Intervento di Giorgio Ragazzini del Gruppo di Firenze all'incontro-dibattito La normativa sui bisogni educativi aiuta la scuola?, tenutosi giovedì 12 novembre a Firenze.
1. L’illusione procedurale
Negli anni novanta si cercò di impiantare nelle
elementari e nelle medie una metodologia di origine industriale, la
programmazione per obbiettivi. Per ogni materia e anche negli ambiti comuni
alle diverse discipline, si dovevano stabilire decine di obbiettivi e
sotto-obbiettivi, da calendarizzare, corredare di mezzi e strumenti e poi verificare nel corso dell’anno. E
questi obbiettivi esondarono poi nelle schede di valutazione, al punto che i
colleghi delle elementari ne dovevano valutare ben 44 a quadrimestre, fino a
quando Berlinguer (almeno in questo – va detto – benemerito) fece piazza
pulita. C’era chi mi diceva “Beh, finalmente anche certi insegnanti saranno costretti a lavorare”. Ma naturalmente non
era così: si potevano produrre bellissime programmazioni, magari scopiazzandole
qua e là, che poi rimanevano sulla carta.
Questa moda
pedagogica mi è tornata in mente per una caratteristica che la accomuna con le
disposizioni di cui ci occupiamo oggi (e potrei citare altri esempi, come il
fallito tentativo di introdurre il cosiddetto “portfolio delle competenze”). Ed
è l’illusione, che definirei “procedurale”, per cui i problemi si possono
risolvere attraverso un insieme di prescrizioni, con un iter burocratico. Si varano
delle linee guida, si costituisce una molteplicità di gruppi e comitati (non
importa se pletorici e di scarsa qualificazione), si fa riferimento a organismi
di supporto non si sa quanto già esistenti
e quanto futuribili, infine si riunisce il Consiglio di Classe, che, tenendo
conto di tutto questo, dovrebbe decidere se fare o no il PDP, il piano
didattico personalizzato.
Come
altre volte in passato, ho la sensazione che dietro l’impalcatura delle norme, che
rischia di riuscire solo a gravare gli insegnanti di adempimenti burocratici,
ci sia la convinzione ministeriale che altrimenti molti docenti non abbiano la volontà,
più ancora che la capacità, di fare qualcosa per aiutare gli allievi in
difficoltà e che quindi debbano essere costretti a lavorare secondo una
metodologia dettata dal ministero o meglio da un gruppo di pedagogisti che
ruotano intorno al ministero.
2. Motivare e demotivare.
Questo
ci porta direttamente a porsi una domanda: al ministero lo sanno che in
qualsiasi organizzazione uno dei compiti della dirigenza è quello di saper motivare chi ci lavora, tanto più se si tratta
di un mestiere tra i più difficili e logoranti (anzi uno dei tre mestieri “impossibili”,
diceva Freud)? Sembra proprio di no, perché da molto tempo a questa parte hanno
fatto di tutto per ottenere il risultato opposto, l’aumento della disaffezione
e dello scoraggiamento!
Cito
solo l’episodio più clamoroso: dopo una brutale riforma pensionistica, sulle
cui conseguenze quanto a stress professionale il Miur non ha sentito l’esigenza
di fare almeno un’indagine, un ministro della pubblica istruzione è arrivato a
certificare ufficialmente di fronte alla nazione che quello dei docenti è un
part time, per cui è ovvio e perfettamente lecito aumentargli - su due piedi - di
un terzo l’orario di lavoro, s’intende senza incrementi retributivi di sorta.
Da
questo punto di vista, quale messaggio danno la direttiva e le circolari sui
BES? Potenziano e sostengono i docenti? Li valorizzano? O li rendono più
preoccupati, più incerti, più timorosi di possibili ricorsi, più inclini a risolvere
i problemi abbassando ulteriormente l’asticella?
Preoccupazioni e
interrogativi che (anche un po’ inaspettatamente) sono simili a quelli di un pedagogista come
Maurizio Tiriticco, sostenitore convinto di individualizzazione, personalizzazione,
insegnamento per competenze e didattica laboratoriale, che ritiene superflua e
anzi dannosa questa normativa. Dopo aver notato che a questo punto qualsiasi
cosa può diventare un BES, dice:
“Invece di intimidire i nostri insegnanti come se
fossero degli sprovveduti di fronte ai bisogni educativi di ogni tipo, si provveda a sostenerli stanziando le
necessarie risorse!
Dopo decenni di tagli, vogliamo anche colpevolizzarli
perché sarebbero incapaci di affrontare situazioni di disagio?
Intimidiamoli
con i Bes, e il gioco è fatto!!!
L’amministrazione è salva!
E ancora: “Poiché per ogni alunno BES occorre un Piano di Studi Personalizzato, quindi
orientato a competenze di livello inferiore a quelle delle Indicazioni
Nazionali, il rischio è che…l'ignoranza dei nostri studenti e dell’intera
popolazione aumenti!!!
