mercoledì 16 luglio 2014

ATTORNO A MINISTRI E SOTTOSEGRETARI INESPERTI SI TENTA L'ENNESIMA “GRANDE RIFORMA” PUNITIVA

Nessuno sa bene quali manovre si stiano apparecchiando al ministero nei confronti del mondo scolastico. Di sicuro in un qualsiasi altro paese un sottosegretario che avesse detto "sciocchezze" in merito a quanto stava progettando sarebbe saltato, anche se avesse chiesto scusa. Peraltro in un qualsiasi altro paese difficilmente sarebbe stato nominato un sottosegretario all’istruzione del tutto inesperto di questioni scolastiche (parole sue). Eppure da noi questa è la regola, con rare eccezioni; ed è una condizione che li espone maggiormente all’influenza delle solite "squadre di lavoro" che dettano legge in materia di scuola (sindacalisti passati nella burocrazia ministeriale, direttori  ed ex direttori generali, ispettori ed ex ispettori, pedagogisti incarogniti contro la classe docente), che probabilmente anche ora stanno preparando la loro "grande riforma".
Andò così con Berlinguer. Quando fu eletto alla camera, Berlinguer aveva manifestato idee positive sulla scuola, suscitando qualche speranza (ricordo ad esempio il consenso iniziale della Gilda). Lo posso testimoniare insieme ad altre 15 persone rappresentanti le scuole del centro fiorentino, che lo incontrarono in casa mia nel febbraio 1996, quale candidato alle elezioni politiche, per conoscere le sue idee per la scuola. In quella occasione il futuro ministro lamentò la scarsa considerazione, anche economica, di cui godeva il corpo docente e che questo in particolare rappresentava la prima emergenza della scuola italiana. Prese poi spunto dalla delusione rispetto al modello scolastico americano, che il figlio aveva frequentato per un anno, il quale, a suo parere, non era in grado di trasmettere una solida cultura generale, a differenza di quella italiana. Citò inoltre, a conferma del suo apprezzamento per il modello scolastico di stampo liceale, quanto gli avevano fatto presente alcuni amici sia imprenditori che funzionari di banca; e cioè che la scuola doveva garantire una solida cultura di base perché poi avrebbero pensato loro a insegnare ai giovani i programmi informatici e altri aspetti tecnici del lavoro.  
Poi il politico divenne preda delle "avanguardie" socio-pedagogiste e sindacali, sconfessando in buona parte quella che era la sua precedente visione della scuola, almeno di quella che aveva dipinta a noi, ingenui docenti pieni di attese.
Oggi, come ho sopra ricordato, temo che la storia possa ripetersi e questo timore nasce dall'assoluto silenzio, proprio alla vigilia della pausa estiva, che si sta mantenendo da parte di chi, sottosegretario Reggi in primo luogo, sta lavorando alla "grande" trasformazione della scuola.
Quanto a entrare nel merito di quello che è stato per sommi capi preannunciato, dovrei ripetere cose che abbiamo già detto in passato in circostanze analoghe. Accenno solo ad alcune.
- non è vero che gli insegnanti  italiani lavorano meno di quelli europei;
- c’è una grave inconsapevolezza della fatica e non di rado dello stress che caratterizzano un serio impegno professionale;
- è semplicemente ridicolo solo pensare che la maggior parte delle scuole italiane sia minimamente in grado ospitare tutti gli insegnanti in condizioni almeno decenti per il lavoro pomeridiano;
- è illusorio pensare che le scuole aperte (“fino alle 22”!) sarebbero davvero frequentate da un gran numero di studenti. Molti istituti, infatti, propongono già da tempo attività sportive o altri progetti extracurriculari (teatro, musica, scrittura creativa…), ma la frequenza è in moltissimi casi pressoché nulla. Solo chi non sa niente di scuola o da  anni ne è al di fuori, magari perché “distaccato”, non si è reso conto che le richieste da parte degli studenti di “impossessarsi”  degli istituti scolastici durarono poco (fino a quando, appunto, le scuole giustamente decisero di aprirsi alle loro richieste).  
- una maggiore quantità di scuola (secondo la vecchia illusione quantitativa tipica di molta sinistra) è utile solo nel caso di allievi insufficienti, ma che si impegnano almeno un po', oppure sono stati assenti;
- premiare i migliori insegnanti non migliora la scuola e può essere dannoso ai rapporti tra colleghi; bisogna invece assicurare a tutti gli allievi dei docenti almeno decorosi. Cosa ben diversa sarebbe quella di riconoscere stipendi diversificati ad insegnanti che magari per concorso potrebbero accedere a ruoli e a carriere particolari quali, per esempio, la vicepresidenza, la responsabilità nella formazione dei nuovi assunti, l’occuparsi  a tempo pieno dell’alternanza scuola-lavoro, dell’aggiornamento e altro ancora.
Quando le misure saranno finalmente note, potremo fare ulteriori valutazioni (peraltro, a differenza dei miei amici del Gruppo, da ex studente dell’Istituto magistrale, sono da sempre d'accordo sulla opportunità di accorciare il percorso quinquennale delle superiori). Ma che non si prendano a schiaffi i docenti e tutte le altre figure che lavorano nella scuola! Gli schiaffi, beninteso metaforici, se li dovrebbero prendere tutti coloro che – da sempre fuori dalla scuola e imbucati, per demeriti vari, nelle carriere ministeriali, sottogovernative, burocratico-amministrative, universitarie, sindacali e affini – da  anni e anni fanno il buono e soprattutto il cattivo tempo  nella politica scolastica. Se la politica, quella che spero sopravviva ancora con la P maiuscola, dovesse rompere gli ultimi legami che ha  con la stragrande maggioranza del mondo scolastico (quale altro collante ha questo povero Paese?) sarebbe un danno forse irreversibile per la salvaguardia della democrazia. (Valerio Vagnoli)

