martedì 14 gennaio 2014

UN’INDAGINE ACCURATA SUGLI IMPEGNI DEI DOCENTI ITALIANI E DI QUELLI EUROPEI

Nell’ottobre del 2000 “Italia Oggi” pubblicò un ampio estratto dell’esauriente analisi della professoressa Anna Balducci intitolata Dossier scuola. La condizione docente in Italia, poi pubblicata integralmente a cura della rivista  “Il Voltaire”. Ne riproponiamo la parte riguardante gli impegni di lavoro, convinti che ancora oggi mantenga quanto meno in gran parte la sua validità e sia anche un esempio di accuratezza, qualità sempre più rara di quanto si può oggi leggere sulla scuola. Ringraziamo l’autrice per avercela cortesemente inviata.

Il CCNL siglato nel maggio 99 e l’entrata in vigore del Regolamento dell’autonomia (Dpr n. 275/99) hanno innovato le modalità di lavoro dei docenti. Si vuole qui analizzare la nuova configurazione operativa[1] giacché i testi contrattuali e le disposizioni emanate non definiscono compiutamente gli impegni limitandosi ad elencarli.
L’analisi è condotta sulla scorta di analoghi rilievi effettuati in altri paesi della Comunità europea.
Occorre, tuttavia, premettere che una visione professionale della docenza[2] consiglierebbe un approccio qualitativo piuttosto che quantitativo al problema. Nondimeno le valutazioni su cui si sviluppa il confronto in atto tra le OO.SS. e il Ministero della pubblica istruzione indirizzano verso una osservazione minuziosa delle attività svolte nella scuola pubblica italiana.

Metodi e strumenti di rilevazione
Sono stati  presi in considerazione :

-          indicazioni e obblighi contrattuali come descritti nei Ccnl ’94, Ccnl ’99 , Ccni ’99, Sequenza contrattuale siglata nel luglio ’99, Regolamento dell’autonomia;
-          dati ministeriali relativi all'andamento alunni, classi, personale dall'anno scolastico 90/91 all'anno scolastico 99/00 e dati delle iscrizioni 2000/01;
-          dati ministeriali relativi alla spesa totale, alle spese sul PIL, alle spese per allievo;
-          prospetto riassuntivo delle cifre di spesa nel periodo 1990-2000; 
-          orari cattedra in Italia;
-          raffronti con i corrispondenti valori forniti dai Ministeri degli stati Membri come raccolti nel data base di Eurydice, relativi al 1996, 1997, 1998, 1999;
-          dati relativi a incidenza dell’area scolastica rispetto alla popolazione attiva;
-          fasce d’età dei docenti;
-          confronto della situazione lavoro/retribuzione/impegno orario di un docente di scuola elementare in alcune tra le più importanti città europee (dati UBS);
-          confronto con situazioni di lavoro esterne alla scuola:

Sono stati, infine, stabiliti i criteri - elencati di seguito - per  individuare un modello di simulazione applicabile alle differenti situazioni (diversi gradi di scuola, diversa incidenza delle specifiche disciplinari):

-          individuazione delle voci ricorrenti di attività e  organizzazione didattica risultate pari a 20
-          simulazioni con variabili relative ai rapporti alunni/classe pari a  16,18, 20, 23, 24.
-          simulazioni a valore totale costante e a valore totale dipendente dal rapporto alunni/classe partendo dalla condizione attuale più diffusa  e cioè quella del rapporto alunno/classe equivalente a 20 

Per facilitare la lettura della tabella riassuntiva è stata predisposta una legenda riepilogativa

tab 1- Legenda

impegni di ogni docente  Alla luce delle norme che li determinano 

Attività in classe
1
ore x 33 settimane di lezione per anno scolastico
2
interventi di recupero,  2 o 3 sett per anno scolastico secondo quanto deciso dai Collegi Docenti

Rapporti individuali con gli allievi
3
correzione e prepararazione esercitazioni individuali CCNL ’95 art 42,2a  
4
rapporti famiglie e studenti CCNL ’95 art 42
5
correzione verifiche CCNL ’95 art 42,2b
6
assistenza esami

Attività collegiale
7
riunioni collegiali scuola CCNL ’95 art 42, 3a
8
riunioni collegiali classe CCNL ’95 art 42,3b
9
riunioni scrutini per quadrimestre CCNL ’95 art 42
10
Commissioni  decise dal Collegio

Attività Propedeutiche individuali
11
preparazione individuale scrutini
12
preparazione piani di lavoro individuali  CCNL ’99 art 24 comma 4
13
preparazione lezioni e materiale CCNL ’95 art 42,2a
14
preparazione e scelta verifiche CCNL ’95 art 42,2
15
preparazione visite didattiche varie disposte nel piano offerta formativa

Aggiornamento Individuale
16
verifica  valutazione applicazione piano lavoro CCNL ’99 art 24 comma 4
17
verifica e scelta libri di testo, materiale didattico CCNL ’99 art 24 comma 4 e 5
18
Aggiornamento Individuale CCNL’99 art 24 comma 4

Attività organizzativo-burocratiche
19
compilazione atti relativi a valutazione CCNL ’99 art 24 comma 4 e 5
20
cura laboratori e materiale Didattico d. lg 16/4/94 n 297 art 395,2




Impegni annuali medi di un docente di scuola pubblica- Ipotesi media elaborata prendendo a riferimento un docente (orario cattedra) impegnato in classi composte da 20 allievi. Il calcolo del monte ore relativo alle prime due sezioni andrà aumentato del 10% nel caso di  un insegnante dell’attuale scuola materna ed elementare.

tab 2
suddivisione orario
rapporto alunni/classe = 20
docente
Incidenza per alunno
a)Attività in classe
periodo
ore
ore
1
ore lezioni in 33 settimane
anno
600
5,00
2
ore interventi integrativi, 2 o 3 settimane annue
anno
40
0,33

Tot sezione

640
5,33
b)Rapporti individuali con gli allievi



3
correzione esercitazioni individuali

anno

120

1,00
4
rapporti famiglie e allievi
anno
30
0,25
5
correzione verifiche
anno
240
2,00
6
assistenza esami
anno
10
0,08

Tot sezione

400
3,33

Tot parziale (A+B)
anno
1040
8,66
c)Attività collegiale
7
riunioni collegiali scuola
anno
40

8
riunioni collegiali classe
anno
40

9
riunioni valutazione (scrutini)
anno
18

10
commissioni
anno
20


Tot sezione

118






d)Attività Propedeutiche individuali
11
preparazione valutazione
anno
18

12
preparazione piani di lavoro
anno
12

13
preparazione lezioni o materiale
anno
100

14
preparazione verifiche
anno
72

15
preparazione visite guidate varie
anno
10


Tot sezione

212






e)Aggiornamento Individuale
16
verifica e valutazione piano lavoro

anno

12

17
verifica e scelta libri e materiale didattico

anno

18

18
studio e attività aggiornamento
anno
20


Tot sezione

50






f)Attività organizzativo-burocratiche
19
compilazione atti relativi alla  valutazione

anno

12

20
cura laboratori e/o materiale didattico
anno
40


Tot sezione

52


Tot parziale (C+D+E+F)

432


Tot generale

1472

                                                                                                                                                   
I risultati dimostrano che, per il docente,  a fronte di :
640 ore annue di lavoro in classe (lavoro frontale) si registrano 832 ore annue dedicate ad attività propedeutiche, connesse alla valutazione e/o all’aggiornamento e alla preparazione del lavoro frontale.
Il 57% del monte ore è destinato alla preparazione, alla verifica o alla organizzazione didattica o meno del lavoro in classe.
Il lavoro in classe (cd. frontale), comprensivo degli interventi integrativi prevalentemente destinati al recupero, corrisponde a ca. il 43% dell'intera attività lavorativa.
Le 832 ore  propedeutiche sono divise in due aree :
432 ore, pari al 52% del parziale e al 29% del totale, sono contrattualmente predefinite e si ripetono invariate in tutte le simulazioni
400 ore, pari al 48% del parziale e al 27% del totale, si riferiscono ad impegni proporzionalmente dipendenti dal  numero di allievi cui le attività sono destinate.
Ne segue che occorre considerare un andamento  variabile  rispetto alla disciplina insegnata e rispetto al numero di alunni.
Il tempo dedicato ad incontri di tipo collegiale supera le previste 80 ore. Si registrano, infatti, 118  ore (pari al 14% del parziale e all’8% del totale) annualmente destinate al team-meeting.
La preparazione delle attività/iniziative/lezioni richiede una media annua di 212 ore (pari al 25% del parziale e 14,4% del totale)
L'analisi dei dati riportati nella "colonna alunno" mostra i tempi attivi rivolti ai singoli pari a ca. 9 ore annue per allievo.
Rispetto alle 600 ore di lavoro in classe si nota che la classica "lezione" (non necessariamente di tipo frontale) occupa solo il 40% del monte ore totale.
 In sintesi, il lavoro propedeutico, l’analisi e la valutazione si accaparrano la maggior parte dell’impegno di ogni insegnante.
Alcune delle voci analizzate appartengono alle cd. attività aggiuntive e, in genere, comportano una retribuzione accessoria che si somma alla retribuzione contrattuale di base  analogamente a quanto accade in tutta la Comunità europea.

