martedì 26 marzo 2013

PIRANI TORNA ANCORA SUL NODO VALUTAZIONE

Mario Pirani torna a parlare di scuola, come ha fatto tante volte meritoriamente: valutazione, mancanza di ispettori in Italia, selezione in base al merito nelle iscrizioni a scuole superiori con eccesso di iscritti. Con l’occasione chiarisce correttamente che il Manifesto dei 500, da lui criticato nella scorsa “Linea di confine”, non ha niente a che fare con il Gruppo di Firenze. A proposito della nostra opinione sul “concorsaccio” di Berlinguer, il passaggio che ne parla è tuttavia risultato poco chiaro, tanto da far pensare erroneamente che il nostro giudizio sull’iniziativa di Berlinguer sia positivo. Essere favorevoli alla valutazione dei docenti non significa però accettare qualsiasi modalità venga proposta. E anche il retribuire di più chi fa lo stesso tipo di lavoro può innescare dinamiche negative nel corpo docente, come ha dimostrato l’esperienza inglese. (GR)  Leggi.
Per commentare, tornare alla pagina iniziale.

mercoledì 20 marzo 2013

PICCOLI ESTORSORI CRESCONO. PER DON CIOTTI È COLPA DELLA SCUOLA

Tre giovani studenti  di Pontassieve, ispirandosi a qualche film, ma forse anche a fatti reali, hanno cercato, per fortuna senza successo, di  trasformarsi in baby estorsori. Interpellato dal “Corriere Fiorentino”, don Luigi Ciotti, a Firenze per la marcia di “Libera”, ha individuato immediatamente i veri colpevoli: naturalmente la scuola e in generale la cultura che “ non sveglia le coscienze”.

Pontassieve non è il Bronx. Casomai è un paese che non ha più niente del “ paese di una volta” e la scuola, addirittura quella superiore, è a portata di mano e non obbliga più i ragazzi ad andare a Firenze alzandosi alle sei del mattino. Nonostante  questo,  a differenza dei loro compagni di tanti anni fa, anche la scuola di Pontassieve è tuttavia vissuta da qualcuno di questi ragazzi come un castigo.  Forse per qualcuno di loro sarebbe diverso   se avesse a portata di mano  la possibilità di dimostrare la sua bravura in qualche autentico percorso professionale. La scuola, invece, da qualche decennio – e per volontà di poco lungimiranti legislatori – ha avuto il compito di sostituirsi praticamente alla vita: innanzitutto alle famiglie, che spesso non sono in grado di gestire la trasgressiva voglia di autonomia che certi ragazzi rivendicano in anticipo e senza rispettare le “tappe” scandite dai riti e dai ritmi normali della loro crescita. E la scuola è chiamata a tappare le falle della classe politica, che non è stata in grado di pensare ad una società ove i ragazzi avessero i loro spazi e i loro ruoli anche al di fuori della scuola stessa; molto più facile, per gran parte del nostro dozzinale ceto politico, delegare alle scuole il compito di gestire il tempo libero dei bambini e dei ragazzi destinandole così ad essere una sorta di surrogato degli oratori che un tempo funzionavano, eccome, sia a Pontassieve che in altri paesi. Insomma, è come se    fosse possibile entrare nella vita quasi esclusivamente attraverso il tempo segnato dal suono della campanella.  Naturalmente quando accadono fatti come quelli riportati sabato scorso dalla stampa, non solo locale, ecco pronta la più banale, retorica, scontata e avvilente delle spiegazioni: la scuola non è stata in grado di fare la propria parte ed è nella scuola che si devono trovare le responsabilità a tutte le problematiche che attossicano, è proprio il caso di dirlo, la vita di tanti ragazzi. In questa banalità è incorso anche don Ciotti che sul “Corriere Fiorentino” si è lasciato andare alla seguente dichiarazione “In questi momenti bisogna chiederci qual è il ruolo della scuola e della cultura, una cultura che deve svegliare le coscienze”. Ecco, se don Ciotti si fosse limitato ad esecrare il comportamento dei ragazzi (avranno pur loro, insieme alle rispettive famiglie, delle responsabilità, se gli altri loro compagni, per fortuna la stragrande maggioranza, se ne guardano bene dall’andare a chiedere il pizzo ai negozianti!), avrebbe  reso un servizio migliore alla “persuasione” piuttosto che, come ha invece fatto, alla rettorica. Perché se c’è una scuola, almeno in Toscana, che rappresenta un modello per l’impegno che  profonde nella formazione civile dei ragazzi è proprio quella di Pontassieve. In particolare il collega che dirige  l’istituto da cui provenivano i tre studenti  emuli di un trito modello camorristico ( forse grazie a qualche pessimo serial televisivo) è per me e per molti altri un vero e proprio punto di riferimento per come  è attento alla crescita civile e morale dei “suoi” studenti. Anni fa è stato il primo, e forse ancora oggi l’unico, ad attuare un progetto finalizzato a recuperare, nei bar e alla stazione, i ragazzi che marinavano la scuola; ed è una persona che della scuola ha fatto una ragione di vita. Mentre don Ciotti si lasciava andare a quelle banalissime riflessioni sopra riportate, quel dirigente scolastico stava sfilando con molti dei suoi studenti nel corteo organizzato a Firenze proprio da “Libera”. Questo Paese, non solo Pontassieve naturalmente, deve molto alle persone come don Ciotti, ma anche al lavoro costante, duro e silenzioso di persone comuni e prive di notorietà, convinte che lavorare bene significa lavorare pensando anche al bene degli altri e che il bene degli altri lo si fa anche misurando le parole.  Tra questi vi è senz’altro il mio collega del Balducci.  Conoscendolo da molti anni, non gradirebbe che qui venisse fatto il suo nome, tanto poco ha a cuore la notorietà.  Certamente gradirebbe, come me, che del mondo scolastico si parlasse  evitando di ricorrere a pregiudizi e a banalità offensive  come ha fatto in questa occasione il fondatore di “Libera”.  (VV)