mercoledì 2 luglio 2014



RIDATECI IL SILENZIO
Contro la distruzione della quiete pubblica, contro la musica imposta
Appello al Governo, al Parlamento, alle amministrazioni regionali e comunali,
alle polizie municipali, ai prefetti, alle forze dell’ordine

Esiste ancora la difesa della quiete pubblica? A noi pare di no. Da anni si sono infatti  affermate abitudini e convinzioni che negano in radice il diritto a riposare tranquillamente all’ora che si preferisce, a concentrarsi nella lettura, ad ascoltare musica di propria scelta, a godere la tranquillità e la bellezza di un parco o di una spiaggia.
Già può risultare fastidiosa la musica imposta in quasi ogni locale o esercizio dove si metta piede. Ma è a maggior ragione inammissibile che soprattutto nella buona stagione imperversi ovunque la musica ad alto o altissimo volume, che da chioschi, stabilimenti balneari, piazze si propaga anche a grandi distanze.
Inoltre molti quartieri cittadini sono tormentati dagli schiamazzi della cosiddetta “movida”, mentre le notti bianche o blu si trasformano troppo spesso in un vero e proprio incubo per i loro abitanti.
In questo quadro desolante manca quasi del tutto un’incisiva azione di prevenzione e di contrasto basata su norme chiare, severe ed efficaci; anzi, il più delle volte dobbiamo constatare l’insensibilità e la tolleranza di chi dovrebbe proteggere la tranquillità e il riposo dei cittadini, le cui richieste di intervento rimangono quasi sempre inascoltate. Alle proteste si risponde spesso che si tratta di conciliare interessi diversi. Ma questo non può certo voler dire che in determinati orari si possa sospendere un sacrosanto diritto dei cittadini.
È arrivato il momento di  opporsi con determinazione a tutto questo. Ci rivolgiamo quindi al Governo, al Parlamento, alle amministrazioni regionali e comunali, alle polizie municipali, ai prefetti, alle forze dell’ordine chiedendo loro di provvedere con la massima urgenza, ciascuno nel suo àmbito, a far sì che venga ovunque garantita con fermezza e tempestività la quiete pubblica, anche attraverso norme più restrittive di quelle attuali, mettendo così fine a una situazione divenuta ormai non solo intollerabile per i cittadini, ma anche gravemente lesiva ai loro occhi della credibilità delle Istituzioni.
Invitiamo tutti coloro che condividono questo appello a farlo conoscere e a rivolgersi insieme a noi alle autorità e istituzioni competenti, affinché si decidano a tutelare la quiete pubblica sia di giorno che di notte. Il diritto al silenzio e al riposo non può diventare sempre più un privilegio riservato  soltanto a chi, per caso o per possibilità economiche, si trova  a vivere in luoghi immuni da questa piaga .
Siamo sicuri che questo appello esprima uno stato d’animo comune a moltissimi italiani. Speriamo davvero che non rimanga inascoltato.
Salvatore Accardo, Niccolò Ammaniti, Alessandro Barbero, Sergio Belardinelli, Remo Bodei, Dino Cofrancesco, Paolo Crepet, Elio Franzini, Carlo Fusaro, Giorgio Israel, Paolo Ermini, Roberto Esposito, Giulio Ferroni, Ernesto Galli Della Loggia, Silvio Garattini, Fulco Lanchester, Giacomo Marramao, Paola Mastrocola, Alberto Oliverio, Anna Oliverio Ferraris, Lucio Russo, Aldo Schiavone, Luca Serianni, Sebastiano Vassalli, Michele Zappella. 