Confronto situazioni Comunità Europea - Italia


Orario di servizio
Tab. 3

Nazioni

Orario di lavoro
Norme
Durata anno scolastico



giorni
settimane
Austria
Da un min di 20 a un massimo di 23 ore settimanali. Le ore di lezione sono assegnate, all’interno del monte ore settimanale,  tramite un moltiplicatore che tiene conto dei diversi carichi delle differenti discipline. Si aggiungono alcune ore legate a particolari doveri d’ufficio
-Bundeslehrer-
-Lehrverpflichtungsgesetz
Da 180 a 214
37
Belgio
20 ore settimanali – con un max  di 962 ore  per  anno pari ad un max di 26 ore per settimana


-Mémento de l'enseignement 1994-1995
-Arrêté du Gouvernement du 13/09/1994 fixant le nombre de jours de scolarité des élèves et le nombre de jours de présence à l'école des membres du personnel enseignant des établissements de plein exercice
-Décret du 13/07/1998 portant sur l'organisation de l'enseignement maternel et primaire ordinaire et modifiant la réglementation de l'enseignement
182
37
Danimarca
1.924 ore annue metà in classe e metà per predisporre il lavoro.
-Act on Salaried Staff,
- Holiday Act
Da 200 a 209
37
Regno Unito
1.265 ore annue comprensive di ogni impegno.
-Management of the school day.
-School Teachers' Pay and Conditions Document 1999
190 + 5
Decisione locale
Finlandia
Tra le 15 e le 25 lezioni settimanali
-Act on Local Government Employees' Employment Security,
-State Civil Servants Act or Contracts of Employment Act
Da 185 a 190
22
Francia
Primaria: 26 ore per settimana  + 36 ore annue
Secondaria:
Agrégé – 15 ore per sett.
Certifiés:18 ore per sett.
Insegnanti licei tecnici: 18 ore teoria + 23 ore pratica
Possono essere previste alcune ore dedicate ad impegni connessi alla funzione.
Elementare: Legge 13/07/1983 diritti e obblighi dei funzionari + decreto n. 90-680 del 1/8/1990.
Secondaria : agrégation - decreto n. 72-580 del 4/7/1972
certifiés - decreto no. 72-581 del 4/7/1972
educazione fisica e sportiva -  decreto n. 80-627 del 4/8/1980
docenti licei tecnici - decreto n. 92-1189 del 6/11/1992.
180
Da 33,2 a 34,2
Germania
Diverso per ogni Länder
Si hanno da 23 a 28 periodi di lezione di 45’ cd. Si aggiungono (ma sono legate alle differenti scelte locali) le ore per le attività di funzione
-Civil Servant Framework Act
-Federal Act on the Remuneration of Civil Servants
-Second Transitional Ordinance on Remuneration
188
Decisione locale nel rispetto di 75 giorni lavorativi di vacanza più 10 giorni di festività religiose
Grecia
Dipende dal livello di carriera,  nella primaria si va dalle 21 alle 25 ore.
 Nella secondaria si va da un minimo di 16 ore a un massimo di 22 secondo anzianità e carriera.
-Reform of the salary schedule for public administration personnel and other related provisions

-Unified senior secondary school, access to higher education and other provisions

-Ratification of the code regarding the status of public civil administrative employees, and the employees of legal entities under public law (L. 2683/99)
175
34
Irlanda
Elementare: presenza a scuola durante tutta la giornata scolastica. 
Secondaria da un minimo di 18 a un max di 22 ore di lezione
Solo contratti individuali con la singola scuola
Da 167 a 183
Decisione locale
Italia
Da 25 a 18 ore di lezione + le attività funzionali all’offerta formativa
In tot 1.470 ore annue medie
-Ccnl’99 (comprensivo degli articoli ancora in vigore del Ccnl ’94)
-Cni ’99,
-Sequenza contrattuale ’99,
-Regolamento autonomia
200
33 di lezione
almeno 38 di apertura scuole
Olanda
1.659 ore annue di cui  930 (elementari) e 868 (secondaria) di lezione
-Consultation (Education and Research Personnel) Decree 1989
-Legal Status (Education Personnel) Decree
-Legal Status (Education Personnel) Decree
-Legal Status (Secondary Education) Framework Decree
200
Decisione locale
Portogallo
Varia da insegnante a insegnante ed è legato ad accordi specifici con le scuole e le autorità locali
-Education System Act
-Decree-Law 1989
-Teaching Career Statute 1998
Da 160 a 210
Decisione locale
Spagna
37.5 ore per settimana di cui 30 per attività didattiche (lezioni e preparazione delle stesse)
-Real Decreto 172/1988
-Contratto dipendenti pubblici (per le scuole statali)
Da 165 a 175
Da 33 a 35
Svezia
1.360 ore, di cui 104 destinate all’aggiornamento.
-Swedish Association of Local Authorities negotiates
Da 178 a 194
Decisione locale
Lussemburgo
I periodi di lezione hanno una durata di 50’ o  55’ e sono compresi tra 26 e 24 nella primaria, fino a 22 nella secondaria
I doveri professionali sono fissati da regole granducali variabili da scuola a scuola e di anno in anno
-Loi fixant le statut général des fonctionnaires d'État

Da 212 a 216
36
Media UE
-

189
-
Fonte Eurydice – Elaborazione ItaliaOggi

Nonostante i numerosi tentativi di amalgamare i diversi sistemi educativi - anche rispetto a gestione e organizzazione del lavoro e del personale - le discrepanze, tra gli Stati Membri, risultano tanto evidenti da rendere impossibile un sintetico raffronto che equipari carichi e modalità di adempimento del servizio. L’unico dato veramente rapportabile a tutte le situazioni è quello relativo al numero di giorni di apertura/lezione. Gli altri rispecchiano le peculiarità dei singoli sistemi.
Si può solo concludere che più paesi hanno optato per una quantificazione annua dell’intero impegno lavorativo comprendendovi anche correzione di compiti, valutazioni, esami, preparazione di lezioni, aggiornamento, incontri con i colleghi e con i genitori.
L’Austria ha introdotto il principio del “moltiplicatore” per equiparare i carichi di lavoro che gravano sui docenti impegnati nei fondamentali educativi. In sintesi, gli insegnamenti sono stati suddivisi in 6 gruppi. Il numero di unità lezione, per i docenti delle discipline del 6° gruppo, si ottengono moltiplicando il numero delle ore assegnate per 0.75. Viceversa, per gli insegnamenti compresi nel 1° gruppo, si utilizza il moltiplicatore 1.167.
Di scarsa utilità appaiono i puri confronti relativi al lavoro in classe dei docenti comunitari (che non vengono qui riportati). Le cifre riferiscono situazioni che lo stesso Ocse definisce non paragonabili sia per la diversa durata delle lezioni (non sempre rapportate all’ora) sia per la confluenza, in più casi, di tempo-lezione e tempo-propedeutico.



[1] Partendo dallo studio di A. Balducci e E. De Carli “La condizione docente in Italia” presentato al Convegno “La professionalità docente nella storia scolastica dal primo Novecento a oggi” Soc. Umanitaria – Milano, 1998
[2] Si vedano  Dario Generali “Scuola, società civile e pubblica utilità nell’età della scolarizzazione di massa”, A. Biuso “Le basi etiche dell’educazione” e A. Balducci “Funzione docente, autonomia, società civile” -  In “Il Voltaire” n.3 da pag 22 –1999- FrancoAngeli Editore – Milano

sabato 11 gennaio 2014

LA PARTECIPAZIONE DEI GENITORI E DEGLI STUDENTI NEL CONSIGLIO D'ISTITUTO

Pubblichiamo un estratto dalla relazione su La libertà d'insegnamento come garanzia del sistema pubblico dell'istruzione - Libertà e servizio che il professor Carlo Marzuoli, docente di diritto amministrativo nell'Università di Firenze, tenne nel 2002 in un seminario dell'Associazione Docenti Italiani (ADi). 

