martedì 18 settembre 2012

IL VALORE ILLEGALE DELLE LAUREE, di Gian Antonio Stella. Con una postilla sulla "madre tigre" Amy Chua

Se fosse solo una faccenda giudiziaria, amen: una bella condanna dei colpevoli e fine. Ma che 72 giovani calabresi si siano fatti delle lauree false e circa duemila siano sotto inchiesta è un atto d’accusa non solo per loro ma anche per chi li ha educati. E rilancia un tema: se la laurea è solo un pezzo di carta, è sempre più urgente abolirne il valore legale. Perché quei giovani si sono iscritti all’università? Nelle società che funzionano, dove il «merito» non è solo una parola inserita 37 volte in una proposta di legge di Mariastella Gelmini, ma l’asse portante del sistema educativo, i ragazzi cercano di entrare nei migliori atenei per un motivo solo: imparare. Crescere. Accumulare un bagaglio di conoscenze che consenta loro di conquistare il mondo. O come minimo di affrontare un colloquio di lavoro avendo delle buone carte da giocare.
A questo servono, piaccia o non piaccia, la severità anche nella distribuzione dei voti in pagella e la rigidità nella selezione quotidiana, che esistono in tanti Paesi che ci umiliano nelle classifiche internazionali come quelle del Pisa (Programme for International Student Assessment) dove i nostri figli, soprattutto quelli che frequentano le scuole nel Sud e nelle Isole, non sono assolutamente in grado di reggere il confronto con gli altri nella concorrenza scolastica che poi diventerà concorrenza nella vita.
L’anno scorso una madre cinese, Amy Chua, in un lungo articolo sul Wall Street Journal, spiegava perché trovava assurda la manica larga usata in Occidente nei confronti dei figli: «Quando i genitori occidentali pensano di essere rigorosi, di solito non si avvicinano nemmeno alle mamme cinesi. Ad esempio, i miei amici occidentali che si considerano severi fanno esercitare i figli sui loro strumenti musicali 30 minuti al giorno. Un’ora al massimo. Per una madre cinese, la prima ora è la parte facile. Sono la seconda e la terza ora quelle difficili».
Troppo dura? «In uno studio su 50 madri americane e 48 madri cinesi immigrate, quasi il 70% delle madri occidentali afferma che "insistere sul successo scolastico non è un bene per i bambini" e che "i genitori devono promuovere l’idea che l’apprendimento è divertente". Al contrario, poco più dello 0% delle madri cinesi la pensa così ». Altri studi, proseguiva, «indicano che, rispetto ai genitori occidentali, i genitori cinesi dedicano al fare i compiti con i figli un tempo di circa 10 volte superiore. Al contrario, i bambini occidentali sono più propensi a partecipare a gruppi sportivi».
Tutti i papà e le mamme, sia quelli occidentali sia quelli cinesi, concludeva l’autrice, vogliono il bene dei loro figli ma quelli cinesi sono convinti che occorra prepararli alle difficoltà della vita. Spiegar loro che nulla sarà regalato, che tutto dovrà essere conquistato.
Il Foglio di Ferrara, traducendo la paginata, titolò: «Ai figli regalategli un lager». Divertente e provocatorio. Ma quello giusto era il titolo originale: «Per imparare bisogna soffrire». C’è chi, al di là di certe legnosità schematiche della cultura cinese, se la sente di contestarlo? È più utile dare in pagella un voto basso che segnali un problema (anche ai genitori, ammesso che tutti diano un’occhiata ai risultati dei figli) o promuovere tutti in massa distribuendo voti altissimi perché «la vita è già dura, poveri ragazzi, è inutile mortificarli?».
Sinceramente: è credibile che al liceo classico «Empedocle» di Agrigento siano usciti agli esami di maturità 2011 la bellezza di 53 geni col massimo dei voti su 182 studenti? Cos’era, un’infornata strabiliante di Leonardo da Vinci, Pico della Mirandola e Albert Einstein o un genio ogni tre alunni è una quota un po’ troppo alta per essere plausibile?
E torniamo al nocciolo della questione: quei 72 «dottori» falsi usciti dall’università della Calabria, quell’«Arcavacata» di Cosenza che nacque grazie all’entusiasmo di tanti docenti trascinati da un trentino come Beniamino Andreatta e che avrebbe dovuto essere un campus di altissimo livello su modello degli atenei americani, non sono solo degli imbroglioni da castigare con una sentenza durissima. A partire da quello che, registrando sette esami in un giorno e prendendo per sette volte il massimo dei voti con la lode, dimostrava di essere certo che la sua bravata strafottente sarebbe passata inosservata.
Intorno a loro non hanno funzionato i professori e le scuole che li hanno fatti studiare (si fa per dire...) senza ficcargli nella testa che studiavano per se stessi e non per il voto. Non hanno funzionato le famiglie, che evidentemente si sono del tutto disinteressate di «come» i figli stavano facendosi il loro bagaglio di professionalità. Non hanno funzionato i meccanismi di una società che, soprattutto nel Mezzogiorno, ha troppo spesso mostrato che il risultato d’un concorso, l’assunzione, il posto fisso, lo stipendio, non dipendono da quanto uno è preparato ma dalle conoscenze giuste, le amicizie giuste, il politico giusto. Perché studiare se perfino il cardiochirurgo non viene scelto sulla base della sua preparazione ma della sua tessera di partito?
Un messaggio devastante. E questo a maggior ragione se è vero quanto spiega il pm Antonio Bruno Tridico, il quale indaga su oltre duemila studenti perché qualcosa non gli torna e ha dovuto imporre almeno lo spostamento dei tre impiegati smascherati dalle indagini, altrimenti inamovibili. E cioè che molti dei falsi laureati sono dipendenti pubblici non più giovanissimi che hanno cercato quella scorciatoia per farsi quel pezzo di carta utile per diventare funzionari o dirigenti, per andare avanti nella carriera.
E torniamo al punto di partenza. Se quel pezzo di carta è così importante in quanto pezzo di carta, al di là della preparazione effettiva e dell’università che lo ha dato, allora è meglio abolire il suo valore legale. Sono anni che Roberto Perotti, Francesco Giavazzi, Roger Abravanel ed altri ancora battono e ribattono su questo tasto. E mettere ordine in queste cose, per rilanciare il Paese, è importante quanto un investimento miliardario sulle infrastrutture.