     Iniziativa promossa dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità

lunedì 9 giugno 2014

VERSO UN ANNO SCOLASTICO DAVVERO “NUOVO”?

“Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero”? L’amara ironia con cui il Passeggere si rivolge al Venditore di almanacchi nell'eponimo dialogo leopardiano sembra essere stata per decenni l'illusione di chiunque – docenti, studenti, genitori e presidi – abbia avuto a che fare con la scuola, cioè quella che malgrado tutto si debba andare avanti, perché alla fine qualcosa di nuovo accadrà. Così ogni anno lo si affronta con la recondita speranza che finalmente qualcosa cambi e che i discorsi pieni di attese e promesse, pronunciati nei primi giorni di scuola da ministri e Presidenti della Repubblica, non rimangano vuota retorica. Ma guardando la realtà al di fuori di qualsiasi illusione, dobbiamo constatare che da decenni la scuola italiana è quasi completamente abbandonata a se stessa. Perdurando la latitanza dei politici e la loro cecità rispetto alla “realtà effettuale”, la scuola sembra andare avanti solo in virtù dell'illusione che qualcosa alla fine debba accadere per risollevare un sistema agonizzante. Ma così non può durare e il rischio che alla fine il sistema crolli è fin troppo evidente; e lo dimostrano le condizioni pietose di gran parte degli edifici scolastici nazionali. Stavolta però ci aspettiamo un’estate diversa. Un’estate in cui si avvii un vero e proprio piano a brevissimo termine per il recupero e la ristrutturazione degli edifici scolastici più degradati, sperando che si eviti di far progettare gli interventi esclusivamente dagli assessorati locali e si diano invece delle direttive generali condivise da architetti ed esperti di didattica dalle quali non si possa assolutamente prescindere (e in questo è incoraggiante la disponibilità a collaborare manifestata al Presidente del Consiglio da Renzo Piano). Poi vi sono altre misure da prendere, a partire dalla necessità di riqualificare la formazione professionale, senza la quale ci resta difficile immaginare una ripresa economica destinata a durare nel tempo e a valorizzare le vere risorse della nostra economia, a partire da quelle legate al turismo e alle manifatture, sia industriali che artigianali. È quasi superfluo aggiungere che senza una vera riforma della formazione professionale sarà impossibile risolvere o almeno ridurre in modo significativo l'altissimo tasso di dispersione scolastica che colpisce prevalentemente i ragazzi dei professionali e che rappresenta una discriminante sociale indegna di un paese civile. Si dia inoltre ai sindacati il ruolo che nella scuola compete loro, e cioè quello di occuparsi della salvaguardia dei diritti del personale (e non sarebbe male che si ricordassero anche dei doveri) e non della didattica, come invece troppo spesso accade. E si faccia finalmente chiarezza su come innovare in modo equilibrato il sistema di reclutamento del personale scolastico e, nello stesso tempo, si si renda possibile indirizzare gli incapaci ad altri compiti e cacciare i neghittosi dalla scuola. I ragazzi hanno diritto ad avere edifici scolastici sicuri, insegnanti bravi e appassionati e la possibilità di scegliere un indirizzo scolastico come quello professionale, che sia veramente corrispondente alle loro vocazioni e non quella sorta di indirizzo generalista che è diventato in seguito alla “riforme” del '92 che lo hanno licealizzato e privato di identità specifica. Se davvero qualcosa del genere nei prossimi mesi potrà accadere, saremmo certi che a guadagnarne non sarebbe solo la scuola, ma il Paese intero e forse si potrà cominciare a pensare che “principierà la vita felice” o almeno più felice rispetto a quella degli ultimi anni. Durante i quali, non curandoci di un reale rinnovamento della scuola, non abbiamo saputo pensare al nostro futuro e soprattutto a quello delle future generazioni.  
Valerio Vagnoli  
 (pubblicato sul "Corriere Fiorentino" del 7 giugno 2014 con il titolo Un'altra scuola? Proviamoci)

