domenica 18 novembre 2012

L'INSEGNANTE, IL MINISTRO, LA FATICA, LA DIGNITÀ

Chi scrive è insegnante di filosofia del liceo Copernico di Bologna, liceo in cui si attua una mobilitazione singolare (esposta più avanti) cresciuta spontaneamente dal basso, per protestare contro la politica di lento ma inesorabile annientamento delle funzioni della scuola pubblica, per dar voce all’indignazione in noi suscitata dai provvedimenti e dai pareri di cui siamo stati oggetto in questi tempi. Siamo dei privilegiati – ci si dice in sintesi - in quanto lavoreremmo part-time (18 ore la settimana).

1. Dignità affermata e negata al tempo stesso.  Insegniamo ai nostri allievi ed allieve il valore della dignità, insegniamo ad esempio cos’era il senso del valore dell’uomo in Socrate, oppure leggiamo il De dignitate hominis di Pico della Mirandola; oppure contestualizziamo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 10: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e in diritti”), siglata nel 1948, dopo che l’umanità era caduta nel baratro della Shoah; commentiamo quel monumento alla dignità dell’uomo che è il libro di Primo Levi, Se questo è un uomo ; oppure stiliamo documenti istituzionali in cui la dignità è un nucleo assiologico essenziale, come nel nostro Patto di corresponsabilità, dove si afferma: … “ buone pratiche sono determinanti per diffondere e contribuire alla crescita di una cittadinanza consapevole della propria dignità. L’istituto Copernico tende a progettare questo tipo di società. (preambolo, art 5). Insomma, siamo coloro che non solo dispensano insegnamenti sui vari saperi, ma , come formatori, vorremmo aiutare a crescere i ragazzi, orientandoli a difendere la dignità, quella propria e quella altrui. Ma se la nostra dignità viene sfibrata, erosa, violata – come sta succedendo con un ritmo progressivo da una ventina di anni da gran parte dell’opinione pubblica e degli istituti di governo - allora ne conseguono a cascata effetti inevitabili. Così come, storicamente, da certe premesse sono conseguiti effetti devastanti. Ciò che enuncia una fonte - in questo caso un insegnante - la cui dignità è smentita nelle pratiche discorsive e fattuali della società (o addirittura dei rappresentanti delle istituzioni) risulta inevitabilmente essere un discorso privo di valore di verità.
Quando ci viene riferito qualcosa, noi, prima di esaminare il contenuto che ci viene riferito, ad esempio la dinamica di un fatto , implicitamente ci disponiamo in un certo modo nei confronti di quel soggetto che ci sta riferendo quel qualcosa. Implicitamente, cioè, compiamo un’ apertura o una chiusura, ci sintonizziamo per dare credito o discredito, ci fidiamo senza filtri o non ci fidiamo affatto, e quindi rimaniamo indifferenti al suo dire. La fonte della comunicazione deve essere degna di credibilità, dicono coloro che fanno indagini –o giornalistiche o giudiziarie.
Gli insegnanti delle materie dell’universo umanistico, che tramandano e riplasmano temi inerenti all’umano e all’etica ( e la dignità delle persone sta dentro questo ambito) cadono vittima della logica che ho esposto. Poiché il loro operare, il loro esercizio viene costantemente eroso, privato – da opinione pubblica e apparati istituzionali- di credibilità e autorevolezza. Il messaggio che loro comunicano nelle lezioni corre il rischio di essere ridotto a puro flatus vocis. Tale argomentazione può essere estesa all’insegnamento delle materie del mondo della scienza ? Non lo so: da un lato quest’ultima - fonte autorevole in sé e riconosciuta nel suo statuto di sapere autoevidente, solido, fondato- parrebbe legittimare di più chi trasmette questa conoscenza. Ma, d’altro lato, lo svaporarsi della dignità del docente della scuola italiana (di I e II grado) sembra comunque ormai sconfinato.
Se è vero che tuttora vediamo molti casi in cui gli insegnanti sono considerati autorevoli dai loro allievi, ciò non significa che questa sia una rendita di posizione scontata e automatica. Solo attraverso un lavoro impegnativo - perché i ragazzi non fanno sconti e nella relazione corpo a corpo e nella apertura del dialogo ci si gioca ogni giorno la nostra reputazione- possiamo riparare a questa erosione di dignità. Ma si deve sapere che lo sforzo compiuto per arginare la deriva a cui le istituzioni, i governi e i mass media ci espongono è sempre più oneroso, sempre più logorante.