Docenti e Consiglio di circolo o di istituto 
a) superare la cogestione  
La funzione docente non può invece sopportare la cogestione/confusione con i genitori e gli studenti. Genitori e studenti sono gli utenti del servizio. E' orientamento generalizzato quello di attribuire agli utenti diritti di partecipazione in ordine al servizio di cui usufruiscono.
La tendenza è in sé ineccepibile, ma occorre distinguere fra tipo e tipo di partecipazione e, poi, tener conto della natura del servizio, dell'identità dell'utente, della necessità di non mischiare la responsabilità per la gestione del servizio. 
Genitori e studenti hanno una particolare fisionomia, che li configura in modo nettamente diverso dagli utenti, ad esempio, del servizio ferroviario o dallo stesso utente del servizio sanitario o di un servizio assistenziale. Lo studente (ed anche il genitore, sia pure indirettamente) è destinatario della prestazione, ma al tempo stesso è soggetto sottoposto a controllo ad opera dell'amministrazione: basta pensare al dovere di apprendimento, che vale anche nei gradi più alti dell'istruzione come corrispettivo alla richiesta della prestazione di istruzione, o alla valutazione dell'apprendimento. 
La conclusione, per me, è chiara, come ho già ricordato più volte. L'organo generale di indirizzo è il consiglio di circolo o di istituto. Ne fanno parte (in posizione non secondaria, si pensi al presidente) rappresentanti dei genitori e degli studenti. I genitori e gli studenti sono controinteressati rispetto alle finalità generali di interesse pubblico che l'istituzione persegue.
È dunque un sistema in cui si confondono poteri e responsabilità e in cui è sacrificata la libertà e la tecnicità della funzione docente. Di più: in questo contesto il piano dell'offerta formativa può essere (è) il mezzo per far valere orientamenti ideologi di tendenza (quelli dei genitori o degli studenti) e dunque si pregiudica il valore fondamentale del servizio pubblico dell'istruzione (il pluralismo).
b) garantire a genitori e studenti strumenti e modalità di partecipazione diretta e di tutela 
Non vorrei essere frainteso: accantonare la partecipazione organica (la cogestione) non significa sopprimere la partecipazione; vorrei solo evitare che genitori e studenti finiscano per essere al tempo stesso danneggiati, perché vittime del cattivo funzionamento del servizio, e beffati, perché corresponsabili.
Il servizio è una cosa ed i suoi utenti un'altra, cosicché ogni commistione non favorisce, ma pregiudica gli interessi degli utenti.
Altri sono i piani su cui debbono essere garantiti genitori e studenti.
·  Il primo è costituito da strumenti diretti (di partecipazione "diretta"): mi riferisco, a poteri e diritti di conoscenza, di proposta, di consultazione, di assemblea, di critica, che debbono previsti e conferiti nella misura più ampia.
·  Peraltro, la delicatezza dei rapporti fra genitori, studenti e docenti è così particolare e così marcata che il quadro non può limitarsi a detti poteri, ma deve essere completato dalla creazione di un apposito organo "garante", che svolga, in riferimento ad un'istituzione scolastica, o ad un insieme di istituzioni scolastiche, un ruolo di "difesa civica" specializzata.
· L'altro piano è costituito dalle insostituibili garanzie di tipo indiretto, cioè dai poteri di indirizzo e di programmazione che spettano ai pubblici poteri e, con il nuovo Titolo V, agli enti locali territoriali. Invero, la libertà di insegnamento e l'autonomia delle scuole riguardano ambiti determinati, non possono e non debbono riassumere tutti gli aspetti concernenti l'organizzazione del servizio e le modalità per la sua erogazione. Si pensi ad esempio agli orari della scuola dell'infanzia, all'istituzione del tempo pieno nella scuola elementare, all'istituzione del tempo prolungato, alla distribuzione dei diversi indirizzi della scuola secondaria superiore, ecc. Ebbene, questi aspetti non possono essere che essere decisi da chi ha la responsabilità politica del servizio dell'istruzione, pertanto rientrano nella competenza degli enti territoriali locali.
Ciò per due distinte e convergenti ragioni:
1.  perché detti enti sono le uniche istituzioni legittimate a rappresentare i cittadini, anche nei confronti della scuola e dei docenti, la cui autonomia e libertà convive, non si dimentichi, con l'esigenza di prestare un servizio per soddisfare altrui bisogni (vedi quanto già accennato al punto “Libertà e servizio”);
2.    perché non è immaginabile, per evidenti ragioni, di affidare la determinazione degli aspetti ora in questione (che coinvolgono con immediatezza interessi propri dei protagonisti del sistema, sia come singoli che come corporazioni) ad un confronto frontale e diretto fra docenti e utenti, che potrebbe solo generare esasperate conflittualità oppure più o meno mascherate subalternità.
Dunque, anziché attardarsi su vecchie o nuove (e più o meno lottizzate) forme di cogestione, sarebbe il caso di procedere all'attuazione del Titolo V. E questo è da dire, soprattutto, alle Regioni.
La relazione integrale del professor Marzuoli.

venerdì 3 gennaio 2014

PREMIARE I MIGLIORI INSEGNANTI MIGLIORA LA SCUOLA? (“Scuola Democratica” n.6 Nuova serie – Ottobre 2012)

