sabato 5 luglio 2008

RIFORMA DELLA SCUOLA PUBBLICA (3).LIBERTÀ E RESPONSABILITÀ PER GLI INSEGNANTI PROFESSIONISTI di Andrea e Giorgio Ragazzini (7 luglio 2006)

Contrariamente alla vulgata prevalente sulla scuola, il punto debole degli insegnanti italiani non è la preparazione, mediamente più che dignitosa, né l’impegno profuso nel lavoro, ma una scarsa consapevolezza dei propri diritti e doveri in quanto professionisti, cioè quella che si chiama “autonomia professionale”, l’indispensabile libertà di decidere per il meglio in scienza e coscienza che ha come contrappeso la “responsabilità”. Quanti Collegi dei docenti conoscono e difendono fino in fondo le loro prerogative? Quanti insegnanti non subiscono senza reagire le più svariate intrusioni nella sfera delle loro autonome scelte? E, sul versante della responsabilità, quanti si ritengono vincolati al massimo di rigore e di imparzialità nel momento cruciale delle valutazioni finali e degli esami?
Ma tutto questo ha una spiegazione. Negli ultimi decenni ha prevalso infatti una cultura politico-sindacale che ha svilito sistematicamente l’immagine dei docenti. Additati negli anni ’70 come “vestali della classe media”, cioè come garanti della perpetuazione di una società classista (con l’aggravante di essere dei fannulloni privilegiati), gli insegnanti sono stati oggetto di una serie di interventi che, considerati nel loro insieme, rivelano purtroppo una notevole coerenza. Da un lato sia la bocciatura sia ogni tipo di provvedimento disciplinare sono stati squalificati ideologicamente e resi difficilmente praticabili; dall’altro si è provveduto a diffondere capillarmente una pedagogia e una didattica di Stato, ispirata da una potente “lobby”, che comprende le facoltà di scienze dell’educazione, i sindacati confederali e gli Istituti regionali per la ricerca didattica. Si è trattato di vere e proprie campagne di rieducazione, che hanno riversato sulla scuola una caterva di orientamenti e prescrizioni, invadendo non di rado la sfera dell’autonomia professionale. Va segnalata in particolare la convinzione, comune ai governi di ogni colore, di poter costringere gli insegnanti a lavorare seriamente imponendo loro minuziose programmazioni basate su decine di obbiettivi e sotto-obbiettivi e afflitte dall’astrusa terminologia del “didattichese”. Queste politiche hanno prodotto nei docenti una profonda demotivazione e non di rado forme di deresponsabilizzazione.
Particolarmente deleteri i “virus mentali” diffusi in questi decenni tra gli insegnanti a proposito della valutazione, concepita non come l’esercizio di una delicata e difficile responsabilità, ma come disponibilità di un potere largamente svincolato da regole e riscontri oggettivi e finalizzato ad emettere condanne (insegnante cattivo) o assoluzioni (insegnante buono). Quasi mai si pensa al danno che una promozione immeritata può procurare alla credibilità della scuola, oltre che allo stesso allievo, né all’ingiustizia che così facendo si commette nei confronti di chi si impegna seriamente. A lungo colpevolizzati da luoghi comuni come “la bocciatura è sempre un fallimento della scuola”, intimoriti da chi li accusa addirittura di fomentare il suicidio degli studenti (come Vittorino Andreoli nel recente Lettera a un insegnante), molti insegnanti troveranno per forza più comodo abdicare alle loro specifiche responsabilità e dare il classico “calcio nel sedere” a un allievo impreparato, a costo di fare letteralmente carte false. Su questo capitolo non secondario del “caso italiano”, come i radicali hanno definito la pratica dell’illegalità a tutti i livelli, sarebbe necessaria un’indagine sistematica. Ma chi lavora nella scuola ne ha comunque viste o sentite abbastanza per farsene un’idea: i 4 che diventano, per miracolo, dei 6; promozioni prive di ogni fondamento; docenti che fanno copiare agli esami o forniscono addirittura le prove in anticipo, forse credendo di fare il bene dei ragazzi...