E infine: “Si
vuole andare verso una scuola “più facile?”.
3. La
responsabilità del discente
Il terzo punto a cui vorrei accennare è la scomparsa dei ragazzi svogliati. Dove
sono finiti? Risposta: non sono scomparsi, sono diventati tutti, senza
eccezione, ragazzi che la scuola è incapace di motivare. In altre parole, siamo
passati in poco tempo da un’istituzione che esigeva l’impegno degli allievi e si interrogava troppo poco su se stessa, a
quella di oggi che ritiene sempre un proprio fallimento l’insuccesso
scolastico. Nella riflessione pedagogica ministeriale e nei suoi provvedimenti,
l’iper-responsabilizzazione della scuola è andata di pari passo con la più o
meno completa de-responsabilizzazione dei ragazzi. Manca del tutto e da tempo
il tema dell’impegno, della volontà, dello sforzo che la scuola deve richiedere,
pena l’abdicazione dalla sua funzione formativa.
Torno brevemente a Freud e ai tre mestieri
impossibili, che sono governare, educare, psicoanalizzare. In che senso Freud diceva
che sono impossibili? Lo diceva nel senso che il risultato non è garantito senza
la collaborazione del soggetto a cui è rivolta l’attività del governante,
dell’educatore, dello psicoanalista. Era una messa in guardia rispetto alle
illusioni di onnipotenza. Il ferro, il legno, l’argilla, materiali dei mestieri
“possibili”, possono essere manipolati a piacimento; i bambini no, per non
parlare degli adolescenti. Ci vuole anche la loro partecipazione attiva.
Naturalmente è ovvio che parte integrante dei compiti dell’istituzione
educativa è la ricerca di un suo continuo miglioramento, tuttavia è essenziale
che ogni ragazzo abbia il sentimento della responsabilità individuale rispetto ai propri successi e ai
propri insuccessi. Adolfo Scotto di Luzio scrive a questo proposito che abbiamo
a che fare con una pedagogia in cui “l’esito è concepito non come il risultato –
da conseguire, e dunque sempre incerto –dell’impegno di un individuo in carne e
ossa, ma come lo sbocco prevedibile di un sistema ben congegnato”. Qualcosa di
molto simile all’illusione di cui ho parlato all’inizio.
Allora io faccio fatica a comprendere che cosa significa fare un Piano
Didattico Personalizzato a uno studente che si rifiuta di studiare. Anche
perché contemporaneamente viene sempre più accarezzata l’idea luminosa di
garantire la promozione a tutti, eliminando così anche quel tanto di deterrenza
costituita dall’ “inutile”, anzi “dannosa” e soprattutto antieconomica
bocciatura. Con l’ulteriore vantaggio che in questo modo il problema sparisce. Poi
ci sarebbe un’alternativa alla ripetenza così com’è, ma non è il caso di
parlarne in questa sede.
4. La crisi
ignorata
Ma se allarghiamo lo sguardo, vediamo che dall’orizzonte della pedagogia
ministeriale non è assente soltanto il tema dell’impegno. È assente in blocco
il tema dell’educazione in senso proprio; e lo è anche nella direttiva e nelle
circolari sui BES. Nelle quali i “bisogni educativi” sono in realtà sinonimi di
“difficoltà di apprendimento”, mentre paradossalmente non viene sfiorata neppure
per un attimo proprio la crisi dell’educazione. Non pochi bambini arrivano alla
scuola dell’infanzia senza aver fatto minimamente i conti con il principio di
realtà, che dell’educazione è il fondamento. E di cosa è fatta la realtà? È
fatta della presenza degli altri bambini con cui bisogna imparare a convivere;
è fatta di regole da rispettare affinché la scuola funzioni, di limiti ai
desideri individuali. Questo accade perché molti genitori, disorientati
dall’assenza di una tradizione educativa condivisa e spesso afflitti dalla
paura di non essere abbastanza amabili, sono stati indotti – come scrive il
pediatra e psicanalista Aldo Naouri – a trasmettere ai figli un messaggio
opposto al principio di realtà: «Non solo puoi avere tutto, ma ne hai anche
diritto».
Privi di
una sufficiente educazione di base, questi bambini diventano un grosso problema
per la scuola; e tanto più lo sono i cosiddetti “bambini tiranni”, quelli che
hanno preso il potere in famiglia e che cercano di imporre anche in classe la
loro volontà: tendono a fare quello che vogliono, non sanno stare fermi, non “danno
retta”, come si dice a Firenze, e quindi fanno perdere un’enorme quantità di
tempo e di energie agli insegnanti. Diventano poi preadolescenti intrattabili e
supponenti nelle scuole medie e spesso naufragano alle superiori.