mercoledì 14 maggio 2014

MAESTRE DI SCUOLA E DI VITA

Domenica scorsa, al Poggio Imperiale di Firenze, sede dell'Educandato della SS. Annunziata, si è festeggiato l’ingresso della Villa, insieme ad altre dimore storiche medicee, tra i beni riconosciuti dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Come sappiamo, la villa ospita dal 1865 una scuola anch’essa “storica”, l’Educandato statale della SS. Annunziata, che ha ospitato principessine destinate a diventare regine, nobili ragazzine destinate a regredire allo stato borghese e borghesi che ambivano a diventare nobili, talvolta anche riuscendovi. La scuola, in passato, forse appariva troppo compresa nel suo ieratico isolamento, concedendosi poche volte alla città che vedeva con stupore “le poggioline” sfilare per le eccezionali passeggiate nel centro storico, scese a piedi in fila militaresca,  nella loro divisa quasi monacale che le rendeva alla fine  forse un po’ tristi, come le rappresentò in uno dei suoi quadri più belli il pittore fiorentino Gianni Vagnetti.
Gli anni settanta del secolo scorso cancellarono il passato anche al Poggio: le divise scomparvero e la scuola si aprì anche ai maschi, aggiungendosi alle convittrici studenti e studentesse fiorentini e della provincia, purché versassero una retta a dire il vero  per nulla esosa.
I fiorentini, da parte loro, conoscono poco il Poggio e capita spesso che la gente, anche dell’ambiente scolastico, si dichiari convinta che l’Educandato sia una scuola privata, malgrado, invece, sia una delle scuole statali più antiche, se non addirittura la più antica.
Al Poggio, come si conviene in qualsiasi storica istituzione del nostro Paese è passato di tutto: gente onesta e furfanti, ladri di opere d’arte con evidenti complicità interne e amministratori che si sono intascati, per anni, centinaia di miglia di euro senza che nessuno si preoccupasse di chiederne conto. Docenti quali Matteo Marangoni (il Poggio è stata la prima scuola italiana in cui si sperimentò, proprio con l’allora giovane Marangoni, l’insegnamento della Storia dell’arte), Enzo Faraoni e Luigi Baldacci, tanto per fare i nomi di alcuni grandissimi maestri del Novecento, ma anche  Direttrici e Consiglieri di amministrazione estasiati nel condurre le  bambine e le ragazzine   del Poggio, con bandiere svolazzanti le croci uncinate, ad urlare eccitate “nella sera della loro tregenda”, come la definì Montale, i nomi di Hitler e Mussolini in occasione della loro sfilata fiorentina della primavera del ’38.
Ma dal Poggio è passata anche tanta gente per bene e tra queste mi preme ricordare due nomi, entrambi valtellinesi: Pio Rajna, che per diversi anni e oramai vecchissimo ne fu presidente del Consiglio di amministrazione,  e Maria Patrizi che ne fu, più o meno nello stesso periodo,  direttrice. Del primo “ un esemplare di ciò che fu l’homo sapiens prima che la sapienza fosse peccato” come lo definirà lo stesso Montale,  forse  qualcosa a malapena rimane, almeno nella memoria di coloro che si occupano di Filologia romanza. Dell’altra di sicuro sono tra i pochissimi ad averne memoria, per puro caso e forse solo in virtù della fortuna che mi è caduta addosso nell’avere ricevuto anche l’incarico della  reggenza del Poggio, oltre alla scuola che normalmente dirigo. E per non correre il rischio di rimanere, stavolta per dirla con Ungaretti, il solo a sapere “ancora che visse” vorrei dedicare a lei, a Maria Patrizi, appunto, la festa di questi giorni al Poggio Imperiale. E ricordare che trattò Mussolini, quando questi venne a visitare per la prima volta la figlia Edda, al pari degli altri genitori facendolo  aspettare in sala d’attesa per farlo poi accompagnare dalla portinaia nel suo ufficio. E alla richiesta del dittatore di visitare seduta stante il collegio, oppose un essenziale e  netto rifiuto limitandosi ad allargare le tende della sua finestra per mostrargli le bambine che stavano facendo ricreazione in giardino. Da allora in poi, per il periodo in cui Edda rimase al Poggio (solo per l’anno scolastico 1925-26 )  Mussolini si recherà più volte a trovare la figlia senza tuttavia scendere di macchina attendendo fuori dall’istituto che essa uscisse.
Dieci anni dopo, Maria Patrizi fu cacciata dal Poggio. Oramai scomparso il Rajna e forse evaporato del tutto quello spirito liberale che pur era riuscito a sopravvivere nei primi anni del fascismo, il regime non le perdonò di non aver permesso alle allieve di ascoltare la sera del 9 maggio, in diretta alla radio, il discorso del duce che proclamava la nascita dell’Impero. Alle otto di sera si doveva come sempre cenare e nessun ordine e nessun proclama avrebbe infranto le regole dell’Istituto.
Qualcuno, dall’interno, avvertì a Roma il gerarca di riferimento e la mattina successiva arrivò l’ordine di immediata rimozione e allontanamento entro 24 ore della direttrice, esattamente l'11 maggio di settantotto anni fa, a cui subentrò la sua vice. (Per caso e solo per caso la nostra festa si è svolta proprio l’11 maggio).
Nel registro dei verbali dei Consigli di amministrazione manca quello del mese di maggio del ‘36, e la numerazione delle pagine si interrompe al numero 11, appunto all’ultima pagina del mese precedente. Poi, come se niente fosse accaduto, i verbali ricominciano dal mese di giugno senza più alcuna numerazione e su quello che era successo il mese precedente non compare, da nessuna parte,  un pur minimo riferimento. Pensavano, per dirla con Sciascia, di aver cancellato la loro miserabile azione e invece omettendo di raccontare quanto era accaduto, avevano firmato la loro condanna e confessata la loro appartenenza ad una razza di fanatici lacché, mediocri e ottusi.
Per nostra fortuna, la Storia è fatta anche da persone come Maria Patrizi, una granduchessa della modernità, almeno sul piano etico e morale; un patrimonio anch’esso da non dimenticare.
Valerio Vagnoli