1. Lavoro in absentia. Per esprimere la nostra indignazione, per alzare la voce, per non mostrare ancora una volta un atteggiamento rinunciatario o remissivo, di fronte alle offese rivolteci dal “nostro” ministro e da molta parte dell’ opinione pubblica [si veda per esempio l’articolo di Nicola Porro], nel convincimento di situarci nel terreno della Costituzione ( l’Art. 36 della Costituzione Italiana recita “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro...“), abbiamo deliberato di attuare, dalla fine di ottobre 2012, varie forme di protesta – in primis il rifiuto delle ore aggiuntive all’insegnamento. Ma ora parlerò solo di una singolare protesta, la “ settimana bianca” (nel senso di una sorta di sciopero “bianco”), attuata nella settimana dal 5 al 10 novembre. Lo scopo precipuo era quello di far emergere nella vita vissuta – un “mostrare”,  invece che limitarsi a un “dire”- il lavoro, o almeno una parte del lavoro, che un insegnante svolge separatamente, fuori dallo sguardo dei suoi allievi: il lavoro in absentia. Non mi dilungo a enumerare di cosa si compone questo impegno, perché molti lo hanno già espresso, ma mi soffermerò solo su alcuni aspetti.
Dai colloqui intessuti coi ragazzi del liceo, dai risultati scaturiti, il bilancio di questa settimana è positivo: molti ragazzi, e soprattutto i rappresentanti di istituto, ci hanno restituito impressioni e risposte davvero confortanti, a volte entusiasmanti, anche se non mancano i perplessi o quelli che, pur tacendo, si considerano tuttavia colpiti ingiustamente . Ma, come dicevo, per chi si è pronunciato, per lo più è stata un’esperienza di crescita. E vediamo meglio perché.