Mi
chiedo: con questo tipo di bambini e di ragazzi che vanno male a scuola perché
non abituati alla costanza dell’impegno in vista di un risultato; che non stanno
attenti perché tutti presi da se stessi, con cui probabilmente è già fallito
più di un tentativo di interessarli, quale Piano Didattico Personalizzato è
immaginabile, se non quello di abbassare gli obbiettivi fin quasi al livello
zero?
Sono anzi
convinto che una causa non secondaria di molte forme di “BES” e della loro
cronicizzazione sia proprio la rimozione di questo tema da parte del governo
della scuola e della cultura pedagogica prevalente. E si illude chi pensa che i
problemi di comportamento possano essere completamente riassorbiti da una
didattica più accattivante, più moderna.
È quindi indispensabile che, sia pure con grave ritardo, la scuola a tutti
i livelli, a partire dal vertice, si faccia carico in modo esplicito e
responsabile del problema educativo, nella convinzione che si tratta delle
fondamenta stesse della formazione.
Sentite cosa dice l’Ocse nella sua analisi dei dati PISA 2012. Cito dalla
sintesi che si trova sul sito dell’Associazione Docenti Italiani (ADi):
(Focus n. 4) La
disciplina della classe sembra avere grande influenza sul livello degli
apprendimenti. Dove la disciplina è allentata, gli insegnanti sprecano tempo e
gli studenti non sono concentrati anche a causa delle numerose interruzioni.
A
queste conclusioni PISA è arrivata a partire dai dati di tutte le rilevazioni;
(Focus 32) La
maggior parte degli studenti è contenta quando c’è la disciplina in classe. [Quindi si sta
meglio a scuola, si ama di più la scuola]
Le classi in
cui vige la disciplina di solito hanno risultati migliori, indipendentemente
dalle condizioni socio-economiche degli allievi. [Con la
disciplina, una scuola più giusta socialmente]
In sostanza abbiamo una riforma a costo zero a disposizione solo che la si
voglia e la si persegua con perseveranza: una scuola che ridia autorità agli
insegnanti e sappia fare l’interesse dei ragazzi riscoprendo e coltivando la virtù
della fermezza educativa. E riscoprendo anche il ruolo delle sanzioni, previste
in ogni modello educativo che sia tale.
Pochi giorni fa ho letto un libro-intervista a Massimo Recalcati,
psicanalista lacaniano, a cura di un giornalista del Manifesto, a cui lo stesso
intervistato collabora. A un certo punto Recalcati sostiene che esiste senza
dubbio “il diritto a essere puniti”, facendo naturalmente trasecolare l’intervistatore.
E spiega: “Ti faccio l’esempio di una
mia paziente cleptomane che ruba nei supermercati. […] Il suo passaggio
all’atto del furto è l’invocazione che esista un adulto, qualcuno, un padre, un
poliziotto, una cassiera, che le dica: “Fermati, hai rubato!” […]
Ecco, anche un allievo “onnipotente” spesso non desidera altro, in fondo,
che essere fermato.
5.
Un’alternativa
Detto questo sul fronte educativo, vengo infine a un
abbozzo di modello alternativo a quello che ci viene proposto da queste norme
per affrontare le difficoltà di apprendimento. È molto semplice. Fare come
nelle altre professioni: quando un medico generico si trova in difficoltà si
rivolge o a un collega più esperto di lui o a uno specialista, oppure invia a
quest’ultimo il paziente. Uno psicoterapeuta va dal suo supervisore e gli
chiede consiglio su quel certo caso.
Quindi anche nella scuola, via le formalità burocratiche, via le procedure,
via i Piani Annuali per l’Inclusività e tutto quello che
rischia di essere solo generico e declamatorio; sì all’estensione
di qualificati servizi di consulenza (il logopedista, lo psicologo, il neuropsichiatra,
l’assistente sociale). Con formalità ridotte al minimo e naturalmente nel
rispetto dei due diversi ruoli. Da un modello, quindi, che per più motivi
appesantisce il lavoro dei docenti a uno che lo alleggerisce e lo sostiene. È
quello che avviene, per esempio, in Finlandia, dove gli insegnanti possono
consultare frequentemente figure di supporto e appunto di consulenza.
Vale anche la pena di ricordare che soprattutto nella scuola secondaria
manca un elemento essenziale della cultura professionale, che invece dovrebbe
essere intensamente promosso, cioè il sistematico confronto di carattere
seminariale, dunque fra pari, come fonte di arricchimento, di scambio di
esperienze, come base dell’aggiornamento e come occasione di aiuto reciproco
nell’affrontare i casi difficili.
Infine, questa impostazione tiene conto, a differenza di quella prospettata
da queste norme, del fatto che molto spesso le difficoltà di apprendimento di
un ragazzo si radicano in situazioni esterne alla scuola, soprattutto nella
situazione familiare; ed è ovviamente in queste situazioni, più che
direttamente sul piano didattico, che si deve cercare di intervenire con assistenti sociali, psicologi e servizi
educativi esterni.
Ecco, penso che sia in questa direzione che dovremmo far sentire la nostra
voce.
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