(“Corriere Fiorentino”, 14 maggio 2014)
 

martedì 6 maggio 2014

L’AGGIORNAMENTO: DIRITTO O DOVERE? UN DILEMMA DA SUPERARE RESTITUENDO AI DOCENTI LA DIGNITÀ DI PROFESSIONISTI

Se tu hai una mela e io ho una mela e ce le scambiamo,
tu ed io abbiamo sempre una mela ciascuno.
Ma se tu hai un'idea e io ho un'idea e ce le scambiamo,
allora abbiamo entrambi due idee. 
(George Bernard Shaw)
Il numero 513 di “TuttoscuolaFOCUS” torna sull’obbligo di aggiornamento, che come diritto-dovere esiste sulla carta già da tempo, ma che di recente è stato ribadito come vero e proprio obbligo, almeno relativamente a situazioni particolari, nel decreto legge 104/13, detto “L’istruzione riparte” dall’ex ministro Carrozza e poi confermato nonostante le obbiezioni di parte sindacale. “Tuttoscuola” ritiene però che “nel DNA professionale dei docenti italiani” sia difficile da sradicare l’idea che l’aggiornamento sia un diritto e basta, che poi nei fatti è diventato “il diritto contrattuale di non aggiornarsi”. A conferma, la rivista porta un recente episodio. “La Regione Lazio propone ad una ventina di scuole della capitale un breve ciclo di lezioni tecnico-didattiche sull’uso delle LIM, le lavagne interattive multimediali. Mette a disposizione fior di esperti. Le lezioni sono riservate ad un paio di docenti per scuola, per un massimo di una cinquantina di docenti. Su 50 docenti attesi erano presenti in 5. Lezioni molto ben condotte per un’aula quasi vuota. Che peccato, che spreco”. 
Proprio questo esempio, però, è altamente dimostrativo di quanto poco si cerchi di comprendere questa resistenza. A nessuno infatti è venuto ancora in mente che si dovrebbero interpellare gli stessi insegnanti in merito agli argomenti su cui sentono il bisogno di aggiornarsi, invece di continuare a proporre argomenti che non sono per forza in cima alla lista dei loro interessi. Tutti abbiamo avuto esperienza di corsi inutili e magari anche noiosi; e nel caso specifico, poi, può aver pesato il fatto che di lavagne interattive spesso non ce n'è che una in tutto l'istituto, non esattamente la condizione ideale per motivare i docenti. Ma soprattutto c’è un fondamentale problema di metodo: più volte su questo blog, e da ultimo nel nostro dossier Una grande riforma a portata di mano, abbiamo fatto presente che negli ultimi decenni ci si è sistematicamente rivolti agli insegnanti italiani soltanto come a oggetti passivi di aggiornamento sulle varie mode pedagogiche e didattiche (quelle che tra l’altro hanno inferto colpi durissimi alla scuola italiana), così contribuendo pesantemente a demotivarli. Se è logico considerare la formazione continua un dovere primario di ogni professionista, dovrebbe esserlo altrettanto considerare ogni professionista – docenti inclusi – anche come depositario di competenze e di esperienze potenzialmente utili ai propri pari. Eppure la pratica del lavoro seminariale, tipico delle professioni e della ricerca, è praticamente assente nella scuola italiana, specialmente in quella secondaria. In altre parole, gli insegnanti non vengono considerati, né in genere considerano sé stessi, esperti di didattica della propria materia, mentre vengono presentati come veri esperti una serie di personaggi, che, con le dovute eccezioni, hanno idee molto approssimative su che cosa succeda veramente in una classe. Mettersi intorno a un tavolo e scambiarsi ordinatamente idee e esperienze su un tema di comune interesse (cioè non calato dall’alto) produce invece una serie di effetti positivi. Il primo è quello di rendere possibile la circolazione di un ricco insieme di idee e di esperienze, che, attraverso il confronto e la discussione, contribuiscono alla crescita professionale dei docenti molto più di tante conferenze. A sua volta questo arricchimento reciproco è fortemente motivante per i partecipanti, proprio perché viene data per scontata la loro competenza professionale e la possibilità di essere utili ai colleghi. Inoltre, con il susseguirsi di queste esperienze, si costruisce un gratificante senso di appartenenza a una comunità professionale, all’interno della quale ci si sente sostenuti e potenziati. Infine, attraverso il libero confronto fra diversi approcci agli stessi problemi, si può comprendere in concreto quanto sia importante e feconda la più ampia libertà metodologica e quanto sia necessario difenderla dai ciclici tentativi di imporre un’ortodossia didattica. Naturalmente non si vuole qui invitare all’assoluta autoreferenzialità: non è affatto escluso, infatti, che si senta la necessità di interpellare su qualche argomento un (vero) esperto esterno alla scuola.
Quanto al dilemma diritto-dovere da cui siamo partiti, non è pensabile che, di fronte alla crescente difficoltà del mestiere di insegnante, i docenti in maggioranza non sentano l’esigenza – e magari l’urgenza – di una crescita professionale. È molto probabile che la disponibilità o meno all’aggiornamento dipenda in gran parte dalla percezione della sua effettiva utilità e che le resistenze siano destinate a venire meno nel momento in cui gli insegnanti siano messi in grado di sceglierne i contenuti in base alle proprie esigenze e di esserne protagonisti attivi e non più solo passivi. E il metodo seminariale, come mi conferma l’esperienza personale, possiede per l’appunto queste essenziali caratteristiche. (GR)

