In un suo recente articolo, Eugenio Scalfari fa
riferimento, parlando dei voltagabbana di professione, al Brindisi di Girella, capolavoro di Giuseppe Giusti; un poeta, come
tanti altri del nostro patrimonio letterario, passato da decenni nel più
completo dimenticatoio. E siccome Giusti è uno dei miei poeti preferiti, non
posso certamente lasciar passare invano, tanto per citare proprio il titolo di
una bella poesia del Giusti, questo “Mementomo”
a dire il vero del tutto inaspettato. E oltre al Mementomo e al Brindisi,
Giusti di capolavori ne ha scritti molti. Per citarne alcuni vale la pena di
ricordare La Vestizione, L’ Apologia del lotto o Il ballo: “scherzi” in assoluto tra gli
esempi più alti della nostra poesia satirica di qualsiasi epoca, compresa
quella classica. Se del Giusti tuttavia oggi rimane qua e là qualche
traccia, questa porta necessariamente ad altri titoli, quelli che la mia
generazione, che il Giusti lo incontrava alla scuola media ma non più alle
superiori, aveva studiato sulle antologie scolastiche e che si chiamavano Sant’Ambrogio o Il Re travicello: vale a dire il peggio della sua produzione, che
tuttavia era assai stimata dal mondo scolastico tardo ottocentesco, che
proiettò i propri contenuti, e spesso i propri limiti (Le veglie di Neri, Piemonte, La
cavallina storna o l’Ettore
Fieramosca), fino alla metà degli anni sessanta e oltre. Solo attraverso
l’aiuto di qualche maestro all’università o per semplice inclinazione a non
accontentarsi delle idee correnti, avremmo scoperto, e poi insegnato, che
esisteva un Fucini grandissimo, ma era quello di Napoli ad occhio nudo e non quello paternalista e consolatorio
delle Veglie; e che al Guerrazzi si
poteva ampiamente preferire De Roberto; e che esisteva un Carducci grandissimo,
ma era ben altro rispetto ai cipressetti e ai pianti antichi, e certamente Sogno d’estate era degno d’essere
imparato a memoria anche per aiutarci a dimenticare Traversando la Maremma toscana. Così come al Pascoli antologizzato
e insegnato, ahimè anche alle superiori, se ne contrapponeva un altro che
avremmo divorato nella sua drammatica modernità di spaurito atomo sfigurato dal
suo stesso esistere. E con altrettanta passione avremmo divorato da adulti quel
Pinocchio che i contestatori a
cavallo degli anni sessanta e settanta non vollero leggere, forse perché si
riconoscevano troppo nel burattino che non sapeva crescere, ma che almeno non
giocava, come purtroppo facevano molti di loro, a fare la guerra. Lo avrebbe
recuperato Luigi Comencini, un grande regista che lesse l’opera di Collodi come
nessun altro fino ad allora aveva saputo fare, riuscendo, a regalarci un
capolavoro di rara e struggente bellezza non inferiore all’opera letteraria. E
nessuno ci avrebbe letto una riga della Colonna
infame e avremmo dovuto farlo da soli e leggendola ci avrebbe ancor
più chiarito che il carnaio di violenza che accompagnava negli anni ’70 le nostre giornate era pura macelleria di esaltati
macellai, che non avremmo mai voluto al comando perché le loro facce e i loro
fanatismi si stampavano perfettamente nelle facce immaginate degli inquisitori
di ogni epoca e di ogni latitudine.
In molti insegnavamo letteratura grazie ad un canone
letterario che ci costruivamo progressivamente a livello personale, ma che non
era solo frutto della nostra invenzione e della nostra creatività: era
anche il frutto di una accanita ricerca di autori che si confermassero nel loro
essere sempre attuali, in grado, attraverso le loro opere, di parlare di noi,
dei nostri allievi e degli uomini del futuro. La passione e l'interesse si
traducevano in un sistema preciso e costante, fatto di punti di riferimento
imprescindibili grazie ai libri a nostra disposizione: i classici, appunto,
istituzionalizzati e non, ma in grado di rappresentare esempi da tramandare e
conservare e per questo indispensabili a farci insegnare con la voglia,
per dirla con Machiavelli, di interrogarli e chieder loro conto delle loro
affermazioni. E dialogando e insegnando il dialogo, avevamo addosso la
presunzione di trasmettere ai ragazzi il
desiderio di libertà e per questo ci pareva di parlare con le stesse
parole e con le stesse voci dei ragazzi che, in nome della libertà, quella
vera, quella dalla tirannide nazista e fascista, erano andati a morire. Come,
tra i tanti, il diciannovenne Tommaso Masi, contadino di Castelnuovo Berardenga,
che scrisse, poco prima di cadere davanti al plotone d’esecuzione, la sua
ultima, sgrammaticata, bellissima, e senz’altro da annoverare tra i classici, lettera
alla famiglia. Così il futuro ci appariva luminoso e insegnare la cosa
più bella del mondo.
Valerio Vagnoli