 Per commentare torna alla pagina precedente.

mercoledì 6 marzo 2013

LA RISPOSTA ALLA LETTERA APERTA AI PARTITI DI ERIKA FRANCHI E TOMMASO VILLA DEL PDL TOSCANO

Premesso che la scuola è per definizione una cosa “seria”, altrimenti non è scuola, apprezzo lo sforzo che il Gruppo ha profuso per la predisposizione del documento sottoscritto da numerosi esponenti di rilievo della società civile e tento di dare risposte sintetiche a domande, altrettanto sintetiche, che aprono però scenari di ampiezza sconfinata.

1. Riconoscimento del lavoro degli insegnanti. Saranno riconosciute agli insegnanti la difficoltà e la delicatezza della loro professione o si continuerà ad additarli all’opinione pubblica come lavoratori part time, come dimostra il recente tentativo del governo di aumentare di un terzo l’orario di cattedra?
Il riconoscimento sociale ed economico della categoria passa attraverso la riconquista da parte dei singoli del proprio ruolo morale, professionale e sociale. Per questo la professione docente non può più essere considerata un ammortizzatore sociale, ma deve diventare protagonista riconosciuta del sistema di istruzione e formazione dei giovani. In sintesi: più professionalità, maggior carico di lavoro, maggior retribuzione corrispondente e politiche di qualità del servizio e non di mera occupabilità.
Ricordo che la proposta del governo di centrodestra prevedeva un incremento del tempo dedicato alla lezione frontale, ma anche un congruo riconoscimento economico. L’attuale permanente proletarizzazione, frutto di politiche sindacali esclusivamente tendenti ad allargare la base occupazionale, non può certo contribuire a cambiare la visione del docente nell’opinione pubblica.