C’è quindi, nella scuola italiana, una macroscopica “questione docente”. La possibilità di valorizzare la specificità e l’autonomia della professione è stata fortemente penalizzata dall’inquadramento della categoria in potenti sindacati-scuola, del tutto inadatti, per tradizioni culturali e scelte ideologiche, a rappresentarne gli interessi. Al contrario essi hanno fatto e fanno di tutto per omologare i docenti alle altre categorie del pubblico impiego, opponendo il proprio veto a qualsiasi tentativo di cambiamento.
Naturalmente ci vuole l’adeguamento delle retribuzioni alla media europea, ma questo non basta. Non è più rinviabile una serie di provvedimenti che trasformino la scuola in una comunità di veri e propri professionisti, caratterizzati cioè da più libertà e più responsabilità. Il problema va affrontato a tre diversi livelli: legislativo, professionale e contrattuale.
Il Parlamento dovrebbe aggiornare quanto prima lo stato giuridico dei docenti. In esso la libertà di insegnamento dovrà essere rafforzata da esplicite garanzie riguardanti anche le scelte metodologiche e didattiche, a scanso di intrusioni di Stato o di Istituto. Dovranno poi essere indicati i diritti e i doveri fondamentali degli insegnanti (tra cui quelli relativi allo svolgimento dei programmi e alla valutazione degli allievi). Sta diventando inoltre sempre più evidente la necessità di creare, a supporto della funzione docente, alcune figure qualificate che si occupino di aggiornamento, ricerca e documentazione, servizi alla didattica. Oltre che una necessità per le scuole, questo potrebbe offrire a una parte degli insegnanti la possibilità (e la soddisfazione) di valorizzare attitudini e competenze diverse dall’insegnamento vero e proprio.
Quanto alla valutazione degli insegnanti, in questi ultimi anni se ne è parlato molto, anche a causa dell’infelice “Concorsaccio” del ministro Berlinguer, che si avventurò sul terreno impraticabile delle distinzioni di merito (e di stipendio) a parità di lavoro. Tuttavia, anche se esiste una grande maggioranza di docenti che fanno con competenza e spesso con passione il loro lavoro, c’è anche, come in qualsiasi comunità, una minoranza non all’altezza della situazione. Si dovrà quindi arrivare a definire con chiarezza il demerito professionale: e cioè quali comportamenti costituiscano gravi inadempienze o inadeguatezze sulla base di standard minimi da rispettare; e insieme quali provvedimenti – tempestivi e proporzionati alla mancanza – esse comportino.
Diverse associazioni professionali, inoltre, propongono da tempo di creare un organismo elettivo di carattere tecnico-professionale, che sia interlocutore qualificato del governo e del legislatore sui provvedimenti riguardanti la scuola e inoltre rediga e aggiorni il codice etico a cui si dovranno attenere i professionisti della formazione.
A livello sindacale è infine necessaria la creazione anche per i docenti, in quanto dipendenti che svolgono qualificate attività professionali, di un’area contrattuale separata, che ne valorizzi la specificità, come è accaduto per altri professionisti dipendenti nell’ambito della Funzione pubblica, anche se i sindacati confederali e lo Snals si sono finora opposti con le unghie e con i denti.
Puntare a questi obbiettivi non sarà facile, dati i legami dell’Unione con i sindacati e con la cultura dominante nella scuola. Ma per la Rosa nel Pugno tutto questo può rappresentare una sfida appassionante e uno dei terreni privilegiati su cui continuare a costruire il proprio progetto politico[1].