di Giorgio Ragazzini 
 Parole chiave: Valutazione – Qualità media dei docenti – Governo della scuola 
Sintesi: Premiare i migliori insegnanti non migliora la qualità media e può anzi creare tensioni e insoddisfazione fra i colleghi. Molto meglio sforzarsi di garantire che tutti i docenti siano almeno sufficienti sia per capacità che per correttezza professionale. A questo scopo bisogna anche poter provvedere subito nei casi di palese inadeguatezza. Meglio investire le scarse risorse a disposizione per affidare a docenti selezionati i nuovi ruoli indispensabili al governo delle scuole.
Anche per i docenti, come per gli allievi, sarebbe bene distinguere sempre tra valutazione formativa (che include l’autovalutazione) e valutazione certificativa (anche detta sommativa). Più che per le metodologie da adottare (alcune vanno bene per l’una e per l’altra) si differenziano per lo scopo che si prefiggono. La prima serve a mettere a fuoco i punti di forza e di debolezza di un insegnante, in modo da potenziarne l’efficacia didattica. La seconda entra in gioco nei passaggi in cui si accerta il possesso di determinati requisiti: l’abilitazione all’insegnamento, l’immissione in ruolo, i concorsi a dirigente scolastico e via dicendo. È il tipo di valutazione a cui ci si riferisce ordinariamente parlando di scuola.
Negli ultimi anni, com’è noto, si è sviluppato un dibattito sul merito e sulla valutazione, soprattutto a partire dal concorso proposto da Berlinguer, che, nonostante l’assenso sindacale, dovette poi fare marcia indietro per via della fortissima resistenza della categoria. Essa fu dovuta sia al meccanismo previsto per la selezione, che un editoriale del “Corriere della Sera” definì “avvilente lotteria”, sia alla convinzione che fosse ingiusto essere pagati diversamente “a parità di lavoro”. Certo tra chi protestava c’era anche chi rifiutava puramente e semplicemente di essere in qualsiasi modo valutato; il che non stupisce, visto che la normativa e più ancora la prassi corrente escludevano a priori non solo il riconoscimento del merito, ma anche un effettivo controllo sull’adeguatezza e la correttezza professionali. Lo smantellamento del corpo degli ispettori scolastici è stato una conseguenza e insieme una riprova di questa cultura politica.
Nonostante quell’iniziale insuccesso, l’obbiettivo di “premiare i migliori” come leva per migliorare la scuola sembra rimanere l’unica idea in campo riguardo al merito; e di recente, con il ministro Profumo, è risorta dalle ceneri di un altro esperimento, il progetto “Valorizza” varato dal precedente ministero, che stentò molto a trovare adesioni fra le scuole. Probabilmente molti sono convinti che l’unico problema sia quello di abituare gli insegnanti all’idea di essere valutati, come se le modalità della valutazione e le dinamiche che si possono innescare nella comunità scolastica non fossero poi così importanti[1].
La questione della valutazione dei docenti va pensata con grande concretezza, in modo che siano chiari sia i vantaggi per il sistema scolastico, sia le possibili controindicazioni. Diamo per scontato che nel porsi questo problema ci si attendono degli effetti positivi sulla qualità media e sul livello di motivazione del corpo insegnante.
Proponiamo perciò di partire da questa domanda: per migliorare la qualità della scuola è più utile individuare e premiare economicamente i migliori insegnanti o lavorare perché tutti i docenti siano almeno “sufficientemente buoni”? A noi pare molto più sensato puntare sulla seconda prospettiva. Dal punto di vista dell’interesse collettivo, infatti, ci si deve chiedere quanto la qualità media dei docenti crescerebbe premiando chi già lavora molto bene e probabilmente continuerebbe comunque a farlo in quanto motivato dalle soddisfazioni professionali che via via ottiene. C’è poi una controindicazione molto seria che riguarda il clima interno alle scuole: individuare gli insegnanti più meritevoli significa inevitabilmente tracciare una linea che li divide da quelli appena meno meritevoli e comunque da chi fa dignitosamente il proprio lavoro, con il probabile risultato di demotivare dei buoni insegnanti. Oltre a tutto in questi ultimi si acuirà la consapevolezza di essere retribuiti esattamente quanto quel certo collega assenteista o incapace di cui tutti si lamentano. 
Effetti indesiderati di questo genere vengono riferiti da Giorgio Allulli nel saggio sulle politiche riformatrici basate sulla verifica dei risultati nel numero 3 di questa rivista. Di queste politiche Allulli fa un bilancio in chiaroscuro, in cui però le ombre sono abbastanza consistenti da sconsigliare l’uso di questo approccio per premiare o “punire” scuole e insegnanti. Coloro che sono contrari, infatti, sostengono tra l’altro “che la sollecitazione di una competizione tra i docenti compromette la cooperazione all’interno della scuola, che invece rappresenta un valore ed una dimensione fondamentale di un efficace insegnamento”[2]. Quest’ultima considerazione dovrebbe valere anche per il metodo cosiddetto “reputazionale”, cioè basato sull’opinione degli studenti, dei genitori e dei colleghi, anche se la sua minore complessità tecnica crea probabilmente meno dubbi e diffidenze nei docenti valutati.
Dunque, se è vero che una maggiore retribuzione degli insegnanti migliori presenta più svantaggi che vantaggi e che tra questi ultimi non c’è neppure un incremento della qualità del corpo docente, forse non vale la pena di insistere su questa strada. La quale, oltre a tutto, suggerisce un’errata identificazione tra merito ed eccellenza (come del resto il “pacchetto del merito” proposto dal Ministro Profumo). Le eccellenze devono essere valorizzate in tutti i campi, ma sono solo un aspetto del merito, la cui essenza è l’impegno serio nel coltivare i propri talenti, di qualsiasi genere essi siano. In altre parole, più ancora del migliore merita chi dà il meglio di sé[3].
Volendo dunque elevare la qualità media degli insegnanti e quindi della scuola italiana, secondo noi le due priorità in tema di valutazione dovrebbero essere queste: 
1 - Poter intervenire tempestivamente nei casi di palese inadeguatezza[4] e di grave o ripetuta scorrettezza professionale di un docente. La presenza di una minoranza di insegnanti di queste due tipologie è dannosissima per il prestigio della scuola pubblica e soprattutto per i ragazzi con cui hanno a che fare. Anche quei dirigenti che invece del proprio quieto vivere vorrebbero tutelare gli studenti e la scuola attualmente si scontrano con una carenza di strumenti e con lungaggini procedurali, tanto che spesso finiscono per arrendersi di fronte allo stress e alle frustrazioni a cui vanno incontro. Sanzionare i comportamenti scorretti e provvedere nei casi di insufficienza professionale significherebbe invece riconoscere indirettamente il merito di tutti gli altri docenti che fanno almeno dignitosamente il loro dovere e spesso molto di più, un po’ come una lotta efficace all’evasione fiscale rende giustizia e dà soddisfazione ai contribuenti corretti. 
2 - Selezionare tra gli insegnanti, tramite procedure concorsuali, le nuove figure professionali indispensabili per un governo efficiente delle scuole autonome. Si tratta di fare un passo avanti rispetto alle funzioni obbiettivo o strumentali, scarsamente retribuite e affidate a quei pochi che sono di volta in volta disponibili, non di rado forniti solo di buona volontà, spesso in assenza sia di una seria progettazione che di una reale verifica del loro lavoro. La scuola ha bisogno di docenti in possesso di talenti ulteriori rispetto all’insegnamento, docenti che sappiano occuparsi di aggiornamento, della formazione dei nuovi insegnanti (anche tramite distacchi all’università), dei servizi alla didattica, della progettazione curricolare. In una situazione di risorse molto scarse, gli investimenti necessari per la creazione di questo “ceto di governo” sarebbero a nostro avviso molto più remunerativi rispetto alla politica delle “eccellenze”. 
Ma il contesto indispensabile per far funzionare le riforme è quello in cui chi ne ha la responsabilità fa rispettare costantemente le regole (da integrare dove necessario) e in cui la scuola dà dimostrazione di serietà, di trasparenza e di equità in ogni aspetto della sua giornata. Una effettiva condivisione di questi valori  offrirebbe un fondamentale sostegno ai singoli docenti, specie nel caso di classi difficili. Inutile auspicare che siano tutti “carismatici” o illudersi che i problemi disciplinari si possano interamente riassorbire con una nuova didattica. C’è invece in non pochi docenti e dirigenti un disorientamento etico prima ancora che professionale, che impedisce di avvertire come scorretti e iniqui comportamenti che in altri paesi sono inconcepibili. Tollerare che si copi nei compiti in classe e durante gli esami, quando non si aiutano attivamente i candidati, alterare ad libitum le valutazioni negli scrutini – cioè falsificarle – per giustificare promozioni non fondate sui risultati di apprendimento, non sanzionare i comportamenti che impediscono il regolare svolgimento delle lezioni sono tutti casi in cui a quanto pare non si percepisce il danno grave che ne deriva agli studenti che si impegnano e al ruolo educativo della scuola. Sarebbe di grande utilità a questo proposito che gli insegnanti e i presidi potessero far riferimento a dei princìpi etico-deontologici condivisi[5] o se si preferisce a degli standard professionali.
Merito e responsabilità, quindi, assunti dalla scuola come criteri guida, non solo non sono in contrasto con l’impegno a portare tutti a dare il meglio, ma ne costituiscono la condizione ineliminabile, cioè la cornice di un lavoro sereno e produttivo.
Quanto alla valutazione formativa e all’autovalutazione, si tratta indubbiamente di una pratica del tutto trascurata nella scuola italiana, mentre potrebbe costituire una leva essenziale per migliorarla in ciò che ha di più prezioso, la professionalità degli insegnanti. Ogni insegnante serio desidera migliorarsi e si esamina in proposito. Si tratta in fondo di farlo in modo  più sistematico e più metodico, per individuare con maggiore precisione i punti su cui lavorare. E il complemento indispensabile della valutazione formativa dovrebbe essere il sistematico confronto con i colleghi con il metodo seminariale, cioè tra professionisti che hanno ciascuno esperienze positive, successi didattici, punti di forza, ma anche problemi e difficoltà da condividere e da discutere. Indubbiamente lo scambio tra pari, oltre a mettere in comune competenze e conoscenze utili a tutti, ha l’effetto di valorizzare e motivare, di restare aderenti alle reali esigenze dei partecipanti, di arricchire nel confronto la riflessione sulla propria esperienza professionale. 
Riassumendo: siamo convinti che cominciare a valutare “dal basso” invece che “dall’alto”, per garantire almeno la sufficienza professionale (inclusa quella etico-deontologica) sia più produttivo di qualità, meno divisivo e molto meno costoso rispetto alla linea dell’ “eccellenza”. Le poche risorse disponibili per una “politica del personale” andrebbero invece utilizzate per retribuire gli insegnanti in grado di contribuire validamente al governo delle scuole autonome. Tutto questo, infine, deve avere per contesto un nuovo clima di serietà e di rigore, che ancora troppi associano pigramente all’autoritarismo e alla conservazione, mentre sono la condizione indispensabile per avere una scuola e una società più giuste.


[1] Un esempio di questa sottovalutazione lo si trova in un articolo di  Gian Antonio Stella (La caccia bipartisan ai consensi facili, “Il Corriere della Sera”, 28 ottobre 2008), che così argomenta: “Uno su cinque era troppo poco? Può darsi. Dovevano essere definiti meglio i criteri? Può darsi. Il sistema dei quiz non era l' ideale? Può darsi. Ma l' obiettivo del ministro era chiaro: «Va introdotto il concetto di merito. Chi vale di più deve avere di più». Fu fatto a pezzi.”  
[2] Giorgio Allulli, Le politiche scolastiche e l’Output Driven Approach, “SD” n. 3, novembre 2011.
[3] Vedi Giacomo Vaciago, Meritocrazia: come valorizzare tutti i talenti, Cei, Perugia, 17 novembre 2007. Il testo è pubblicato sul nostro blog Gruppo di Firenze Documenti. Vaciago scrive tra l’altro: “Quello che conta per essere giudicati positivamente non è il differente punto di partenza, né quello di arrivo, ma l’impegno profuso a far crescere la dote iniziale, qualunque essa sia”.
[4] Rientrano  in questo tipo i casi di “esaurimento nervoso” (oggi burnout ), che, stando agli studi e ai rilevamenti del dottor Lodolo D’Orìa, sono in netto aumento tra gli insegnanti. Naturalmente nei casi meno gravi potrebbe essere sufficienti interventi di sostegno e di riqualificazione, in quelli più seri - se praticabile - l’utilizzazione in altre mansioni.
[5] L’Associazione Docenti Italiani (ADi) ha redatto un proprio codice etico-deontologico, che però è poco conosciuto. Maggiori possibilità in questo senso avrebbero avuto i Principi etici della professione docente della Gilda degli Insegnanti, ma per il momento non ne ha mai fatto oggetto di una sistematica opera di sensibilizzazione.