2. Libertà metodologica. Verrà assicurata agli insegnanti la piena libertà di scegliere le metodologie che ritengono più efficaci o si cercherà di imporre teorie calate dall’alto, come è successo negli ultimi decenni?
Siamo favorevoli alla libertà metodologica, quale elemento caratterizzante delle scelte educative, ovviamente se sostenuta da un aggiornamento costante dei docenti, anche di tipo individuale, ma comunque nell’ambito di obiettivi condivisi a livello nazionale coerenti con i modelli europei. Pertanto, anche in questo caso, non si può prescindere dalla misurazione degli standard e dalla valutazione delle performance.

3.  Funzione del docente. Si intende valorizzare il ruolo dell’insegnante come guida nella scoperta del nostro mondo e del suo patrimonio culturale oppure trasformarlo, come ha sostenuto di recente anche il ministro Profumo, in un “facilitatore” dell’autoapprendimento degli allievi?
La funzione dei docenti è delicata, multiforme e complessa, tale da non potersi concludere in una singola funzione o una generica definizione di “scoperta del nostro mondo” o di “trasferimento di patrimoni culturali” o di semplici azioni di “facilitazione”. Essa è tutto ciò e molto altro ancora, ovviamente se intrapresa con la coscienza del ruolo e della funzione, coscienza che non si può coniugare con una massificazione indistinta del ruolo del docente ed una pauperizzazione della sua figura.
Il concetto di facilitatore, non certo dell’autoapprendimento, bensì dell’apprendimento, rappresenta comunque una parte innovativa e fondamentale della funzione docente, fondamentale per l’inserimento dei giovani nel contesto sociale e nel mondo del lavoro in particolare. Questa funzione diventa fondamentale in un contesto multiculturale qual è quello che si prospetta nel nostro Paese.
 
4.  Priorità nella valutazione di docenti e dirigenti. È più giusto e più utile alla qualità della scuola garantire a tutti gli allievi degli insegnanti e dei dirigenti adeguati – prevedendo in caso contrario i provvedimenti opportuni – o limitarsi a premiare quelli eccellenti, che continueranno comunque a lavorare bene?
La valutazione deve essere vista come un’opportunità di crescita individuale e collettiva.
Non esiste un’eccellenza astratta, ma una conformità dei risultati conseguiti agli obiettivi prefissati collegati alla mission della scuola. I docenti devono essere sostenuti nei percorsi di miglioramento individuale al fine di garantire standard di sistema che consentano a tutti i giovani di conseguire le competenze atte a competere sul mercato globale e ad interagire correttamente nel contesto sociale.
L’eccellenza consiste, nella nostra visione, nella capacità di ottenere risultati che garantiscano il massimo successo e quindi la massima efficacia dell’azione formativa in funzione degli obiettivi fissati per i diversi segmenti formativi. L’eccellenza è anche riuscire ad evitare la dispersione scolastica in contesti difficili, favorire l’alfabetizzazione dei “nuovi italiani”.
In quanto al premio mi pare che l’attuale sistema retributivo non preveda premi per nessuno. Iniziare a premiare chi raggiunge gli obiettivi e chi si impegna per il loro raggiungimento è utile per gli studenti, utile per la società e costituisce una forte leva motivazionale per docenti e dirigenti.