(Pubblicato su "Notizie Radicali" il 7 luglio 2006)

[1] L’articolo fu scritto nel periodo immediatamente successivo alle elezioni politiche del 9 e 10 aprile 2006.

RIFORMA DELLA SCUOLA PUBBLICA (2). DIMENTICARE DON MILANI di Andrea Ragazzini

Mentre si continua a ripetere in tutte le sedi che l’istruzione e la formazione sono la risorsa primaria del paese, non solo per la sua crescita civile e democratica, ma anche per le sue prospettive economiche, da tempo la società non riconosce più alla scuola italiana il prestigio e l’autorevolezza che le sono essenziali per poter svolgere la sua funzione, cioè un chiaro e condiviso “mandato sociale”. È un profondo problema culturale, dunque un rilevante problema politico, che nessuna riforma degli ordinamenti può di per sé risolvere.
Tutti i sistemi scolastici dei paesi occidentali sono stati investiti in varia misura da una crisi di identità a fronte di grandi cambiamenti economici, sociali, tecnologici, in particolare nel campo della comunicazione e delle forme di trasmissione della conoscenza. Credo però che nella crisi della scuola italiana si possano identificare alcuni specifici caratteri che hanno a che fare con le vicende politiche e culturali degli ultimi decenni e che hanno le radici proprio nel periodo dei più profondi mutamenti della scuola e nella cultura che li ha promossi e sostenuti.
Negli anni Sessanta e Settanta alcune grandi riforme, la Scuola media unica con l’obbligo scolastico a 14 anni (1962), la Scuola materna statale (1968), il tempo pieno (1971), davano all’istituzione scolastica un mandato che appariva largamente condiviso: garantire l’accesso allo studio dei ragazzi di tutti gli strati sociali, come previsto dalla Costituzione repubblicana. Fu una stagione di entusiasmante impegno per moltissimi insegnanti e di una nuova e positiva consapevolezza del proprio ruolo per la scuola nel suo insieme, ma anche una stagione progressivamente egemonizzata da furori ideologici, da analisi dogmatiche e semplificatorie, da una contestazione a tutto campo della cultura “borghese” che si sarebbe poi inevitabilmente risolta in una radicale critica alla cultura tout court e in definitiva nella delegittimazione della scuola come istituzione deputata alla trasmissione di quella cultura.
Il più originale e ispirato tra i libri che contestavano la natura classista della scuola di allora, Lettera a una professoressa, non fu scritto da un marxista rivoluzionario, ma da un prete, Don Lorenzo Milani, e dai suoi studenti di Barbiana nel 1967.
A quarant’anni di distanza sarebbe l’ora che questo celebre testo e la stessa figura di Don Milani fossero oggetto di una rilettura storica quanto più lucida e pacata possibile, in luogo di una acritica beatificazione; e di mettere in chiaro che l’esperienza di Barbiana e la Lettera hanno sì esercitato nei decenni successivi una positiva influenza sulla scuola italiana e i suoi orientamenti, ad esempio ispirando molte meritorie esperienze didattiche “di base”, ma anche prodotto gravi danni, con l’estremistica condanna di tutta la scuola come “scuola di classe”, estraniata dalla vita e dai suoi problemi, e degli insegnanti, tutti più o meno complici del sistema.
