Si è tenuto ieri pomeriggio a Firenze l’incontro-dibattito
Unificare l’istruzione e la formazione professionale?, a cui hanno partecipato, oltre al
relatore principale, il professor Michele Pellerey, il sottosegretario all’istruzione
Gabriele Toccafondi e l’assessore regionale all’istruzione e alla formazione
Emmanuele Bobbio, tutte e due autori di ampi interventi. Pubblichiamo la relazione
introduttiva di Valerio Vagnoli, membro del Gruppo di Firenze e dirigente dell’Istituto
Alberghiero “Aurelio Saffi”.
Buonasera, vi ringrazio per la partecipazione e
mi fa piacere notare che diversi di voi furono presenti anche al nostro primo
convegno sulla formazione professionale del novembre 2009 all'Istituto degli
Innocenti. Dal quell’incontro uscì, di fronte alla constatazione delle evidenti
disfunzionalità del percorso statale di istruzione professionale, una proposta
ben precisa che l'anno seguente sarebbe stata fatta propria anche da 85 presidi
toscani e che consisteva nel richiedere alla costituenda Giunta regionale di
avviare in tutte le provincie e in un certo numero di istituti la
sperimentazione di percorsi triennali di formazione professionale a cui
accedere dopo l'esame di licenza media.
Le cose per un po’ andarono diversamente; la
Regione Toscana adottò infatti il sistema integrato che, seppure scelto dalla
maggior parte dei ragazzi, non ha evitato che l'abbandono scolastico
continuasse ad essere tra i più preoccupanti dell'intero Paese. Negli ultimi
anni qualcosa è iniziato a cambiare e finalmente, proprio in accordo con la
Regione, si stanno sperimentando in due istituti alberghieri dei percorsi
complementari che dal prossimo anno scolastico saranno offerti anche da altre
scuole e per altri indirizzi. La sperimentazione, come sapete, è resa possibile
grazie alle quote di flessibilità e alla condivisione delle stesse quote con
l'Ufficio scolastico regionale. In virtù di tutto ciò è possibile togliere dal
curriculum, ore di alcune discipline dell'area comune per far posto ad altre ore delle cosiddette materie di
indirizzo. Tutto all'apparenza sembrerebbe tornare, se non vi fosse alla base
la sconcertante realtà dei nostri quadri orari, che ci impongono fino a
quindici materie; e pur utilizzando l'intera quota del 25% , alla fine si può
tagliare ogni anno al massimo una disciplina e qualche ora all'una o all'altra
materia.
Quello che mi mancherà di più quando lascerò la
scuola, sarà l'incontro al mattino presto con i ragazzi nel parco-giardino che
porta all'ingresso dell'Istituto. E passando tra i tanti gruppetti di ragazzi
che, provenendo da lontano come accadde a me studente sostano fino all'ultimo
minuto all'interno dei loro capannelli, così spesso mi capita di scambiare con
loro brevi saluti e qualche battuta, e da parte loro avverto un naturale senso
di fiducia e di disponibilità ad affidarsi agli adulti, all’istituzione scuola
e anche a me che salutandoli e chiedendo loro come va, sento il dovere e la
responsabilità di rappresentarla. Un’istituzione, però, che da lì a poco
rappresenterà invece per molti di questi ragazzi la loro sconfitta, la loro
capitolazione. Alla fine della lunghissima mattinata, li sentirò scappare in
rumorosa fuga da una scuola che nel voler dar loro troppo, gli nega alla fine
la possibilità di poter apprezzare il poco, ma di grande qualità, che ogni
buona scuola deve dare ai propri allievi. E invece nei professionali tutto è
troppo: sono troppi i bocciati, troppi i DSA, troppi gli abbandoni, troppi i
disabili, troppi i docenti non di ruolo, troppi i problemi di ogni sorta e
troppe, assolutamente troppe, le discipline.
Intendiamoci, la novità di questi percorsi
complementari è comunque rilevantissima, perché costituisce un passo nella
giusta direzione, anche se non sufficiente, per dare alla formazione
professionale quel senso di completezza a cui pure aspireremmo. Ma sappiamo che
nella vita la norma non è conquistare subito il massimo. E infatti, a un anno e
mezzo dall’inizio della loro sperimentazione, si possono già cogliere alcune
criticità sulle quali è giusto riflettere. Non mi dilungo sugli aspetti
positivi, evidentissimi già nell'aver quasi
dimezzato, rispetto al percorso integrato, la percentuale di dispersione
scolastica e aver tenuto a scuola, solo in virtù delle loro ottime performance
in laboratorio, ragazzi che da tempo avremmo sicuramente perso, qualcuno magari
avviato per strade assai pericolose.