5. Valutazione degli istituti. Per avere scuole che funzionino è più sensato attivare regolari controlli ispettivi sulla loro efficienza e correttezza o complessi e costosi sistemi di valutazione?
Premesso che gli ispettori – in questo momento storico – sono pochi ed in via di progressiva riduzione, essi svolgono ruoli di indagine e supporto. Per competere sul mercato globale è invece fondamentale che il sistema sia in grado di misurare  le prestazioni individuali e delle singole istituzioni scolastiche in chiave europea. Il confronto con i sistemi formativi degli altri Stati dell’Unione non può essere evitato e deve essere “misurato” con strumenti omogenei.
La valutazione ispettiva è soggettiva e al massimo si può limitare alla misurazione dell’efficienza formale, la valutazione di sistema è invece legata alla misurazione del livello di efficacia del sistema di istruzione che la singola scuola è in grado di conseguire.
Un sistema efficiente è corretto in quanto perfettamente funzionante può essere assolutamente inefficace se non consegue agli standard di sistema previsti a livello nazionale ed europeo. E’ ovvio che per tenere sotto controllo la adeguatezza rispetto agli standard il modello organizzativo non è semplice ed è certamente strutturato, ma la sua funzione della valutazione è quella di fornire alle scuole ed ai singoli docenti e dirigenti le informazioni utili per pianificare piani di miglioramento e gli interventi corrispondenti. In questa logica possono trovare spazio nuove figure di supporto che poco però hanno a che spartire con la “vecchia” figura dell’ispettore-censore.

6.  Dare valore alla formazione professionale. L’insuccesso scolastico di tanti ragazzi all’inizio delle superiori si combatte ampliando il numero delle scelte possibili, compresa una qualificata formazione professionale, o obbligandoli tutti a un biennio comune, come sostengono alcuni?
Il modello della formazione professionale è un modello complesso in quanto lega strettamente l’offerta formativa con la domanda di lavoro. Un corretto modello di formazione professionale dovrebbe rovesciare la relazione: è la domanda di lavoro che determina l’offerta formativa e non viceversa, perlomeno nelle sue componenti specialistiche e vocazionali, cui vanno associati gli elementi formativi di base. Questo richiede un modello orientativo precoce, una rivalorizzazione del lavoro – compreso quello manuale – quale valore positivo del posizionamento sociale.
Certo che in un paese in cui gli operai hanno i salari più bassi d’Europa, pensare al lavoro manuale, al “mestiere”, come elemento positivo di qualificazione sociale rimane certamente ancora utopico.

7. Aggiornamento. L’aggiornamento degli insegnanti, elemento indispensabile per la crescita professionale, sarà finalmente basato sullo scambio sistematico di esperienze tra chi opera sul campo oppure soltanto sul contributo di esperti (che poi non sempre si rivelano tali)?
L’aggiornamento costituisce l’elemento portante di tutte le professioni. Un professionista che non si aggiorna perde rapidamente le sue competenze e diventa obsoleto come le sue teorie.
Contratti collettivi paralizzanti hanno reso la professione docente una riserva di lavoro a basso costo, completamente deprivato dalla valorizzazione delle competenze individuali. In tale contesto l’aggiornamento è diventato una pratica invisa in quanto un professionista competente aumenterebbe il suo valore sul mercato e ciò rappresenta un controsenso rispetto all’attuale sistema retributivo basato quasi esclusivamente sull’anzianità e non sulla competenza. Pertanto prima di parlare di quale modello di aggiornamento è necessario rivalutare l’aggiornamento quale pratica essenziale della funzione docente valutabile ai fini retributivi in quanto elemento fondamentale della performance individuale e collettiva. Si parla da decenni di “longlife  learning”: sembra che questo concetto sia alla base di tutte le strategie di sviluppo delle società (e sicuramente lo è): stranamente esso sembra sradicato proprio dalla professione fondamentale per il “learning”, quella dell’insegnante.
Quale scambio di esperienze si può avviare fra soggetti per i quali l’aggiornamento non costituisce un valore riconosciuto a livello sistemico?