Ma è necessario anche riconoscere che i maggiori danni li hanno fatti i molti epigoni del Priore di Barbiana i quali hanno messo rapidamente da parte il suo inflessibile rigore educativo e adottato una più spendibile pedagogia giustificazionista e permissiva. Per Don Lorenzo “stare dalla parte dei ragazzi” significava letteralmente costringerli a riscattare con lo studio e il sacrificio quotidiano la propria condizione di povertà e di emarginazione, oggi è più banalmente la difesa di ufficio dei giovani in quanto tali, con una sostanziale rinuncia della scuola al suo ruolo educativo insieme alla svalutazione del merito, dell’impegno, della responsabilità individuale. L’influenza del “donmilanismo” è stata profonda: da un lato si è imposto come un vero e proprio monopolio pedagogico, che ha quasi cancellato il confronto con altri indirizzi formativi; per un altro verso ha dato origine ad un sindacalismo ideologico (soprattutto la CGIL scuola) che ha promosso presso gli insegnanti un’ idea spiccatamente sociale-assistenziale del loro ruolo e ne ha fortemente svalutato la specifica dimensione culturale e professionale.
Svuotata della sua criticabile ma forte idealità, quella visione della scuola è divenuta una confusa miscela di paternalismo, buonismo, egualitarismo acritico e ha fatto da sponda alla demagogia e all’opportunismo della classe politica, che ha operato quasi sempre assecondando irresponsabilmente la dequalificazione della scuola, con l’obbiettivo di acquisire un facile consenso. Ed è bene sottolineare che a questa linea hanno contribuito in modo singolarmente convergente ministri della Pubblica Istruzione di opposta collocazione politica.
Come risultato ci ritroviamo con una scuola genericamente “democratica”, a disposizione dello studente-cliente, tendenzialmente luogo di socializzazione e “inclusione”, piuttosto che di crescita culturale e civile, con un insegnamento disciplinare che si vorrebbe depurato da difficoltà concettuali e sempre più svalutato a favore delle “educazioni” (ambientale, sessuale, alimentare, stradale, ecc.), finalizzate a fornire agli studenti una serie di informazioni e di prescrizioni, piuttosto che a dotarli di solidi strumenti concettuali e capacità critica.
È una scuola per molti aspetti conformista, appagata dalle sue molte iniziative politicamente corrette ma spesso vuote di contenuti, persino ipocrita quando promuove le sue “educazioni alla legalità e alla cittadinanza”, ma tollera tranquillamente al suo interno comportamenti (degli studenti ma non solo) che con la legalità e il rispetto delle norme poco hanno a che spartire.
Invertire questa tendenza è certamente arduo ed è ben comprensibile lo scetticismo di molti. Si tratta prima di tutto di una battaglia culturale, di cui dovrebbero farsi carico tutte le forze politiche, smettendo una volta per tutte di considerare la scuola come un terreno per procurarsi popolarità a buon mercato. Si tratta poi di assumere provvedimenti che riportino al centro della didattica la formazione culturale, valorizzino l’impegno e il merito e ridimensionino anche drasticamente la congerie di progetti e attività aggiuntive, quasi sempre di limitato spessore, promossi in regime di autonomia scolastica. Si tratta infine di restituire agli insegnanti la fiducia nella centralità della propria funzione, ma anche la consapevolezza della propria responsabilità che a volte mostrano di avere smarrito.


