Intervento al 4°
Convegno Nazionale dei Collegi Universitari di ispirazione cristiana, 11
novembre 2007 – Pubblicato su “Indice” n.2, maggio 2008, anno XXXIII
1. Introduzione
Dir male della scuola italiana – dalle
elementari all’università - è di moda. Lo fanno i giornalisti, i politici, e
financo gli insegnanti. E non è difficile trovarne motivo: basta vedere gli
ultimi scandali delle successioni da padre a figlio sulle cattedre universitarie;
e la corruzione messa in atto dai genitori per favorire i figli nelle selezioni
a “numero chiuso”. Più in generale, si tende a fare di ogni erba un fascio e si
conclude che è tutto mediocre: studenti e docenti. A volte, si guarda meglio
alle cose[1], e si osserva
che in Italia la scuola – come ogni altra cosa pubblica – è di qualità casuale.
Nello stesso edificio, ma anche nella stessa aula, convivono studenti e docenti
della più diversa qualità.
Rispetto ai paesi
migliori, la nostra vera differenza è che negli ultimi quarant’anni abbiamo
rifiutato ogni selezione basata sulla qualità. Se qualcuno volesse provare a
fare una buona scuola, che seleziona docenti e studenti sulla base del loro impegno
a lavorare per raggiungere risultati migliori della media, gli sarebbe molto difficile
se non impossibile. L’obiettivo della nostra politica scolastica è stato
infatti quello di evitare che possano esistere scuole di livelli qualitativi
diversi: di serie A, di serie B, e di serie C. Poiché averle tutte di serie A è
impensabile, meglio che siano tutte di serie C, dove C sta per casuale: le
diverse qualità convivono. E’ anche per questo motivo che nelle graduatorie
internazionali l’Italia finisce sempre negli ultimi posti: la qualità
casualmente dispersa su tante diverse sedi non viene colta dagli indicatori di
solito utilizzati.
Conviene
proseguire con questo modello, o sarebbe preferibile adottare il modello che da
tempo esiste negli altri paesi, migliori di noi, e verso il quale si stanno oggi
muovendo anche Francia e Germania? Prima di discutere della possibilità di ottenere
una vera riforma nel nostro paese, proviamo a definire quali sono le caratteristiche
di un sistema meritocratico con riferimento ad altre esperienze concrete e non
su basi soltanto ideologiche. Vedremo poi perché il nostro dibattito sia largamente
basato su pregiudizi spesso del tutto infondati: anche chi parla e scrive di queste
cose a volte non ha la minima idea di quali siano le altrui best practices.
2. Una scuola per gli studenti
Due anni fa[2] ho
scritto un breve editoriale in cui proponevo di confrontare due modi opposti di
occuparsi di università: il modello inglese e quello italiano. Qual’ era la differenza
principale? Nel caso inglese (“Libro Bianco sul futuro dell’istruzione universitaria”
del gennaio 2003, e successiva Riforma dell’Università del luglio 2004), ci si occupava
soprattutto degli studenti: condizioni del loro accesso agli studi
universitari; costo e sostegno
ricevuto; eccellenza nella didattica; forme di partecipazione attiva alla vita
universitaria. Nel caso italiano (Legge 4 novembre 2005, n. 230), la parola “studente”
non era neppure presente nel testo della nuova legge, che riguardava unicamente
i docenti. A ben guardare, il contrasto non si limita a quest’ultimi due episodi
e non riguarda solo l’università. È per l’intero mondo della scuola che nel nostro
paese da anni prevalgono gli interessi, a volte legittimi, del personale,
docente e non docente. Ciò in parte vale anche negli ultimi due documenti
dell’attuale Governo:
1) Misure per
il risanamento finanziario e l’incentivazione dell’efficacia e dell’efficienza del sistema
universitario, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Commissione Tecnica per la
Finanza Pubblica, 31 luglio 2007
2) Quaderno
bianco sulla scuola, Ministero dell’Economia e delle Finanze-Ministero della Pubblica
Istruzione, settembre 2007.
Ambedue meglio
scritti del solito, e con intelligenti considerazioni sul problema della qualità
dell’istruzione in Italia, finiscono però col concentrarsi solo su cosa si
dovrebbe fare dal lato dei
docenti.