mercoledì 16 aprile 2014

CLASSICI E NON. RIFLESSIONI SUL CANONE LETTERARIO

In un suo recente articolo, Eugenio Scalfari fa riferimento, parlando dei voltagabbana di professione, al Brindisi di Girella, capolavoro di Giuseppe Giusti; un poeta, come tanti altri del nostro patrimonio letterario, passato da decenni nel più completo dimenticatoio. E siccome Giusti è uno dei miei poeti preferiti, non posso certamente lasciar passare invano, tanto per citare proprio il titolo di una bella poesia del Giusti, questo “Mementomo” a dire il vero del tutto inaspettato. E oltre al Mementomo e al Brindisi, Giusti di capolavori ne ha scritti molti. Per citarne alcuni vale la pena di ricordare La Vestizione, L’ Apologia del lotto o Il ballo: “scherzi” in assoluto tra gli esempi più alti della nostra poesia satirica di qualsiasi epoca, compresa quella classica. Se del Giusti tuttavia oggi rimane qua e là qualche traccia, questa porta necessariamente ad altri titoli, quelli che la mia generazione, che il Giusti lo incontrava alla scuola media ma non più alle superiori, aveva studiato sulle antologie scolastiche e che si chiamavano Sant’Ambrogio o Il Re travicello: vale a dire il peggio della sua produzione, che tuttavia era assai stimata dal mondo scolastico tardo ottocentesco, che proiettò i propri contenuti, e spesso i propri limiti (Le veglie di Neri, Piemonte, La  cavallina storna o l’Ettore Fieramosca), fino alla metà degli anni sessanta e oltre. Solo attraverso l’aiuto di qualche maestro all’università o per semplice inclinazione a non accontentarsi delle idee correnti, avremmo scoperto, e poi insegnato, che esisteva un Fucini grandissimo, ma era quello di Napoli ad occhio nudo e non quello paternalista e consolatorio delle Veglie; e che al Guerrazzi si poteva ampiamente preferire De Roberto; e che esisteva un Carducci grandissimo, ma era ben altro rispetto ai cipressetti e ai pianti antichi, e certamente Sogno d’estate era degno d’essere imparato a memoria anche per aiutarci a dimenticare Traversando la Maremma toscana. Così come al Pascoli antologizzato e insegnato, ahimè anche alle superiori, se ne contrapponeva un altro che avremmo divorato nella sua drammatica modernità di spaurito atomo sfigurato dal suo stesso esistere. E con altrettanta passione avremmo divorato da adulti quel Pinocchio che i contestatori a cavallo degli anni sessanta e settanta non vollero leggere, forse perché si riconoscevano troppo nel burattino che non sapeva crescere, ma che almeno non giocava, come purtroppo facevano molti di loro, a fare la guerra. Lo avrebbe recuperato Luigi Comencini, un grande regista che lesse l’opera di Collodi come nessun altro fino ad allora aveva saputo fare, riuscendo, a regalarci un capolavoro di rara e struggente bellezza non inferiore all’opera letteraria. E nessuno ci avrebbe letto una riga della Colonna infame e avremmo dovuto farlo da soli e leggendola ci avrebbe  ancor più chiarito che il carnaio di violenza che accompagnava negli anni ’70 le nostre giornate era pura macelleria di esaltati macellai, che non avremmo mai voluto al comando perché le loro facce e i loro fanatismi si stampavano perfettamente nelle facce immaginate degli inquisitori di ogni epoca e di ogni latitudine. 
In molti insegnavamo letteratura grazie ad un canone letterario che ci costruivamo progressivamente a livello personale, ma che non era solo frutto della nostra invenzione e della nostra creatività: era anche il frutto di una accanita ricerca di autori che si confermassero nel loro essere sempre attuali, in grado, attraverso le loro opere, di parlare di noi, dei nostri allievi e degli uomini del futuro. La passione e l'interesse si traducevano in un sistema preciso e costante, fatto di punti di riferimento imprescindibili grazie ai libri a nostra disposizione: i classici, appunto, istituzionalizzati e non, ma in grado di rappresentare esempi da tramandare e conservare e per questo indispensabili a farci insegnare con la voglia, per dirla con Machiavelli, di interrogarli e chieder loro conto delle loro affermazioni. E dialogando e insegnando il dialogo, avevamo addosso la presunzione di trasmettere ai ragazzi il desiderio di libertà e per questo ci pareva di parlare con le stesse parole e con le stesse voci dei ragazzi che, in nome della libertà, quella vera, quella dalla tirannide nazista e fascista, erano andati a morire. Come, tra i tanti, il diciannovenne Tommaso Masi, contadino di Castelnuovo Berardenga, che scrisse, poco prima di cadere davanti al plotone d’esecuzione, la sua ultima, sgrammaticata, bellissima, e senz’altro da annoverare tra i classici, lettera alla famiglia. Così il futuro ci appariva  luminoso e insegnare la cosa più bella del mondo.
Valerio Vagnoli