(Pubblicato su “Notizie Radicali” il 29 giugno 2006)

RIFORMA DELLA SCUOLA PUBBLICA (1). LA FORMAZIONE PROFESSIONALE: DAVVERO UNA SCUOLA DI SERIE B? di Andrea Ragazzini e Valerio Vagnoli (20 giugno 2006)

Sempre natura, se fortuna trova
discorde a sé, com’ogne altra semente
fuor di sua regïon, fa mala prova.
(Dante, Paradiso,VIII)
È fuor di dubbio che la qualità della vita è migliore laddove è possibile per gli uomini realizzare ciò che essi hanno sognato di fare fin da quando sono piccoli.
In questo senso le scelte scolastiche che si fanno da adolescenti assumono un’importanza fondamentale in quanto rischiano di pregiudicare il nostro futuro. Per tale motivo è necessario ricorrere a tutto affinché i ragazzi possano essere messi in grado di fare le loro scelte senza pregiudizi, mettendoli di fronte ad un ampio ventaglio di possibilità, compresa quella di una scuola che possa partire anche dalla concretezza dell’esperienza per prepararli ad un lavoro qualificato.
Fra le pochissime cose che, a proposito della scuola, il Centro-sinistra ha indicato nel suo programma elettorale, vi è quella di un biennio unitario per tutti alla fine della scuola media di primo grado in modo da evitare, sembra d’intuire, una scelta precoce di natura classista tra “ricchi” destinati agli studi e “poveri” destinati al lavoro; quasi a voler davvero istituzionalizzare una gerarchia culturale e sociale che di fatto ha imperato fino ai giorni nostri. Da questo pregiudizio deriva anche la semi-licealizzazione “progressista” che affligge da diversi anni gli istituti professionali spesso sovraccaricati da una mole enorme di materie umanistiche e scientifiche che hanno finito per snaturarli e per farne altro rispetto al loro fine principale e, in molti casi, delle vere e proprie “bolge per dannati”.
Le conseguenze di tale impostazione sono un altissimo numero di abbandoni e di bocciature e, per moltissimi studenti, un fortissimo disagio quotidiano causato dal veder tradite le loro attese, proiettate soprattutto sull’operatività grazie alla quale, i docenti lo sanno, potrà essere poi possibile recuperare interesse per una cultura più astratta e “alta”. Perciò un programma sulla scuola serio e integrato nel contesto storico in cui si vive dovrebbe garantire una rigorosa formazione professionale, innanzitutto perché vi sono, ogni anno, decine di migliaia di adolescenti per i quali è problematico o impossibile entrare perfino nell’esperienza scolastica della scuola media di primo grado. Anche a questi studenti si devono offrire delle serie possibilità di formazione e istruzione attraverso percorsi appropriati perché, se obbligati a due anni di liceo – ma forse è più onesto parlare di due anni di prolungamento della scuola media di primo grado – verranno sottoposti a nuove frustrazioni, disagi, noia invece di poter cogliere possibili chance offerte da una seria, qualificata, stimolante formazione professionale in grado di valorizzare le loro potenzialità e aspirazioni. Un cittadino consapevole lo si forma se gli facciamo fare una scuola di cui è consapevole e che è rispondente ai propri reali interessi che sono fondamentali per evitargli l’insuccesso scolastico, con tutto ciò che talvolta ne consegue anche sul piano della devianza giovanile. Inoltre, come possiamo ignorare che è proprio nel passaggio tra la pre-adolescenza e l’adolescenza stessa che i ragazzi aspirano a misurarsi con esperienze nuove, dinamiche, coinvolgenti e, soprattutto, che abbiano per loro un senso?
L’aver ignorato o svalutato, da parte della sinistra politica e sindacale, la profonda ricchezza che poteva e potrebbe scaturire da una seria istruzione e formazione professionale, ha contribuito a diffondere l’errata convinzione, nella stragrande maggioranza della popolazione, che una scuola che pur offre o potrebbe offrire ai ragazzi strumenti operativi e culturali per innestare un albero, per progettare e realizzare circuiti elettrici, manifesti pubblicitari e gioielli, è cultura di serie B rispetto a quella liceale.
Questa distorta, demagogica e populistica immagine dell’istruzione è responsabile anche del profondo arretramento della qualità dei nostri licei, presi d’assalto negli ultimi anni da masse di studenti che sempre più in modo crescente non riescono, però, ad evitare l’insuccesso scolastico.
Da quanto continua ad emergere dalle dichiarazioni di molti esponenti del Centro-sinistra, niente sembra far loro cambiare idea, neanche la precipitosa marcia indietro di quei paesi europei che hanno sperimentato, con esiti disastrosi, un percorso biennale omogeneo che, appunto, rimandava di due anni la definitiva scelta dell’indirizzo scolastico superiore. Così come sembra non trovare ascolto la sempre più diffusa preoccupazione di tanti addetti all’economia: senza scomodare Confindustria, si pensi a cosa ha detto Padoa-Schioppa su quanto sia deleterio per il nostro Paese il fatto che i giovani italiani entrino tardi nel mondo del lavoro rispetto alla gran parte delle altre nazioni europee.
Neanche l’esperienza di Trento sembra interessare, visto che in quella provincia autonoma, amministrata dal Centro-sinistra, la sperimentazione della parte della riforma Moratti relativa alla doppia canalizzazione e alla possibilità di transitare da un sistema all’altro, ha permesso un crollo verticale dell’insuccesso scolastico e la pone ai primi posti, al mondo, nelle indagini OCSE sulle capacità dei quindicenni rispetto alle abilità scientifiche, matematiche e di lettura – comprensione di un testo; a differenza degli studenti di gran parte del resto d’Italia collocati negli ultimissimi posti della graduatoria.
Si tratta, del resto, solo di garantire la possibilità di una scelta: eventuali errori possono essere in gran parte prevenuti da un buon servizio di orientamento e corretti da un sistema non rigido che consenta anche dei ripensamenti. Diversamente si rischia di non riconoscere agli adolescenti italiani il diritto, nel periodo più tormentato e incerto della loro vita, di seguire le loro attitudini condannandoli alla demotivazione, alla passività e alla noia, pene, queste, fra le più crudeli a cui si possa sottoporre un ragazzo e lo stesso futuro del nostro Paese.

(Pubblicato su "Notizie Radicali" il 20 giugno 2006)