Il documento
sull’Università riflette i lavori della Commissione Tecnica per la Finanza
Pubblica, nell’ambito della cosiddetta spending review. Contiene un
lungo elenco di problemi e difetti dell’attuale sistema universitario, che si
riassume in 2 righe: “si registra la sostanziale assenza di qualunque
meccanismo di mercato che premi gli atenei meglio in grado di rispondere
adeguatamente alla domanda proveniente dalle famiglie e dalle imprese” (p. 4).
In altre parole, le differenze di merito o non esistono o non sono comunque
riconosciute. I rimedi proposti collegano giustamente le future maggiori
risorse finanziarie al merito:
1) Vanno
migliorati – e fatti rispettare – i criteri con cui le università sono finanziate.
2) Occorre
aumentare nel tempo la quota di fondi attribuita a ciascuna università secondo
il merito.
3) Il merito è da
valutare sia in termini di qualità didattica sia di risultati della ricerca
scientifica.
Su quest’ultimo
aspetto dovremo tornare, perché anche la valutazione della qualità può essere
fatta in modi diversi (guardando ai dati medi o marginali; ai dati di flusso o
di stock) a seconda degli obiettivi perseguiti. E comunque ciò che più preoccupa
di questo documento è l’allarme lanciato sull’urgenza di prevenire casi di insolvenza,
visto il dissesto finanziario in cui si trovano università da tempo mal
gestite.
Il “Quaderno
bianco sulla scuola” è un’ampia (Appendici comprese, sono 256 pagine) analisi
dei problemi, e dei relativi rimedi, per ottenere una migliore qualità della
nostra scuola. Anche in questo caso – come visto per l’Università – è centrale
la proposta di “un sistema nazionale e una cultura di valutazione della
scuola”. E in proposito è chiaramente sottolineata la necessità di “valutazione
esterna dei progressi degli studenti” (p. II), o come ancora più chiaramente si
precisa: “l’esigenza di misurare, oltre allo stato delle conoscenze e
competenze degli studenti, il loro progresso (gain), anche come base
indispensabile per valutare il “valore aggiunto” della scuola tenendo conto del
contesto socio-economico e culturale degli studenti” (p. 86).
Qualcosa che si
sperimentò in Italia con il progetto PROMETEO promosso dal Ministero all’inizio
degli anni ’90 (con prove in ingresso e in uscita della scuola secondaria
superiore) che però non ha avuto seguito. Più che confrontare scuole e scolaresche
diverse, ciò che conta è infatti valutare i progressi degli (stessi) studenti nel
tempo. Ed è questo che viene ora promesso. Non possiamo non avvertire che se attuato
ciò significherebbe una rivoluzione più che una riforma della
scuola italiana. Per una serie di ragioni che è opportuno brevemente ricordare.
Anzitutto, la novità radicale rappresentata da un sistema di valutazione
rigoroso e formalmente costituito, applicato a tutti gli studenti. E quindi una
preliminare individuazione degli indicatori rilevanti per misurare i progressi
degli studenti stessi.
Come è noto, dopo
la provocazione rappresentata dal Rapporto Coleman (1966), quarant’anni di
ricerche svolte soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna hanno dimostrato
che non è facile trovare una relazione univoca tra le risorse investite nella scuola,
la sua qualità, e l’esito in termini di miglior capitale umano così prodotto.
Diciamo che i
risultati dipendono anche dai compiti attribuiti e dagli obiettivi assegnati,
cioè dalla mission
(come si dice oggi, nel linguaggio dei consulenti) svolta dalla scuola. E
in particolare, non è facile distinguere il contributo dato dalla scuola da
quello rappresentato dalla famiglia e dai compagni, se la qualità della scuola
non è perseguita in modo sistematico e per lunghi periodi di tempo, combinando
in modo appropriato le regole della competizione e della valutazione. Chi
prende in esame[3]
i tentativi abortiti della riforma Berlinguer prima e Moratti poi, è indotto a
giudicare positivamente l’approccio portato avanti dall’attuale Ministro della
Pubblica Istruzione, che ha rinunciato alla scure per ricorrere al cacciavite,
cioè per fare qualche buon intervento di “manutenzione”, iniziando da
un’immagine di maggior serietà della nostra scuola. Resta il fatto che solo una
radicale svolta in termini di autonomia cum responsabilità, combinata a
merito cum valutazione, potrà consentire a tutta la scuola italiana –
dalle elementari all’Università - di recuperare rispetto alle migliori
esperienze degli altri Paesi.