lunedì 30 dicembre 2013

I RAGAZZI E LA SFIDA DELLA RESPONSABILITÀ

di Silvia Vegetti Finzi
(da La lettura, supplemento del “Corriere della Sera” di domenica 29 dicembre 2013)  
Marco non ha mai fatto pace con la scuola. Per lui star seduto nel banco è una tortura assurda, una camicia di forza cui opporsi in ogni modo, dimenandosi, disturbando i compagni, facendo il pagliaccio. Che bello far ridere tutti! Genitori e insegnanti reagiscono rimpallandosi la responsabilità. Per gli uni l'insegnamento è troppo noioso, per gli altri la famiglia di Marco troppo sbilanciata. Al padre assente corrisponde una presenza materna dilagante e oppressiva.  Il duello tra casa e scuola esonera il bambino dall'assumere le proprie responsabilità. Nella sua testa l'insuccesso scolastico riguarda gli adulti, è un problema loro. E questi, finché dura la scuola dell'obbligo, cercano di minimizzare, di reagire cambiando istituto o sperando che, con l'età, le cose si aggiustino. Ma alle superiori può accadere che, da problema marginale, l'insuccesso scolastico di Marco si trasformi in fallimento esistenziale. Il preside manda a chiamare i genitori (di solito si presenta solo la madre) ed espone il problema: il ragazzo non ce la fa. Non si tratta di rimediare a qualche brutto voto, ma proprio di un fallimento strutturale. A questo punto occorre chiedersi "perché", individuare le cause per trovare le risposte. Ma la responsabilità, evitata prima, si presenta ora come senso di colpa, come se al fallimento del figlio corrispondesse quello dei genitori. Così inteso, il fallimento viene vissuto come una catastrofe anziché come un momento di crisi, come una rincorsa che consente di saltare più avanti e più in là. Molto diverso l'atteggiamento assunto dai genitori e dagli insegnanti anglosassoni che considerano l'andar male a scuola una crisi che si può e si deve superare, anche scegliendo un corso di studi più pragmatico e più breve. Che cosa provoca questo divario? Il fatto che spesso da noi la funzione materna - caratterizzata dal contenere, comprendere, giustificare - non è temperata da quella paterna, cui compete invece distinguere, separare sostenere le dinamiche di autonomia e indipendenza dei figli. L'amore parentale, se non viene governato da una strategia evolutiva, diviene adesivo, confusivo, paralizzante. Solo chiedendo ai ragazzi di assumere progressivamente le loro responsabilità potremo renderli capaci di gestire un eventuale fallimento, inserendolo in una prospettiva di vita mobile e complessa, dove si può vincere e perdere, cadere e rialzarsi perché si è consapevoli che le esperienze, adeguatamente elaborate, costituiscono l'unica, vera scuola di vita.
Per commentare, tornare alla pagina precedente. 

lunedì 16 dicembre 2013

PER I “BISOGNI EDUCATIVI” MENO BUROCRAZIA E PIÙ SERVIZI ALLA DIDATTICA

Intervento di Giorgio Ragazzini del Gruppo di Firenze all'incontro-dibattito La normativa sui bisogni educativi aiuta la scuola?, tenutosi giovedì 12 novembre a Firenze. 

1. L’illusione procedurale 
Negli anni novanta si cercò di impiantare nelle elementari e nelle medie una metodologia di origine industriale, la programmazione per obbiettivi. Per ogni materia e anche negli ambiti comuni alle diverse discipline, si dovevano stabilire decine di obbiettivi e sotto-obbiettivi, da calendarizzare, corredare di mezzi e strumenti  e poi verificare nel corso dell’anno. E questi obbiettivi esondarono poi nelle schede di valutazione, al punto che i colleghi delle elementari ne dovevano valutare ben 44 a quadrimestre, fino a quando Berlinguer (almeno in questo – va detto – benemerito) fece piazza pulita. C’era chi mi diceva “Beh, finalmente anche certi insegnanti saranno costretti a lavorare”. Ma naturalmente non era così: si potevano produrre bellissime programmazioni, magari scopiazzandole qua e là, che poi rimanevano sulla carta.
Questa moda pedagogica mi è tornata in mente per una caratteristica che la accomuna con le disposizioni di cui ci occupiamo oggi (e potrei citare altri esempi, come il fallito tentativo di introdurre il cosiddetto “portfolio delle competenze”). Ed è l’illusione, che definirei “procedurale”, per cui i problemi si possono risolvere attraverso un insieme di prescrizioni, con un iter burocratico. Si varano delle linee guida, si costituisce una molteplicità di gruppi e comitati (non importa se pletorici e di scarsa qualificazione), si fa riferimento a organismi di supporto non si sa quanto già esistenti e quanto futuribili, infine si riunisce il Consiglio di Classe, che, tenendo conto di tutto questo, dovrebbe decidere se fare o no il PDP, il piano didattico personalizzato.
Come altre volte in passato, ho la sensazione che dietro l’impalcatura delle norme, che rischia di riuscire solo a gravare gli insegnanti di adempimenti burocratici, ci sia la convinzione ministeriale che altrimenti molti docenti non abbiano la volontà, più ancora che la capacità, di fare qualcosa per aiutare gli allievi in difficoltà e che quindi debbano essere costretti a lavorare secondo una metodologia dettata dal ministero o meglio da un gruppo di pedagogisti che ruotano intorno al ministero.

2. Motivare e demotivare. 
Questo ci porta direttamente a porsi una domanda: al ministero lo sanno che in qualsiasi organizzazione uno dei compiti della dirigenza è quello di saper motivare chi ci lavora, tanto più se si tratta di un mestiere tra i più difficili e logoranti (anzi uno dei tre mestieri “impossibili”, diceva Freud)? Sembra proprio di no, perché da molto tempo a questa parte hanno fatto di tutto per ottenere il risultato opposto, l’aumento della disaffezione e dello scoraggiamento!
Cito solo l’episodio più clamoroso: dopo una brutale riforma pensionistica, sulle cui conseguenze quanto a stress professionale il Miur non ha sentito l’esigenza di fare almeno un’indagine, un ministro della pubblica istruzione è arrivato a certificare ufficialmente di fronte alla nazione che quello dei docenti è un part time, per cui è ovvio e perfettamente lecito aumentargli - su due piedi - di un terzo l’orario di lavoro, s’intende senza incrementi retributivi di sorta.
Da questo punto di vista, quale messaggio danno la direttiva e le circolari sui BES? Potenziano e sostengono i docenti? Li valorizzano? O li rendono più preoccupati, più incerti, più timorosi di possibili ricorsi, più inclini a risolvere i problemi abbassando ulteriormente l’asticella?
Preoccupazioni e interrogativi che (anche un po’ inaspettatamente) sono  simili a quelli di un pedagogista come Maurizio Tiriticco, sostenitore convinto di individualizzazione, personalizzazione, insegnamento per competenze e didattica laboratoriale, che ritiene superflua e anzi dannosa questa normativa. Dopo aver notato che a questo punto qualsiasi cosa può diventare un BES, dice: 
“Invece di intimidire i nostri insegnanti come se fossero degli sprovveduti di fronte ai bisogni educativi di ogni tipo, si  provveda a sostenerli stanziando le necessarie risorse!
Dopo decenni di tagli, vogliamo anche colpevolizzarli perché sarebbero incapaci di affrontare situazioni di disagio?
Intimidiamoli con i Bes, e il gioco è fatto!!!
L’amministrazione è salva!   
E ancora:  “Poiché per  ogni alunno BES occorre un Piano di Studi Personalizzato, quindi orientato a competenze di livello inferiore a quelle delle Indicazioni Nazionali, il rischio è che…l'ignoranza dei nostri studenti e dell’intera popolazione aumenti!!! 
E infine: “Si vuole andare verso una scuola “più facile?”.

3. La responsabilità del discente 
Il terzo punto a cui vorrei accennare è la scomparsa dei ragazzi svogliati. Dove sono finiti? Risposta: non sono scomparsi, sono diventati tutti, senza eccezione, ragazzi che la scuola è incapace di motivare. In altre parole, siamo passati in poco tempo da un’istituzione che esigeva l’impegno degli allievi e  si interrogava troppo poco su se stessa, a quella di oggi che ritiene sempre un proprio fallimento l’insuccesso scolastico. Nella riflessione pedagogica ministeriale e nei suoi provvedimenti, l’iper-responsabilizzazione della scuola è andata di pari passo con la più o meno completa de-responsabilizzazione dei ragazzi. Manca del tutto e da tempo il tema dell’impegno, della volontà, dello sforzo che la scuola deve richiedere, pena l’abdicazione dalla sua funzione formativa.
Torno brevemente a Freud e ai tre mestieri impossibili, che sono governare, educare, psicoanalizzare. In che senso Freud diceva che sono impossibili? Lo diceva nel senso che il risultato non è garantito senza la collaborazione del soggetto a cui è rivolta l’attività del governante, dell’educatore, dello psicoanalista. Era una messa in guardia rispetto alle illusioni di onnipotenza. Il ferro, il legno, l’argilla, materiali dei mestieri “possibili”, possono essere manipolati a piacimento; i bambini no, per non parlare degli adolescenti. Ci vuole anche la loro partecipazione attiva.
Naturalmente è ovvio che parte integrante dei compiti dell’istituzione educativa è la ricerca di un suo continuo miglioramento, tuttavia è essenziale che ogni ragazzo abbia il sentimento della responsabilità individuale rispetto ai propri successi e ai propri insuccessi. Adolfo Scotto di Luzio scrive a questo proposito che abbiamo a che fare con una pedagogia in cui “l’esito è concepito non come il risultato – da conseguire, e dunque sempre incerto –dell’impegno di un individuo in carne e ossa, ma come lo sbocco prevedibile di un sistema ben congegnato”. Qualcosa di molto simile all’illusione di cui ho parlato all’inizio.
Allora io faccio fatica a comprendere che cosa significa fare un Piano Didattico Personalizzato a uno studente che si rifiuta di studiare. Anche perché contemporaneamente viene sempre più accarezzata l’idea luminosa di garantire la promozione a tutti, eliminando così anche quel tanto di deterrenza costituita dall’ “inutile”, anzi “dannosa” e soprattutto antieconomica bocciatura. Con l’ulteriore vantaggio che in questo modo il problema sparisce. Poi ci sarebbe un’alternativa alla ripetenza così com’è, ma non è il caso di parlarne in questa sede.