La maggiore di questa criticità è data dal
rischio di identificare questi percorsi come un'ulteriore differenziazione in
negativo dell'istruzione-formazione professionale. Già io stesso, pur attento
affinché ciò non accada, ho più di una volta accettato che alcuni ragazzi
transitassero alla fine nel percorso complementare, pur di evitare che
abbandonassero a metà della prima o della seconda classe la scuola, perché non
essendo magari ancora sedicenni non
sarebbero stati accolti nei percorsi per i cosiddetti drop-out; e non passa
settimana che qualche consiglio di classe o qualche docente di sostegno non mi
chiedano di accogliere ora uno ora l'altro ragazzo in difficoltà. Questo è uno dei motivi che consigliano di
andare verso un unico modello, che integri l'istruzione e la formazione
professionale avvicinandosi sempre più a quello trentino, che come saprete si
basa su tre gambe: i licei, l’istruzione tecnica e la formazione professionale.
Quest’ultima si sviluppa verso l’alto fino a poter approdare ad una vera e
propria alta formazione. Un modello chiaro, lineare e percepibile come
realmente efficace, anche da parte dei ragazzi e delle loro famiglie, ai fini
di una adeguata preparazione al lavoro. Solo così si potrà evitare quello che
anche da noi troppo spesso accade; e cioè che la scelta di un professionale
rappresenti l'ultima scelta, o ancora peggio, una non scelta in attesa che
accada qualcosa. Un secondo, importante motivo per puntare in
questa direzione mi pare questo: la formazione professionale è ben sviluppata
solo in poche regioni, mentre in molte altre è nel migliore dei casi
embrionale. Invece, esistono ovunque gli istituti professionali statali, con i
loro laboratori, oggi in genere sottoutilizzati, e le loro sperimentate
competenze professionali. Da questi si deve ripartire, naturalmente
“delicealizzandoli” quanto prima.
D’altra parte essi sono destinati comunque a cambiare, se diverranno
presto realtà le 200 ore annue di alternanza scuola lavoro previste dalla Buona
Scuola e se si svilupperà l’apprendistato come strumento di apprendimento e
insieme di ingresso nel mondo del lavoro. In ogni caso, bisognerà a mio avviso
superare il ruolo residuale della formazione professionale, sottoposto, per
trovare un suo spazio, al duplice filtro delle scelte regionali e di quelle in
capo a ciascuna scuola, in cui le inevitabili preoccupazioni e timori per il
proprio immediato futuro, in particolar modo dell'organico preesistente, fanno comprensibilmente velo all’interesse
della scuola nel suo insieme. A noi invece
pare una scelta strategica che dovrebbe essere offerta a tutti i ragazzi
su tutto il territorio nazionale. Capita a volte, parlando con colleghi
refrattari ad un sistema del genere, che io indichi come modello a cui guardare, proprio il
successo dell'esperienza trentina di fronte al quale, certi colleghi non potendo argomentare altre
critiche, finiscono col rispondere che essa è improponibile perché nessun altra
regione ha la fortuna di avere i finanziamenti che lo Stato trasmette al
Trentino. Nessuno si chiede però quanto
costi all’erario sostenere un modello che non funziona e che negli anni lascia per strada centinaia di miglia di studenti per i quali
dovranno poi essere attivati ulteriori e ripetuti corsi di formazione e di riqualificazione.
Per il momento il rischio che dovremmo evitare
è quello di creare confusione permettendo alla stessa scuola di affiancare al
percorso statale sia il modello integrato che quello complementare. Più in generale, quello che mi preme con forza
sottolineare è la necessità di tornare a guardare con il principio di realtà
l'anima della stessa nostra Costituzione, che si riferisce direttamente e indirettamente
ai nostri giovani laddove essa sottolinea il diritto di ciascun ragazzo ad
avere l’opportunità per crescere
secondo le proprie attese e le proprie capacità, per diventare un adulto
responsabile e civilmente consapevole. Invece il fallimento è sotto gli occhi
di tutti, o almeno di tutti coloro che non sono accecati dalle certezze
ideologiche che impediscono di vedere la realtà, di fare i conti con essa