L’uniformità e la
centralizzazione del nostro sistema educativo non possono essere infatti
dimenticati quando si legge[4] che
“……benché alcune regioni italiane abbiano dimostrato di aver raggiunto standard
di eccellenza mondiali, i risultati italiani appaiono complessivamente
deludenti, registrando nella fascia degli studenti quindicenni livelli di
performance
decisamente inferiori agli standard rilevati nella maggior parte dei paesi industrialmente
avanzati, evidenziando lacune talora equivalenti a più anni scolastici, a
dispetto di investimenti nel settore educativo comparativamente elevati. Quasi
uno studente italiano di quindici anni su tre raggiunge appena o addirittura si
pone al di sotto del livello minimo di conoscenze matematiche, con il serio
rischio di compromettere il passaggio iniziale dal mondo della scuola a quello
del lavoro e di non riuscire a godere appieno dei benefici legati ai successivi
gradi di istruzione, nonché alle opportunità di apprendimento e di formazione continua.
Gli studenti italiani appaiono infine più inclini ad affrontare uno specifico
compito piuttosto che a focalizzarsi sulla riproduzione dello schema scuola/sapere;
spesso hanno difficoltà ad applicare le competenze e le conoscenze acquisite in
aree tematiche chiave e mostrano scarse capacità di analisi, ragionamento e
comunicazione, nel momento in cui si trovano a porre, risolvere ed interpretare
problemi in situazioni diverse e contesti nuovi, denotando così l’inconsistenza
di tali competenze, destinate invece ad assumere una sempre maggiore rilevanza
nella loro vita futura.
Al contrario, le
elevate performance registrate in paesi quali la Finlandia, il Canada ed il
Giappone
confermano che l’eccellenza nell’istruzione costituisce un obiettivo possibile,
raggiungibile a costi ragionevoli e che elevati livelli di performance sono
compatibili con una distribuzione socialmente equa delle opportunità di
apprendimento”.
Quando andiamo a
guardare da vicino i sistemi educativi considerati molto migliori del nostro,
scopriamo[5] che la
qualità migliore si ottiene combinando autonomia scolastica con esami finali
centralizzati a livello nazionale (per evitare che vi sia competizione “al
ribasso” e contrastare la miopia delle famiglie che privilegiano le scuole più
facili e/o dai voti più alti). E ancora che i migliori risultati si ottengono
con molta competizione “sia tra gli studenti per entrare nelle scuole migliori,
sia tra le scuole per attrarre gli studenti migliori” (cit. p. 99). Sono
queste le caratteristiche che portano a spiegare l’ottima performance di un
sistema scolastico come quello della Finlandia, in particolare dal punto di
vista dei test PISA (Programme for International Student Assessment)
e nonostante una spesa per studente (sia in termini di spesa totale sia in
termini del rapporto docenti/studenti) relativamente contenuta e di molto inferiore
a quella dell’Italia. È emblematico che volendo riassumere le caratteristiche
di un sistema educativo eccellente si sottolinei (cit., p. 96) che
l’influenza del background socio economico degli studenti sulla loro learning
performance risulta fra le minori dei paesi OCSE (e sono diverse decine di
paesi!) cui si applicano i test PISA. Sembra questa la miglior definizione di
un sistema “meritocratico” : conta poco l’origine familiare, che è l’unica cosa
di cui non abbiamo alcun merito!
3.
Le condizioni della meritocrazia
Parlare di merito e di talento è di moda; ma
soprattutto in Italia suscita anche diffidenza e resistenze, quando non
opposizione aperta. Probabilmente perché i generici riferimenti alla necessità
di “valorizzare i più bravi”, ed alla scuola descritta come un luogo dove
dovrebbe “vincere il migliore”, servono solo ad evocare il timore del
privilegio, del rischio cioè che si associa ad ogni discriminazione, anche
positiva, quando tende a diventare definitiva. È ovvio – almeno a chi ha
studiato le “migliori esperienze” – che il contrario dovrebbe essere vero, se
la meritocrazia è per l’appunto inserita in un processo dinamico anche detto in
gergo “di giochi ripetuti”, dove la valutazione è continua come continua è la
competizione che ciascuno deve affrontare.