4. La crisi ignorata 
Ma se allarghiamo lo sguardo, vediamo che dall’orizzonte della pedagogia ministeriale non è assente soltanto il tema dell’impegno. È assente in blocco il tema dell’educazione in senso proprio; e lo è anche nella direttiva e nelle circolari sui BES. Nelle quali i “bisogni educativi” sono in realtà sinonimi di “difficoltà di apprendimento”, mentre paradossalmente non viene sfiorata neppure per un attimo proprio la crisi dell’educazione. Non pochi bambini arrivano alla scuola dell’infanzia senza aver fatto minimamente i conti con il principio di realtà, che dell’educazione è il fondamento. E di cosa è fatta la realtà? È fatta della presenza degli altri bambini con cui bisogna imparare a convivere; è fatta di regole da rispettare affinché la scuola funzioni, di limiti ai desideri individuali. Questo accade perché molti genitori, disorientati dall’assenza di una tradizione educativa condivisa e spesso afflitti dalla paura di non essere abbastanza amabili, sono stati indotti – come scrive il pediatra e psicanalista Aldo Naouri – a trasmettere ai figli un messaggio opposto al principio di realtà: «Non solo puoi avere tutto, ma ne hai anche diritto».
Privi di una sufficiente educazione di base, questi bambini diventano un grosso problema per la scuola; e tanto più lo sono i cosiddetti “bambini tiranni”, quelli che hanno preso il potere in famiglia e che cercano di imporre anche in classe la loro volontà: tendono a fare quello che vogliono, non sanno stare fermi, non “danno retta”, come si dice a Firenze, e quindi fanno perdere un’enorme quantità di tempo e di energie agli insegnanti. Diventano poi preadolescenti intrattabili e supponenti nelle scuole medie e spesso naufragano alle superiori.
Mi chiedo: con questo tipo di bambini e di ragazzi che vanno male a scuola perché non abituati alla costanza dell’impegno in vista di un risultato; che non stanno attenti perché tutti presi da se stessi, con cui probabilmente è già fallito più di un tentativo di interessarli, quale Piano Didattico Personalizzato è immaginabile, se non quello di abbassare gli obbiettivi fin quasi al livello zero?
Sono anzi convinto che una causa non secondaria di molte forme di “BES” e della loro cronicizzazione sia proprio la rimozione di questo tema da parte del governo della scuola e della cultura pedagogica prevalente. E si illude chi pensa che i problemi di comportamento possano essere completamente riassorbiti da una didattica più accattivante, più moderna.
È quindi indispensabile che, sia pure con grave ritardo, la scuola a tutti i livelli, a partire dal vertice, si faccia carico in modo esplicito e responsabile del problema educativo, nella convinzione che si tratta delle fondamenta stesse della formazione.
Sentite cosa dice l’Ocse nella sua analisi dei dati PISA 2012. Cito dalla sintesi che si trova sul sito dell’Associazione Docenti Italiani (ADi): 
(Focus n. 4) La disciplina della classe sembra avere grande influenza sul livello degli apprendimenti. Dove la disciplina è allentata, gli insegnanti sprecano tempo e gli studenti non sono concentrati anche a causa delle numerose interruzioni.
A queste conclusioni PISA è arrivata a partire dai dati di tutte le rilevazioni; 
(Focus 32) La maggior parte degli studenti è contenta quando c’è la disciplina in classe.  [Quindi si sta meglio a scuola, si ama di più la scuola] 
Le classi in cui vige la disciplina di solito hanno risultati migliori, indipendentemente dalle condizioni socio-economiche degli allievi. [Con la disciplina, una scuola più giusta socialmente]
In sostanza abbiamo una riforma a costo zero a disposizione solo che la si voglia e la si persegua con perseveranza: una scuola che ridia autorità agli insegnanti e sappia fare l’interesse dei ragazzi riscoprendo e coltivando la virtù della fermezza educativa. E riscoprendo anche il ruolo delle sanzioni, previste in ogni modello educativo che sia tale.
Pochi giorni fa ho letto un libro-intervista a Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano, a cura di un giornalista del Manifesto, a cui lo stesso intervistato collabora. A un certo punto Recalcati sostiene che esiste senza dubbio “il diritto a essere puniti”, facendo naturalmente trasecolare l’intervistatore. E spiega: Ti faccio l’esempio di una mia paziente cleptomane che ruba nei supermercati. […] Il suo passaggio all’atto del furto è l’invocazione che esista un adulto, qualcuno, un padre, un poliziotto, una cassiera, che le dica: “Fermati, hai rubato!” […]
Ecco, anche un allievo “onnipotente” spesso non desidera altro, in fondo, che essere fermato.

5. Un’alternativa 
Detto questo sul fronte educativo, vengo infine a un abbozzo di modello alternativo a quello che ci viene proposto da queste norme per affrontare le difficoltà di apprendimento. È molto semplice. Fare come nelle altre professioni: quando un medico generico si trova in difficoltà si rivolge o a un collega più esperto di lui o a uno specialista, oppure invia a quest’ultimo il paziente. Uno psicoterapeuta va dal suo supervisore e gli chiede consiglio su quel certo caso.
Quindi anche nella scuola, via le formalità burocratiche, via le procedure, via i Piani Annuali per l’Inclusività e tutto quello che rischia di essere solo generico e declamatorio; sì  all’estensione di qualificati servizi di consulenza (il logopedista, lo psicologo, il neuropsichiatra, l’assistente sociale). Con formalità ridotte al minimo e naturalmente nel rispetto dei due diversi ruoli. Da un modello, quindi, che per più motivi appesantisce il lavoro dei docenti a uno che lo alleggerisce e lo sostiene. È quello che avviene, per esempio, in Finlandia, dove gli insegnanti possono consultare frequentemente figure di supporto e appunto di consulenza.
Vale anche la pena di ricordare che soprattutto nella scuola secondaria manca un elemento essenziale della cultura professionale, che invece dovrebbe essere intensamente promosso, cioè il sistematico confronto di carattere seminariale, dunque fra pari, come fonte di arricchimento, di scambio di esperienze, come base dell’aggiornamento e come occasione di aiuto reciproco nell’affrontare i casi difficili.
Infine, questa impostazione tiene conto, a differenza di quella prospettata da queste norme, del fatto che molto spesso le difficoltà di apprendimento di un ragazzo si radicano in situazioni esterne alla scuola, soprattutto nella situazione familiare; ed è ovviamente in queste situazioni, più che direttamente sul piano didattico, che si deve cercare di intervenire  con assistenti sociali, psicologi e servizi educativi esterni.
Ecco, penso che sia in questa direzione che dovremmo far sentire la nostra voce. 

Per i commenti, tornare alla pagina precedente.

mercoledì 27 novembre 2013

VALUTAZIONE: DI QUALE MERITO PARLIAMO?

Intervento di Giorgio Ragazzini al convegno Educare alla critica: quale valutazione? organizzato da Unicobas, Unicorno L'AltrascuolA e Liceo Mamiani di Roma, 26 novembre 2013 

Il merito come eccellenza e il merito come serietà 
Quando si parla di puntare sul merito come leva del progresso sociale e civile, ci si riferisce in genere alla valorizzazione dei più bravi; in altri termini, alle cosiddette “eccellenze”. Dico subito che valorizzare i migliori in tutti i campi è giusto e soprattutto necessario, perché la società di oggi e quella che domani sarà dei nostri figli ha bisogno di eccellenti professionisti, imprenditori, politici, tecnici, scienziati, studiosi; e non solo perché operino al meglio ciascuno nel proprio settore, ma anche perché  con la loro azione, con il loro esempio, con i loro scritti, con il loro insegnamento trasmettano alle nuove generazioni, al più alto livello possibile, il nostro patrimonio culturale. Questo per il merito come eccellenza. Ma per la società è altrettanto importante il riconoscere e valorizzare il merito di chi svolge con impegno e serietà il proprio compito, qualunque esso sia. Coltivando i propri talenti, quali che siano. Impegnandosi per fare bene le cose che fa. Purtroppo in Italia il merito come serietà è, se possibile, ancora più misconosciuto del merito come eccellenza. Eppure si tratta di qualcosa che tiene letteralmente insieme la società. Ora, chi fa il proprio dovere verso la società può avere un solo, ma fondamentale premio o riconoscimento: quello di non essere trattato come chi il proprio dovere non lo fa; di non veder tollerare i disonesti e gli incapaci da chi avrebbe la responsabilità di richiamare i primi ai propri compiti (e se necessario sanzionarli) e di proteggere dai secondi chi può avere un danno a causa della loro incapacità. Considero questo un tratto fondamentale di una società più giusta. 