perché tesi (in buona fede) a pianificare la vita di intere generazioni
appiattendole su un’istruzione voluta uguale per tutti addirittura fino ai 16
anni. Sarebbe questa una scelta alla fine irrispettosa dei giovani, che hanno
il diritto di fare delle scelte ben prima della loro giovinezza, prima cioè che
sia tardi per imparare bene quello che ci serve per crescere bene, sia pure
questo l'apprendimento di una professione e di un lavoro. Di quanto sia
diffusa questa mancanza di rispetto nei
confronti della formazione dei ragazzi ne è prova la recente proposta di legge
d'iniziativa popolare che prevede addirittura un biennio unico con qualche ora
orientativa e nessuna funzione della formazione professionale se non dopo i 18
anni. Positivi invece sono i punti presenti nel documento governativo in
relazione alla valorizzazione del rapporto tra scuola e lavoro, anche se,
purtroppo, nulla si dice in tutto il documento su una condizione che deve
essere ineliminabile per tutti gli indirizzi scolastici; e cioè un richiamo
forte all'impegno e alla serietà con cui, nel loro stesso interesse, gli
studenti devono affrontare qualunque percorso scolastico, perché è solo la
carenza di preparazione che separa le persone e le proietta verso un futuro più
o meno svantaggiato. Non è il lavoro diverso che si troveranno a svolgere a
farli cittadini più o meno dotati di dignità, ma come lo faranno e con quale
consapevolezza e preparazione lo sapranno fare. Nessuno di noi, tantomeno il
sottoscritto, vorrebbe cancellare l'importante ruolo formativo che hanno le
cosiddette materie di base e comuni a tutti, e fra queste si deve senz'altro
oggi annoverare anche la lingua inglese. Ma da insegnante avvezzo a lavorare
con ragazzi refrattari alla scuola, quella tradizionalmente intesa in quanto
impegnata a trasmettere importanti saperi di base, posso invece dire con tutta
franchezza che questa cultura è spesso recuperabile solo se prima appassioniamo
certi studenti a qualcosa di pratico, di concreto. Negli anni successivi si
potrà fare leva su questa passione per far poi loro apprendere concetti
fondamentali del sapere astratto, ancora non fatto odiare del tutto, come
spesso accade con l’attuale struttura dei professionali.
Non sto a ripetere quello che da anni ho
scritto e detto sulla insufficienza, che in alcune regioni arriva addirittura
all'assenza, della nostra formazione professionale: peraltro oggi molto meglio
di me ne parleranno altri, in primo luogo il professor Pellerey.
Ora, seguendo da molti anni, direi da
decenni, l’istruzione e la formazione
professionale, difficilmente troviamo, tra coloro che sostengono la necessità
di una scuola uguale per tutti almeno fino ai 16 anni, indicazioni convincenti
su come superare la catastrofe didattica di cui vi ho parlato poco fa. Salvo il
rimandare il problema della formazione ad età comprese tra i 16 e i 18 anni o
all'utilizzo della didattica laboratoriale, sarà difficile trovare proposte
credibili e realistiche circa il dramma dell'evasione scolastica. E gli stessi
dovrebbero pur dirci qualcosa a proposito degli effetti di questo prolungamento
dell'adolescenza, in Italia più accentuato che in altri paesi, o forse meglio
dire che in tutti gli altri paesi del mondo, e non lasciare solo alla ex
ministra Fornero o al compianto Padoa Schioppa il compito di sollevare per un
attimo, con una battuta, il velo su questa situazione. Bisogna in ogni caso
rifiutare l’idea che si è cittadini veri e fortunati solo se abbiamo studiato
ai licei. Agli sfigati i lavori manuali, come era scritto e rimasto a lungo ben
in vista lo scorso anno alla finestra di un'aula della scuola ( tecnico e liceo
) dirimpettaia alla mia. Senza parlare poi delle prevenzioni e dei pregiudizi
che resistono tra alcuni docenti delle medie: come dimenticare l'umiliazione
subita da una ragazzina, lo scorso anno, che avendo la media del dieci fu
aspramente redarguita dalla sua docente di lettere perché avrebbe sprecato la
sua intelligenza, se si fosse iscritta, come poi avvenne, all'Istituto
alberghiero! E qui
in sala i docenti dei professionali che fanno orientamento alle medie ne
avrebbero di storie da raccontare!!!