lunedì 31 marzo 2014

TURISMO, LE RESPONSABILITÀ DI UN DECLINO

Sul “Corriere della Sera” di sabato scorso Gian Antonio Stella dedica un lungo e ben documentato articolo alla progressiva e, sembra, inesorabile “frana” del turismo straniero in Italia, che si verifica contemporaneamente a un vero e proprio boom mondiale del turismo. Andiamo giù, “nonostante il turismo sia l’industria del futuro”. Stella passa in rassegna le più importanti deficienze del nostro sistema turistico, in gran parte riconducibili a una mentalità provinciale che sembra appagata dall’idea di essere il paese più bello del  mondo. Ma che l’Italia sia sulla china per perdere gran parte della sua impagabile bellezza è sotto gli occhi di tutti: paesaggi disfatti, siti archeologici che si sbriciolano a ogni acquazzone, musei che alle 14 chiudono i portoni d’ingresso e che spesso sono collocati (e prigionieri) in tristi strutture ottocentesche. Abbiamo vie di comunicazione che escludono dai grandi circuiti turistici quasi la metà, forse la più bella, del paese, oltre naturalmente ad una generale mancanza di vera e propria cultura dell’ospitalità. Problema, questo, che si coglie da qualsiasi parte, ma soprattutto nelle città dai grandi flussi turistici. La scuola, e questo Stella non lo scrive, ci ha messo del suo per confermare i nostri vizi. Infatti, a partire dai primi anni ’90 si è pensato bene di scollegarla dal mondo del lavoro, pensando che questo contatto la contaminasse e la snaturasse. I risultati – non ci stanchiamo di ripeterlo perché i sacerdoti della pedagogia sono restii ad aprire gli occhi sulla realtà – sono palesemente disastrosi. Però la distanza troppo ampia tra scuola e mondo del lavoro è anche responsabilità di quest’ultimo, per essersi troppo a lungo accontentato delle sue posizioni di rendita (per esempio aprendosi troppo poco all’esempio di altri paesi). Vale la pena di aggiungere che il mondo del lavoro appare spesso assai  impreparato nel seguire in modo adeguato gli studenti in stage, ignaro che “perdere tempo“ oggi con i giovani per rafforzare in loro i saperi pratici rappresenta un ottimo investimento per il domani. Insomma, per migliorare il modo di accogliere i turisti è importante preparare ragazzi competenti, appassionati al proprio ruolo, rispettosi degli altri e futuri generosi ospiti. Ma se il nel mondo del lavoro non trovano analoghe disposizioni, allora è tempo perso e tutto lo sforzo fatto dalla comunità per formarli è reso vano. Se chi li ospita negli stage pensa a ottenere il maggior profitto col minimo sforzo, magari frodando anche il fisco (nel settore turistico purtroppo l'evasione è assai diffusa) non ci sarà scuola che tenga. Ben vengano dunque le critiche nei confronti del mondo scolastico, ma che le associazioni degli imprenditori evitino di scagliare la prima pietra, come spesso purtroppo amano fare. (VV)

martedì 25 marzo 2014

UN INTERVENTO SULLA FORMAZIONE PROFESSIONALE DURANTE "LA GIORNATA DI ASCOLTO DELLA SCUOLA"