Il merito nella valutazione dei docenti: due priorità   
In linea di massima queste considerazioni valgono anche per la scuola. Anche alla scuola si possono applicare le due idee di merito: come eccellenza e come serietà. Ma la questione della valutazione dei docenti va posta con grande concretezza e con altrettanto buon senso. Dobbiamo avere ben chiari tanto i vantaggi per il sistema scolastico, quanto i possibili effetti indesiderati. 
Per cominciare, è ovvio che quando si insiste sulla valutazione dei docenti si punta a migliorare la qualità media del corpo insegnante. Propongo perciò di partire da questa domanda: per migliorare la qualità della scuola italiana è più utile individuare e premiare economicamente i migliori insegnanti oppure lavorare perché tutti i docenti siano almeno “sufficientemente buoni”? A me pare molto più sensato puntare sulla seconda prospettiva. Dal punto di vista dell’interesse generale, infatti, è dubbio che la qualità media dei docenti crescerebbe premiando chi già lavora molto bene e senza dubbio continuerà a farlo anche senza premi,  in quanto motivato dalle soddisfazioni professionali che ottiene. D’altra parte, le esperienze di altri paesi, per esempio quella del Regno Unito, segnalano una controindicazione che questo tipo di valutazione comporta rispetto al clima che si viene a creare all’interno delle scuole: individuare i docenti più meritevoli (e sorvolo qui sull’attendibilità dei metodi per farlo) significa in pratica tracciare una linea che li separa da quelli appena meno meritevoli e comunque da chi fa dignitosamente il proprio lavoro, con il risultato di demotivare dei buoni insegnanti. Oltre a tutto in questi ultimi si acuirà la consapevolezza di essere retribuiti esattamente quanto quel certo collega assenteista o incapace di cui tutti si lamentano. Questa diversità di retribuzione a parità formale di lavoro tende quindi a danneggiare la possibilità di costruire in ogni istituto un clima positivo e collaborativo e di conseguenza anche quella comunità professionale, la cui assenza viene lamentata da molte parti soprattutto nella scuola secondaria.
Quali sono invece le leve che promettono di essere effettivamente in grado di migliorare quello che è il principale patrimonio della scuola in ogni tempo, il cuore dell’offerta formativa, cioè il corpo insegnante?  A nostro parere le due priorità, restando in tema di valutazione, dovrebbero essere due. La prima riguarda il merito come eccellenza, ma intesa in senso diverso, cioè come possesso di ulteriori talenti utili alla scuola, oltre alla capacità di docente in senso stretto. Se non appare produttivo, come ho detto, premiare gli insegnanti migliori a parità di lavoro (tra l’altro non mi pare che in nessun altro settore si sia presa questa strada: si premiano i migliori tra i giudici? I medici e gli infermieri più bravi?), sarebbe invece utilissimo e urgente selezionare tra gli insegnanti le nuove figure professionali indispensabili per un governo efficiente delle scuole autonome (questo sì, in analogia con altre professioni). In altre parole, la scuola ha bisogno di docenti capaci sul piano organizzativo, di responsabili delle attività di aggiornamento, di altri che seguano la formazione dei nuovi insegnanti, magari tramite distacchi all’università, che curino i servizi alla didattica, che coordinino gli interventi di integrazione degli stranieri e dei disabili e via dicendo. In una situazione di risorse molto scarse, gli investimenti necessari per la creazione di questo “ceto di governo” sarebbero a nostro avviso molto più remunerativi rispetto alla politica delle “eccellenze” come sperimentata, non a caso con difficoltà, dal ministero. Non ci si può più accontentare di soluzioni come le funzioni strumentali, mal retribuite e affidate a volte a colleghi bravissimi, ma più spesso a chi è dotato solo  di buona volontà, quasi sempre in assenza sia di una seria progettazione che di una verifica del lavoro svolto. Naturalmente ci saranno tanti ottimi docenti che vorranno continuare a insegnare e basta. 
La seconda leva l’ho già accennata in apertura, è quella che, insieme a una maggiore selettività  in entrata, servirebbe a garantire insegnanti “sufficientemente buoni” a tutti i ragazzi, cioè una valutazione di minima  adeguatezza. In altre parole ci dovrebbe essere la possibilità di prendere provvedimenti  tempestivi e risolutivi nei casi di conclamata inadeguatezza oppure di grave o ripetuta scorrettezza professionale di un docente. Sappiamo tutti bene che oggi non è affatto così. Spesso un pessimo insegnante viene tutt’ al più trasferito da una scuola all’altra: con quale miglioramento per il sistema è inutile sottolinearlo. Anche quei dirigenti che vorrebbero tutelare gli studenti coinvolti,  attualmente si scontrano con una carenza di strumenti e con lungaggini procedurali, e spesso finiscono per darsi per vinti o di rinunciare in partenza di fronte allo stress e alle frustrazioni a cui vanno incontro. Non ignorare il “demerito” significherebbe invece riconoscere indirettamente il merito di tutti quei docenti che fanno almeno dignitosamente il loro dovere e spesso molto di più, un po’ come una lotta efficace all’evasione fiscale rende giustizia e dà soddisfazione ai contribuenti corretti.
Per ammettere che sia giusto basta riflettere sul fatto che nessuno di noi è disposto a farsi curare da un medico notoriamente incapace.  Il fatto che non si ponga rimedio ai casi in cui siamo al di sotto della sufficienza è deleterio per il prestigio della scuola pubblica, per quello della categoria e soprattutto per i ragazzi con cui hanno a che fare. Il superamento di questo vero e proprio tabù costituirebbe un importante passo verso la doverosa rivalutazione della categoria,  che ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione culturale della nazione e che ha al suo interno grandissime risorse di intelligenza, di esperienza e di passione civile che attendono di essere valorizzate anziché mortificate.
Non è certo difficile individuare i docenti che proprio non vanno, anche perché sono spesso oggetto di lamentele e proteste da parte dei genitori. Ma sarà comunque necessario “oggettivare” queste situazioni con una qualche procedura: e io vedrei la soluzione più ovvia in una rinnovata funzione ispettiva, che non a caso è stata letteralmente smantellata negli ultimi decenni. Mentre nel Regno Unito ci sono 1500 ispettori e in Francia 3000  in Italia ce ne sono solo 100. Nel Lazio uno. In Toscana nessuno. Eppure il necessario complemento dell’autonomia scolastica è un sistema efficiente di controlli, come in generale la responsabilità è il pendant della libertà.
Perché la cultura del controllo di legalità è così carente in quasi ogni settore? Io credo che, per una serie di motivi storico-politici e ideologici che non ho il tempo elencare, il rigoroso rispetto delle regole è stato associato non alla giustizia e alla libertà, come sarebbe ovvio perché sulle regole si basano, ma piuttosto all’autoritarismo, all’oppressione dello Stato o delle classi dominanti;  e addirittura alla mancanza di umanità; chi fa rispettare una regola viene spesso percepito come poco sensibile o comprensivo.
A questo punto credo di avere risposto dal mio punto di vista alle domande posteci dagli organizzatori,  per quanto riguarda la valutazione dei docenti. Certo, comprendo benissimo le riserve e le resistenze alla valutazione quando sento questo o quell’esperto sostenere come pacifica la possibilità di valutare  gli insegnanti in base ai risultati dei propri allievi.
Ma quando un’esigenza si afferma, è bene prendere un’iniziativa, fare delle proposte concrete, dire dei sì, che legittimino anche alcuni no, altrimenti c’è il rischio di trovarsi a combattere le stesse battaglie nelle condizioni meno favorevoli. Riassumendo, la proposta del mio gruppo è semplice: da un lato cominciare dal basso la valutazione degli insegnanti, affinché agli studenti italiani, se non potranno mai avere insegnanti tutti eccellenti, possiamo garantirne di “sufficientemente buoni” o adeguati che dir si voglia; dall’altro fare in modo che la crescente complessità della scuola possa essere governata e arricchita da nuove specializzazioni della funzione docente. 
Grazie dell’attenzione.
[Per i commenti, tornare alla pagina precedente]