Da anni sembra diventata un sorta di mantra
l'idea che sarà la didattica laboratoriale, beninteso importante, a salvare i
ragazzi dai loro fallimenti scolastici. Credo però che insieme a questa vadano
ripresi altri modelli di apprendimento, senza escludere quello ripetitivo. Un
apprendimento che per certi luminari della pedagogia istupidisce la mente. Ma
negli istituti professionali tedeschi, che ho visitato di recente, viene invece
considerato indispensabile, perché solo attraverso l’esercizio più volte
ripetuto è possibile affinare la tecnica, immedesimarsi alla fine col lavoro
che facciamo. Gli studenti di musica e
tutti i bambini che fanno sport, o che si cimentano per la prima volta con un
nuovo gioco, sanno bene quanto sia fondamentale l'esercizio ripetitivo per
diventare sempre più competenti nelle attività e nelle discipline che si
affrontano. È in particolare grazie alla mano che molte cose, molti concetti
entrano nella nostra testa. Ed invece è
proprio la mano, il lavoro manuale, beninteso finalizzato anche a riscrivere
esercizi e costrutti di ogni sorta o finalizzato al disegno, che abbiamo voluto
bandire ad ogni costo dalle aule scolastiche trasformando anche gli istituti
professionali in quella sorta di casa degli orrori formativi che sono, appunto,
oggi, certi istituti professionali. Limitandomi all'unico professionale che
conosco, direi, abbastanza bene, non ho timore di alcuna smentita
nell'affermare che alla fine dei cinque anni, magari anche in presenza di
pluriripetenze, la maggioranza dei ragazzi che escono col diploma di sala e
cucina rifiuta d'impiegarsi, pur essendovi nel settore ampie possibilità
d'impiego. Noi stessi che gestiamo un nostro ristorante scolastico e che
abbiamo, ingrandendoci, necessità di assumere altri ex nostri studenti, incontriamo grandissime difficoltà non dico a
selezionare, ma addirittura a trovarne qualcuno disposto a impiegarsi pur a
tempo indeterminato e con l'assoluta certezza che non andrà incontro a nessun
tipo di sfruttamento. Queste sono le conseguenze dell’aver voluto a suo tempo
sostituire la tradizionale eccellente formazione alberghiera con una sorta di
liceo professionale che aprisse a tutti i diplomati la possibilità di accedere
a qualsiasi facoltà universitaria, ma purtroppo non ad un lavoro qualificato. In
nome della superiorità della cultura diciamo così astratta, per decenni alla
fine della terza si è chiuso qualsiasi rapporto con le attività di laboratorio
(solo dall’anno scorso ci sono due ore di laboratorio alla settimana),
demandando l'esperienza pratica a due-tre settimane di tirocinio per ciascun
rimanente anno. Le medesime due-tre settimane di tirocinio annuale che mi
sembra siano rilanciate nella proposta di legge d'iniziativa popolare a cui
accennavo poco fa.
Si possono immaginare le conseguenze di tutto
ciò sul turismo e sulla qualità dell'ospitalità anche gastronomica, tanto che
ogni anno, anche per questo, scivoliamo sempre più in basso nelle graduatorie
internazionali. Tanti turisti stranieri, spesso
i migliori perché viaggiano osservando oltre che consumando,, rimangono
sbalorditi dal pessimo servizio che in genere incontrano in questo Paese nei ristoranti, nei bar e negli hotel ove pur
pagando, sembrano trattati da chi riscuote come se si trattasse di ruoli
invertiti. Ma una approssimazione nella preparazione professionale in genere
non reca s danni soltanto all’economia e
all’occupazione. Gli istituti
professionali hanno il fine d'insegnare ai ragazzi a svolgere bene un lavoro e,
citando Richard Sennet “a mettere in grado gli individui di governarsi e dunque
di diventare bravi cittadini. La cameriera industriosa tenderà a dimostrarsi
una brava cittadina assai più della sua annoiata padrona. […] Nel corso della
storia moderna, la convinzione che il lavoro ben fatto sia il modello di una
cittadinanza consapevole andò deformandosi e pervertendosi, per finire nelle
vuote e deprimenti menzogne dell'impero sovietico. […] Il nostro intento è
quello di recuperare in parte lo spirito dell'Illuminismo adattandolo al nostro
tempo. Vogliamo che l'attitudine al fare, che è comune a tutti gli uomini, ci
insegni a governare noi stessi e a entrare in relazione con altri cittadini su
tale terreno comune”. ( L'uomo artigiano, Feltrinelli ) Così Richard Sennet!
Per quel che mi riguarda, non rinuncio a
sperare che quanto prima i miei studenti che saluto al mattino prima di entrare
a scuola abbiano addosso, all'uscita, solo la fretta per la corriera che parte
e non la rumorosa rabbia di chi non ha avuto quello che si aspettava dalla sua
scuola, dalla nostra scuola. I modelli per cambiare esistono, in Italia e in
altri paesi europei, ed esistono le persone in grado di farlo. E deve alla fine
pur esistere la concreta consapevolezza che la scuola professionale ha il
compito straordinario di trasmettere ai ragazzi il senso
più profondo di sé e il loro talento nel
fare bene il lavoro che fanno, il lavoro
che faranno. Ed è questo e solo
questo, per dirla con Vittorini, che fa l'uomo più uomo, e può rendere
un’adolescenza ricca di aspettative e di contentezza di se stessi. Così i
ragazzi restituiranno alla collettività, che ha investito su di loro, la
certezza di essere dei bravi cittadini perché aiutati a trovare la loro strada
senza, appunto, abbandonarli alla strada,
come non è più tollerabile debba continuare ad accadere.
Beata la
scuola e la società che contribuiranno a formare cameriere industriose
piuttosto che persone frustrate e annoiate come spesso, sempre più spesso
invece accade.
Valerio Vagnoli