2. La “fatica del concetto”.  Ho attuato questa singolare esperienza in varie modalità, a seconda dell’andamento dell’agenda in quella classe, ma due sono i momenti che racconterò.
Il primo è più scontato: la correzione delle loro verifiche insieme. Qui è emerso che gli studenti coinvolti nell’operazione non pensavano che il tempo necessario per correggere una sola domanda di filosofia (cui mediamente si deve rispondere entro lo spazio di 10 righe) fosse quello che è stato consumato per correggere: in un’ora 5 domande. (Tra parentesi: per la correzione delle verifiche di matematica, in una classe ritenevano possibile svolgerla in 5 minuti).
Secondo punto. Ho sperimentato con una classe un momento chiave, la preparazione di una lezione, attività che io ho modulato come lettura di un testo di filosofia. Volevo mostrare dal vivo una questione di metodo, e cioè:
1. che per comprendere un testo filosofico bisogna difendersi dalle abitudini mentali inconsapevoli, che s’affacciano immediatamente alla mente di tutti, quindi anche alla mia.
2. che bisogna abbozzare una prima comprensione, la quale poi va rivista e rielaborata da letture successive.
E così ho portato in classe La vita della mente di Hannah Arendt, che mi serviva in quanto la seconda sezione tratta del Volere. Avrei dovuto valutare se inserirla o meno nello sviluppo del pensiero di Agostino. Mi ero guardata a casa una parte e l’ho riferita a loro, perché svolgesse la funzione di quadro mentale su cui poi collocare i vari concetti (anche questo- si dirà- andava fatto coram populo), e loro non si trovassero immersi nell’ignoto. E fin qui tutto bene. Poi ho iniziato a leggere brani nuovi ed allora le cose si sono complicate. Facciamo una sorta di lettura fenomenologica di questa vicenda metalinguistica: una lezione sulla preparazione della lezione. Dovevo tentare di comprendere il testo, dovevo mostrare a loro il mio lavoro del comprendere, dovevo tentare di restituire loro quello che comprendevo, decidere fra me e me se su alcuni brani che non comprendevo immediatamente fosse opportuno insistere - e intanto la classe manifestava inquietudine e scompiglio-, o passare oltre per un brano meno problematico . Ma soprattutto – e questo l’ho colto dopo - dovevo tenere a bada la mia difficoltà a mostrare un mio lato nascosto – l’altra faccia della luna dell’insegnante – quello del professore che vacilla, fatica, ingaggia il suo sforzo – quotidiano? – per allargare i propri confini di conoscenza. Conoscenza che non solo deve essere allargata, ma riplasmata, ristrutturata. I nessi tra i concetti appresi, ben lo sappiamo, sono in rete, e questa rete deve essere a volte inanellata con legami nuovi. La questione di metodo progettata è stata inghiottita da qualcosa che non avevo previsto. Ora era “evidente”, ma è apparso come una meraviglia: se i ragazzi ci vedono con gli occhi di chi sa tutto, di chi certo non deve sudare molto a casa, è perché questa zona segreta viene loro occultata. Naturale si dirà: anche l’attore deve prepararsi nella parte da portare in scena; e noi ignoriamo – non immaginiamo minimamente- tutto il lavoro alle spalle. Ma i ragazzi in questo modo non colgono ciò che non si mostra: il lavoro di elaborazione, la fatica del percorso. E non deducono che anche per loro si tratta di sottostare a questa dura necessità. Ciò non significa che tutti i ragazzi debbano vivere questa esperienza, o che dobbiamo condonare la loro mancanza di studio serio. Significa che questa settimana ha avuto un grande pregio: quello di mostrare che i risultati si ottengono solo in un modo: assumendo il carico di un impegno non immediatamente appariscente, non immediatamente votato al successo. Cioè nella fatica solitaria. Chi pensa che la "settimana bianca" sia stata un escamotage per fare sciopero senza trattenuta, rifletta invece sulla crescita di consapevolezza e di responsabilità raggiunta da alcuni ragazzi attraverso questo vissuto.

3. La passione.  Ancora un altro elemento insospettato che ha animato i ragazzi è stato il rendersi conto che un insegnante, nell’esercizio della sua professione, non vive solo di rendita. Fa lo stesso programma tutti gli anni – mi dicono – quindi oramai conosce tutto ciò che deve esporre perfettamente… Ci sono tratti della materia che conosco a tal punto da non dovere sottopormi a nessun “ripasso”,  ho risposto. Ma questa è solo un frammento del quadro.
In primo luogo, molte cose vanno rispolverate, e ognuno ha il suo metodo. Ma in secondo luogo, il desiderio di approfondire qualche nuovo argomento, o il recupero di un approfondimento fatto magari nell’estate, o magari anni fa, sempre operano in noi. Potemmo dire che “siamo in ostaggio” di un desiderio irrefrenabile che converte in spunto per un approfondimento didattico i più piccoli eventi/informazioni che intercettiamo nella vita. Se non fossimo animati dalla curiosità sempre inappagata, dalla passione per le questioni che dobbiamo trattare, sforneremmo delle lezioni svaporate di senso vitale. Mi hanno detto una volta che ero invidiabile per la passione di cui posso nutrire e rivestire il mio lavoro. Da questo punto di vista ammetto che siamo privilegiati. Ma, daccapo, tale senso vitale, tale passione che spero di comunicare ai miei interlocutori, non nascono da una “zona franca” ; sono piuttosto il frutto di ore e ore di impegno, non riconosciuto, ahimè, sia in termini giuridico/economici, sia in termini di senso comune. Alcuni obietteranno che anche gli insegnanti hanno le loro pecche. Se ciò è vero, tuttavia non ci esenta dal pretendere le condizioni tali per cui esso possa esercitare il mandato costituzionale di educatore. Un compito alto, se è vero quello che scrive Arendt: “Di fronte al fanciullo [l’insegnante] è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini adulti della terra, che ne indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo”. (Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti).

Paola Cavallari Marcon
Bologna, 11 novembre 2012

Per commentare tornare alla pagina precedente.