lunedì 18 novembre 2013

TOSCANA: IL RISCATTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE

È  molto apprezzabile che la Regione e l’USR, di fronte all’alto numero di bocciati e di abbandoni nelle prime classi degli istituti professionali, malgrado il percorso integrato,  abbiano deciso di sperimentare un nuovo modello, anche se non in più di dieci classi degli istituti alberghieri toscani. Purtroppo, questa loro disponibilità non ha per ora incontrato quella di altre scuole e di altri dirigenti scolastici. Così le classi che sperimentano questo nuovo percorso sono quelle di due soli  istituti professionali:  il Vasari di Figline con una   e il Saffi con due.
Il nostro percorso complementare è ispirato a quello  già da tempo avviato in alcune scuole del Veneto, tuttavia con  qualche importante variante, almeno sul piano della strategia didattica. La più significativa di queste consiste senz’altro nell’offrire ai ragazzi l’opportunità di potersi misurare, soprattutto in prima e seconda, con un maggior numero di ore dedicate alle discipline tecnico-pratiche, sottratte a materie come italiano e matematica, eliminando  fisica e chimica a vantaggio delle discipline centrate sull’esperienza pratica. In terza, gli studenti potranno recuperare le competenze di base quando avranno saputo trovare le giuste motivazioni e gli opportuni  equilibri cognitivi per poter finalmente comprendere e utilizzare in modo consapevole e appropriato  i contenuti fondamentali di materie come lettere e matematica. E sempre in terza, saranno attivati corsi aggiuntivi per   far acquisire le altre competenze di base in fisica e chimica, non studiate in prima e seconda, per chi desidera rientrare l’anno successivo, in quarta, nel percorso dell’istruzione. 
   Tale recupero avverrà diminuendo   le ore delle  discipline tecnico-pratiche, che rimangono tuttavia numerose e già privilegiate in prima e seconda classe,  e  corroborate, sempre in terza, dalle attività di stage.
  Il percorso complementare, inoltre, potrebbe permettere  a quegli studenti del corso tradizionale, che nei primi mesi di scuola si trovino a vivere situazioni di demotivazione per non aver  trovato quello che si aspettavano, di poter passare al percorso maggiormente professionalizzante. Tuttavia, a conferma di quanto in didattica non vi debbano essere asserzioni categoriche e definitive o presunzioni di aver trovato formule risolutive, mi preme informarvi che in queste settimane ho negato ai due studenti  ripetenti e iscritti al percorso statale che me l’avevano chiesto, la possibilità di trasferirsi nel complementare. Infatti ho pensato che si debba evitare che il nuovo modello possa apparire  come una scorciatoia e una sorta di refugium peccatorum, perché tutti i percorsi formativi devono avere pari dignità,  anche se un po’ tutti, in questi decenni,  abbiamo  contribuito a trasmettere l’idea completamente opposta, e cioè che al vertice del nostro sistema formativo vi siano i licei e poi a scendere i tecnici, i professionali e infine la formazione professionale.
 Ai due ragazzi ho chiesto d’impegnarsi per essere promossi e l’anno prossimo potranno così accedere   al complementare.
 Ad oggi una delle due mie classi prime dimostra, in buona sostanza, i problemi canonici dei professionali: e cioè una buona parte dei ragazzi si caratterizza per una scarsa scolarizzazione, nel senso di mancanza del necessario adattamento ai requisiti di atteggiamento e di metodo che la scuola richiede.  La stessa situazione di questa mia classe si riflette in quella di Figline Valdarno come mi ha fatto presente il collega Marchetti col quale ci confrontiamo frequentemente anche su questo percorso.
Tuttavia, per entrambe le classi non sussistono grossi problemi disciplinari  che sono invece  tipici delle altre. Tanto per fare un esempio, se nelle prime “statali” chiamiamole così,  i  provvedimenti disciplinari sono all’ordine del giorno, queste nostre due prime,  pur essendo composte da ragazzi da scolarizzare, come sopra abbiamo visto, tuttavia forse proprio in virtù del maggior numero di ore in laboratorio, quindi di una loro maggior soddisfazione personale, riescono a mantenere un comportamento decisamente gestibile.
Se l’esiguo numero delle classi non ci autorizza ad esprimere giudizi definitivi ( non  a caso non approfondisco la realtà dell’altra prima in assoluto la migliore tra le tredici), tuttavia questi elementi devono incoraggiarci ad andare avanti e magari  a potenziare questa sperimentazione  aumentando ulteriormente le ore di laboratorio in prima e in seconda e anche aumentando, se le scuole lo chiederanno, il numero delle classi.   
A mio parere sarebbe davvero opportuno che la Regione Toscana continuasse a scommettere, anche per altri indirizzi, sul modello complementare, magari snellendone l’apparato gestionale, e  credo sia un danno profondo  aprire ai ragazzi  la strada della formazione professionale solo a 16 anni e sempre dopo che questi hanno ripetutamente fallito il percorso dell’istruzione. Un sistema del genere    finisce col trasmettere loro la consapevolezza che la formazione professionale è un percorso per falliti e di conseguenza si continua ad alimentare la distorta mentalità che approdare ad un lavoro manuale è una strada riservata ai perdenti.
    Occorre davvero ribadire che i percorsi tradizionali costringono gli studenti a seguire 12-13 discipline, che sarebbero senz’altro insopportabili e didatticamente insostenibili anche per gli stessi percorsi liceali. A questo proposito, permettetemi di non gioire affatto per l’ora in più di Geografia che è stata recentemente introdotta dal Decreto scuola. I Tecnici e soprattutto i Professionali hanno bisogno di ben altre modifiche dei loro piani di studio. Sono anzi convinto che la prospettiva più giusta  sia quella di andare verso la fusione a livello nazionale dell’ Istruzione professionale statale e della formazione professionale regionale: una fusione basata in maniera accentuata sull’alternanza scuola-lavoro. E di questo obiettivo a mio parere dovrebbero essere proprio le regioni a farsene carico anche perché la Costituzione, come sappiamo, assegna questa materia  alla competenza regionale. E in una auspicabile rivoluzione di questo ambito, sarebbe davvero importante non rinunciare all’aspetto forse più originale del nostro Complementare; e cioè quello di recuperare i valori della cultura astratta soprattutto nell’ultimo anno, anche perché allora i ragazzi saranno in grado di legare questi saperi al saper fare e sapranno riconoscerne così l’importanza anche in riferimento al loro futuro.
Siamo tutti convinti che  dietro a  ogni lavoro, qualunque esso sia, vi è sempre un progetto di vita: progetto di vita che, invece, è difficile individuare in quelle migliaia e migliaia di ragazzi che sono letteralmente espulsi, in particolare dagli istituti professionali, in mezzo alle strade, nei giardini di qualche periferia e frequentemente verso l’incontro con forme di trasgressione destinate, per dirla con Umberto Saba, ad aprire loro “solchi di dolore”: scuole che pur adottando tutte le strategie didattiche possibili non potranno tuttavia coinvolgere ragazzi e ragazze che nelle scuole, appunto, non trovano la misura giusta e idonea alle loro attese, ai loro veri talenti e perché no, alle loro stesse difficoltà che sappiamo benissimo da dove, nella maggioranza dei casi, esse provengono. E spiace constatare che il modello integrato, da quel che mi risulta oltre alla mia personale esperienza, anche a  livello nazionale non riesce a soddisfare questa fondamentale  esigenza e spiace anche constatare che ha dei costi veramente molto alti, non solo sul piano dell’evasione scolastica. Ha infatti  dei costi pesantissimi anche nello sviluppo dell’economia che potrebbe trovare proprio in un’adeguata formazione professionale l’investimento migliore  per rilanciare mestieri e professioni che fanno parte della nostra tradizione e del nostro potenziale economico e culturale: non sto naturalmente pensando solo alle professioni legate all’enogastronomia e all’ospitalità, ma anche a quelle artistiche e artigianali. Valga fra tutti l’esempio della liquidazione degli istituti d’arte che inseguendo il presunto maggior prestigio dell’istruzione liceale, sono stati, appunto, letteralmente eliminati. E anche su questo sarebbe necessario, soprattutto in Toscana, per i motivi che tutti  noi conosciamo, adoperarsi per non disperdere definitivamente saperi, competenze e maestri che rappresentano un patrimonio irrinunciabile. A tale proposito so che proprio qui a Firenze si sta pensando  di chiedere la possibilità di inserire all’interno dei licei artistici derivati dagli istituti d’arte, provvisti quindi dei laboratori e delle competenze necessarie, un percorso triennale professionalizzante nell’ambito dell’artigianato artistico. Ci stanno lavorando la dirigente dell’Istituto di Porta Romana e due colleghi del Gruppo di Firenze.
Come mi diceva, quand’ero ragazzo, un vecchio maestro artigiano (e che maestro!) un mestiere non si impara a 18 anni perché a quell’età è tardi per poter sperare di diventare, almeno in molti campi, un bravo professionista. Non a caso, tanto per fare degli esempi, la danza, la musica lo sport si iniziano da piccoli e solo iniziando da ragazzi si ha la possibilità di poter diventare in questi settori dei professionisti. Allo stesso modo non ci preoccupiamo se i ragazzi a 14 anni scelgono il liceo: decisione che spesso rappresenta anch’essa una scelta di vita definitiva, in quanto iscrivendosi ai licei si rischia di ipotecarsi il futuro con inutili  anni di università che costringono sempre più spesso e sempre in numero maggiore i nostri giovani-adulti a dover  poi subire lavori di scarso appeal e  che non richiedono una  specifica  preparazione.
 Non dobbiamo perciò temere di avviare  un ragazzo verso la formazione professionale fin dai suoi 14 anni; il diploma al quarto anno del complementare e la possibilità del quinto anno “integrativo” che apre agli studenti della formazione professionale l’ opportunità del diploma  di Stato quinquennale, rappresentano ottime occasioni per permettere a chi lo voglia, di continuare gli studi. D’altra parte ci incoraggiano verso una scelta del genere le esperienze del Trentino, ma anche numerosi esempi europei tra i quali il grosso successo di quello tedesco che assicura ai giovani un lavoro qualificato e, come accennavo sopra, un consequenziale progetto di vita.
 Insomma, non dobbiamo aver paura di educare un ragazzo fin dai suoi 14 anni al lavoro; dobbiamo aver paura, anzi il terrore, di non educarlo affatto.
Valerio Vagnoli
Per i commenti torna alla pagina precedente.