8.  Educare i ragazzi alle regole. Nei programmi dei partiti si dirà con chiarezza che insegnare ed esigere il rispetto delle regole è indispensabile per un proficuo lavoro scolastico e per la formazione dei futuri cittadini oppure si continuerà a sottovalutare questa fondamentale esigenza?
Il PdL ha sempre considerato le regole quali elementi fondanti della convivenza sociale. Le regole sono per noi la base del sistema familiare che costituisce, o perlomeno costituiva fino a qualche anno fa, la struttura portante della società italiana. Una malinterpretata e pertanto devastante, interpretazione della “libertà” ha portato alla relativizzazione di questo modello e pertanto alla relativizzazione delle regole che da esso promanavano. Di questa relativizzazione hanno risentito tutti gli aspetti della società. La scuola, che costituisce uno dei gangli più sensibili della società ed anche uno dei più fragili per un insieme di elementi che in piccola parte abbiamo evidenziato anche nelle risposte precedenti, ne ha risentito in maniera drammatica diventando la cassa di risonanza di contraddizioni e conflitti nati fuori che sono esplosi al suo interno. Il rispetto delle regole passa attraverso il recupero del concetto di responsabilità individuale, prima di tutto da parte di docenti, dirigenti ed operatori della scuola che attraverso l’esempio, in primis, sono e devono essere i testimoni di regole basilari di cittadinanza e di rispetto che sole possono condurre i giovani al riconoscimento del valore delle regole stesse. In questa direzione si inserisce la rivalutazione del voto di condotta quale strumento che misuri il livello di capacità di adesione degli studenti alle regole.
Insegnare le regole comunque si fa con l’esempio. Questa è la principale responsabilità che tutti, ma in particolare chi agisce nel mondo dell’istruzione, hanno nei confronti delle giovani generazioni.
Le regole non sono frasi scritte su pezzi di carta, sono l’agito portato avanti con certosina pazienza, con quotidiana, caparbia risolutezza.

9. Uso e abuso dei test. Dei test Invalsi che valutano l’apprendimento si pensa di fare un uso limitato all’accertamento delle competenze di base o di estenderne impropriamente l’uso, con il concreto rischio di  trasformare la didattica  in un addestramento alla soluzione dei test?
Modelli educativi ben più performanti del nostro si basano sul modello del test. Il problema non è l’uso che facciamo dei test, quanto il contesto in cui li utilizziamo. Il modello valutativo della scuola italiana è basato sull’identità fra “maestro” e “misuratore dell’apprendimento”. Il “maestro” è abituato al suo metodo di proposta e quindi utilizza strumenti di misura adatti al “suo” modello.
Il test nasce in sistemi educativi dove le figure del “maestro” e del “valutatore” sono distinte. Le uniche valutazioni che competono al “maestro” sono quelle di carattere formativo. Per il resto egli non è l’antagonista del suo allievo, bensì l’alleato nel tentativo di superare lo scoglio della valutazione finale. Il test è solo lo strumento con cui è possibile valutare performance individuali, d’istituto, del sistema formativo territoriale. Ovviamente ciò che è deleterio è invece il test “fai da te”.  E’ negativo abusare del test per compiere valutazioni di carattere formativo che hanno scopi diversi da quello per il quale i test devono invece essere somministrati.

10.  Il ministro. Si potrà avere un ministro che conosca veramente i problemi della scuola, che si metta al suo servizio e attui un programma di concreti provvedimenti per renderla più seria, efficace e dotata di strutture adeguate?
Nel centrodestra i ministri dell’istruzione, seppur vituperati da una certa retorica di regime, hanno sempre condotto azioni mirate al miglioramento del sistema formativo. Le uniche riforme del sistema di istruzione portate a compimento dagli anni Settanta ad oggi portano il nome di ministri del centrodestra. Le proposte di riforma ancora giacenti in parlamento ed osteggiate dal regime consociativo portano il nome di viceministri del centrodestra. I tentativi di riforma del centrosinistra sono caduti tutti sotto il “fuoco amico” di quello stesso consociativismo. La domanda pertanto è mal posta, essa dovrebbe suonare così: riuscirà il nuovo governo a scardinare la ragnatela di interessi consociativi che da quarant’anni stanno demolendo la qualità della scuola italiana ed a salvarla?

 Erica Franchi (candidata per il PdL alla Camera dei Deputati), Tommaso Villa (consigliere regionale)