Intervento di Giorgio Ragazzini a nome della Fondazione “La Prova del Nove” dell’Istituto alberghiero “Saffi” di Firenze nella “Giornata di ascolto nel mondo della scuola” promossa dal Partito Democratico e tenutasi a Roma lo scorso lunedì 10 marzo.
Parlerò di formazione professionale partendo da un ristorante. Si chiama “La Prova del Nove”, si trova a Firenze ed è stato inaugurato lo scorso 23 dicembre. Lo ha creato – caso unico in Italia – l’istituto alberghiero statale “Aurelio Saffi” attraverso una fondazione ad hoc senza fini di lucro, con l’idea di farne una scuola di alta formazione professionale, ma anche un’occasione di qualificato tirocinio per i suoi studenti. Ci lavorano infatti, con la supervisione di alcuni insegnanti, sette ex allievi, scelti tra i migliori diplomati, con contratto a tempo indeterminato, a cui si aggiungono nove neodiplomati con una borsa di studio annuale, che in pratica fruiscono di un vero e proprio master sotto la guida dei colleghi più anziani; e infine, a turni di quindici giorni ciascuno, 120-130 attuali allievi dell’istituto per uno stage vero, serio, impegnativo, anche perché si tratta di ristorazione di altissima qualità, non di una trattoria alla buona. Tutti questi ragazzi fanno questa esperienza con grandissima soddisfazione.
Per azzardare questa scommessa e per affrontare il lungo iter burocratico che è stato necessario (sennò non saremmo in Italia) c’è voluta la determinazione di un preside fermamente convinto dell’importanza fondamentale della formazione professionale per combattere l’insuccesso scolastico, per sostenere lo sviluppo economico con persone davvero preparate e motivate, per rinnovare la scuola italiana, troppo legata allo studio teorico, dotandola di un canale formativo di pari dignità rispetto a quelli fino a oggi più diffusi.
L’idea che la cultura liceale si dovesse almeno in parte estendere anche agli altri indirizzi, fece sì che nei primi anni novanta si snaturassero totalmente, appunto licealizzandoli, i tecnici e i professionali, alterando in modo grave la loro identità.
Una scelta rovinosa, recentemente aggravata dalla riforma Gelmini, con la conseguenza di percentuali di abbandoni e di insuccessi nel primo biennio dei professionali che veleggiano intorno al 40%  e più. Mentre il Trentino è invece sceso al 9-10% grazie a una forte e qualificata offerta di formazione professionale. Mentre in  Germania uno dei pilastri del ritrovato sviluppo economico è stato un sistema scolastico (cosiddetto “duale”) molto basato sull’alternarsi dello studio e del lavoro come terreni di apprendimento che si fecondano a vicenda.
In Italia invece, molti ragazzi sperano, iscrivendosi agli istituti professionali, di riscattare un passato scolastico già segnato da insuccessi e frustrazioni. E si devono arrendere di fronte a una girandola di materie teoriche che metterebbe in seria crisi anche studenti ben motivati e ben preparati per un percorso di tipo liceale.
Vorrei quindi chiedere al Partito Democratico di abbandonare una volta per tutte le remore in questo campo, dando davvero ascolto non a me, ma alle esigenze e alle attese di tantissimi ragazzi. A quattordici anni si può benissimo iniziare un serio percorso formativo largamente basato fin dall’inizio su molte ore di laboratorio e sugli stage, oltre che su mirate attività di stampo culturale, senza dover prima passare da ripetuti fallimenti. Se non è troppo presto per scegliere un istituto tecnico o un liceo, perché dovrebbe esserlo per iniziare un percorso di formazione professionale? Certamente è necessaria una nuova rappresentazione mentale della formazione professionale, finalmente positiva, aperta a tutti, anche ai “bravi” delle medie.
Venendo infine al piano delle concrete scelte politiche, concludo con un’indicazione di prospettiva molto netta nella direzione che ho detto: bisogna unificare l’istruzione e la formazione professionale (una distinzione che non ha più molto senso), come propone anche l’Associazione Docenti Italiani, facendone un unico, robusto canale formativo, “de-licealizzato” e rivitalizzato dalla diffusione dell’alternanza scuola lavoro e dell’apprendistato. Sarebbe davvero, questo, un bel modo di “cambiare verso”.