Gian Antonio Stella

POSTILLA.  Amy Chua, la madre cinese a cui fa riferimento Stella, fece scalpore pubblicando un libro sull’educazione dal bellicoso titolo Inno di battaglia della madre tigre (in italiano Il ruggito della mamma tigre). Siamo ovviamente al polo opposto della mamma chioccia di stampo italico. Ne riferiva tra l’altro il “Corriere della Sera” all’inizio del 2011.  Su questo blog abbiamo più volte sostenuto che l’elevatissimo prestigio di cui gode l’istruzione in gran parte dell’oriente, le posizioni che Corea, Singapore e altri paesi hanno nelle classifiche internazionali e gli straordinari risultati che molti  studenti orientali ottengono nelle università americane devono senza dubbio farci riflettere e contribuire sbarazzarci delle pedagogie buoniste. Da qui a cercar di trapiantare pari pari qui da noi i metodi della “mamma tigre” (una specie di “coaching estremo” applicato alle figlie)  il passo è un po’ troppo lungo. Abbiamo chiesto a Osvaldo Poli, autore tra l’altro di Non ho paura a dirti di no. I genitori e la fermezza educativa, cosa ne pensa dei metodi di Amy Chua. Scrive Poli:
“Ne penso quasi tutto il male possibile, in modo speculare a quello che penso del nostro sistema educativo. Commette l’errore opposto; e due cose sbagliate non ne fanno una giusta. La tensione di fondo che, a mio sentire, anima tali madri è che il figlio emerga, eccella. Questi verbi contengono il veleno dell'ideologia che unisce l'oriente all'occidente. Tutte le pratiche educative descritte non hanno il sapore dell'amore. Sanno di durezza , che non è fermezza, è solo il contrario della debolezza. La fermezza unisce in sé gli opposti necessari, sa essere inflessibile quando necessario, comprensiva quando è opportuno. Ha misura perché non è animata né dalla paura di " far star male" il figlio, né dall’ossessione di farlo primeggiare. Oltretutto tale filosofia parte dal presupposto che con l'applicazione e lo sforzo tutto sia possibile a tutti. Un'illusione tanto quanto la nostra per la quale è bene che i figli facciano solo ciò che piace. Per una bimba che riesce a suonare il pezzo al pianoforte, quanti avranno odiato la musica? Fra il lassismo e la crudeltà psicologica c'è la responsabilizzazione che incita, incoraggia, motiva, ma non evita le conseguenze degli errori e delle decisioni sbagliate .
In fondo entrambi i metodi intendono evitare ai figli il dolore del fallimento e il peso della (loro) colpa. E forse sono metodi più simili di quanto appaia in superficie.
Mi rendo conto mentre scrivo che questi miei presupposti sono mutuati dalla antropologia cristiana, a mio avviso ampiamente difendibili anche dal punto di vista culturale e razionale”
[1].


[1] Comunicazione privata