà richiede determinazione, una capacità di sopportare
la fatica e la sua applicazione continuativa, qualità morali di diligenza, di
sforzi sostenuti e di concentrazione, di accuratezza. Qualità che la scuola ha
il diritto di esigere, ma che difficilmente può produrre soprattutto trattando
con adolescenti. Accanto a esse un senso personale della disciplina e il
riconoscimento dell’autorità dell’insegnante, in grado di imporre dei compiti,
di esigerne l’esecuzione e sanzionare efficacemente le inadempienze. Un
sentimento infine della responsabilità individuale dei propri successi e dei
propri fallimenti, concepiti come propri e non come l’applicazione più o meno
efficace della professionalità del docente” (La scuola che vorrei,
p.106). Si deve aggiungere che queste caratteristiche personali rinviano
necessariamente a un’educazione familiare capace di “consegnare” alla scuola
figli già in grado di rispettare le regole minime della convivenza, mentre la
scuola, per parte sua, ha il dovere di offrire alle nuove generazioni ambienti
educativi non solo accoglienti, ma abbastanza esigenti da sostenerli nel
faticoso quanto indispensabile confronto con la realtà, base della loro
crescita umana e culturale.
In questo
quadro, pazienza se fossimo davanti soltanto all’ennesima sollecitazione
ministeriale a dare risposte adeguate alle difficoltà degli allievi. Purtroppo
non è così. Qui si tratta del tentativo di mettere in piedi una macchina
organizzativa e un insieme di procedure che rischiano di stritolare l’autonomia
professionale dei docenti, oltre a caricarli di pesanti compiti e oneri
burocratici, accrescendone il disorientamento e la frustrazione.
E infatti,
come dovrebbe funzionare la nuova “scuola dell’inclusione”? Dalla tormentosa
lettura dei documenti ministeriali si capiscono abbastanza chiaramente due
cose: la prima è che gran parte del lavoro aggiuntivo ricadrà appunto sulle
spalle degli insegnanti, trasformati, ovviamente senza una seria preparazione,
in diagnosti e valutatori dei propri allievi in funzione di trattamenti
differenziati; la seconda è che viene istituito un groviglio di competenze e di
procedure a carico di commissioni, gruppi di lavoro, centri di sostegno e di
coordinamento, che non si sa come potranno integrarsi e di cui nel migliore dei
casi esistono solo degli abbozzi: i Centri Territoriali di Supporto (CTS) e i
Centri Territoriali per l’Inclusione (CTI), in collaborazione con i Gruppi di
Lavoro Interistituzionale Regionale per l'integrazione scolastica degli alunni
con disabilità (GLIR) e con i GLIP (provinciali). Sarà necessaria “la creazione di una rete diffusa e ben
strutturata tra tutte le scuole”. Si dovrà far riferimento, per i docenti
specializzati, “soprattutto a risorse
interne”, cioè ai pochi insegnanti già specializzati e ai molti aggiornati
alla meno peggio. E via coordinando, supportando e mettendo in rete.
A livello di
ogni singola scuola, il GLHI (Gruppo di lavoro per l’Handicap d’Istituto)
diventa GLI (Gruppo di Lavoro per l’Inclusione) e i suoi compiti “si estendono alle problematiche relative a
tutti i BES”. In base ad analisi e rilevamenti, dovrà sottoporre al
Collegio un Piano Annuale per l’Inclusività. Ma non si capisce come possa
essere operativo un organismo pletorico composto da “funzioni strumentali, insegnanti per il sostegno, Assistenti
Educatori Culturali, assistenti alla comunicazione, docenti ‘disciplinari’ con
esperienza e/o formazione specifica o con compiti di coordinamento delle
classi, genitori [sic] ed esperti istituzionali o esterni in
regime di convenzionamento con la scuola”.
All’interno dell’ingranaggio
di prescrizioni, obblighi, verbali, rendicontazioni previsto dalla normativa, che
fine fa la libertà dell’insegnante di decidere in scienza e coscienza che cosa
è meglio per quel certo allievo? Potrà ancora metterlo di fronte alle sue
responsabilità, sollecitarne la presa di coscienza, attenderne la maturazione, semplicemente
parlarci, insomma fare quello che la sua sensibilità educativa gli suggerirà
sul momento, oppure sarà indotto a verbalizzare senza crederci un qualsiasi
pseudo-programmino che lo metta (forse) al riparo da eventuali ricorsi? E i
genitori-sindacalisti non disporranno con questa normativa di un accresciuto
potere di ricatto e di veto sulle decisioni dei docenti?
Il minimo che
gli insegnanti e i collegi docenti dovrebbero esigere, quindi, è una ridefinizione molto più restrittiva del
concetto di bisogno educativo speciale,
in modo da limitare quanto meno i danni. Ma non c’è dubbio che sia
necessaria un’alternativa complessiva a questa imbracatura burocratica della
didattica, che esprime una sostanziale sfiducia nell’autonoma capacità dei
docenti di individuare e affrontare le normali difficoltà dei propri allievi. È
un’alternativa fondata su due pilastri: pieno riconoscimento dell’autonomia
professionale dei docenti su quando e come intervenire; e qualificati servizi
di supporto e di consulenza a loro disposizione. Una chiara distinzione dei
ruoli è assolutamente necessaria. Anche un insegnante ben preparato non avrà
mai le competenze di uno specialista che ha studiato per anni la sua disciplina,
né le acquisirà con un’infarinatura sulla dislessia o sul deficit
dell’attenzione. Nella scuola ci si comporta invece come se in un ospedale, in
mancanza di un anestesista, si rimediasse facendo fare a un chirurgo un corso
di tre mesi per poter svolgere anche questo ruolo. Invece, un po’ come succede
nella scuola finlandese, gli insegnanti dovrebbero poter contare su consulenti
(ben preparati) in grado di fornire il necessario supporto su problemi di
singoli allievi o di una classe: logopedisti, psicologi, neuropsichiatri,
assistenti sociali. E questo con il minimo necessario di formalità,
preoccupandosi cioè soprattutto dell’efficacia e della tempestività degli
interventi, invece di sprecare energie nella produzione di piani, documenti di
intenti e complicate progettazioni da parte di gruppi e sottocommissioni. In
altre parole, si sostituirebbe a un’impostazione, che per più motivi grava pesantemente
sui docenti, un’altra in cui – con ben altra efficacia – questi ultimi vengono
invece alleggeriti da un eccesso di compiti e di responsabilità. Peraltro il contributo di queste figure di esperti non deve riguardare
necessariamente la didattica, anche perché in molti casi le difficoltà di
apprendimento di un ragazzo dipendono da fattori esterni alla scuola
(personali, familiari, ecc.). Quindi per superarle è necessario l’intervento,
ad esempio, di uno psicoterapeuta o di un assistente sociale. Purtroppo solo poche scuole hanno già la fortuna di
sperimentare un modello simile, con cui certamente si ottengono risultati
positivi senza imporre ai docenti altri gravami. Beninteso, la titolarità delle
decisioni deve restare saldamente nelle mani dei docenti, deve cioè trattarsi
di una collaborazione senza invasioni di campo tra
ruoli diversi, basata su competenza, buon senso e rispetto reciproco.
Ammesso e non
concesso che questo modello, certo da realizzare gradualmente, sia più costoso,
non è comunque sensato intraprendere per questo una strada sbagliata, che non
solo rischia di produrre avvilimento negli insegnanti, ma non è in grado di dare
risposte ai problemi che questa normativa vorrebbe risolvere. (Giorgio Ragazzini)