Chi sostiene i
benefici portati all’intero paese da un sistema educativo basato su regole meritocratiche
ritiene perciò che l’aspetto da sottolineare non sia tanto lo slogan: “il migliore vince”,
ma piuttosto quello assai diverso che recita: “chi migliora vince”. È infatti questo
il messaggio più autentico che si può estrarre dalla “Parabola dei talenti” (Matteo,
25). I tre servitori hanno ricevuto dal loro padrone talenti in misura diversa,
rispettivamente cinque, tre, ed uno, e il compito loro assegnato è di “far fruttare”
ciò che hanno avuto. Quello che conta per essere giudicati positivamente non è
il differente punto di partenza, né quello di arrivo, ma l’impegno profuso a
far crescere la dote iniziale, qualunque essa sia. In altre parole, il
messaggio più profondo (ovviamente, come vedremo, molto ambizioso ed assai
impegnativo per essere realizzato) è quello che “vince chi migliora di più”. Ciò
corrisponde ad un sistema educativo che rispetta le seguenti condizioni – tutte
e tre essenziali – riferite alla valutazione:
i) processo di
valutazione continua, e “ordinale”, dei progressi conseguiti dagli studenti;
ii) particolare
riferimento ai talenti di ciascuno, per favorire lo sviluppo delle vocazioni
individuali, tutte considerate di pari dignità;
iii) esami finali
nazionali, che garantiscono la correttezza della competizione tra i diversi
studenti di ogni scuola e tra le diverse scuole del Paese.
Un sistema
educativo con queste caratteristiche non prevede esami di riparazione: qualcuno
ha mai provato a dire in inglese che un qualche studente è stato “rimandato a
settembre”? E non è neppure pensabile che in una scuola vi sia un elevato
numero di studenti bocciati, non importando che vengano sparpagliati in tante classi
diverse o riuniti tutti nella stessa classe, come quest’anno si è fatto in quel
di Genova… È invece importante che la valutazione degli studenti, cioè dei
progressi (gain) da loro conseguiti nelle discipline di loro scelta, sia
esterna alla scuola ed ampia, quindi in grado di valutare le scuole stesse e
non solo gli studenti. È con metodi di questo tipo che il primo governo Blair
dieci anni fa decise di chiudere (ripeto, chiudere) 42 scuole inglesi, perché
assai scadente era risultata la performance di quegli studenti!
Come è possibile
che in Italia si continuino a leggere testi ufficiali come quelli sopra citati,
in cui si denuncia la povertà dei risultati conseguiti da tanti nostri
studenti, senza che poi non vi sia alcuna reazione?
4.
Cooperare e competere
I due valori tipici di una classe dirigente
sono la cooperazione (cosa fai insieme agli altri) e la competizione (cosa
fai per superare gli altri). Non a caso, sono i valori tipici dello sport di
squadra: fatichi insieme ai tuoi, per competere con gli altri, cioè tu lavori
nell’interesse tuo e di tutti i tuoi compagni, per vincere nei confronti delle
altre squadre. Sono valori che dovrebbero essere parte di ogni processo
educativo, e quindi non limitarsi allo sport (che pure fa bene, e non solo ai
muscoli….), ma comprendere l’apprendimento e la sua valutazione. In Italia, il
problema vero da affrontare è dunque quello della “concentrazione” della
qualità. Nello sport ciò si realizza da tanto tempo: le squadre sportive continuamente
selezionano giocatori di equivalenti doti e abilità, per farli competere con i
loro pari di altre squadre. C’è quindi la serie A; e poi c’è la serie B; e così
via. Il tutto accompagnato dagli incentivi più idonei, sia monetari sia di
altro tipo. Se tanti paesi hanno adottato questo modello per il loro sistema
scolastico – dalle elementari all’Università – una serie di ragioni valide ci
deve essere. E vanno ricondotte in estrema sintesi al principio – tipico dello
sport – secondo cui ciascuno ottiene il suo risultato migliore se partecipa ad
una competizione che può vincere, perché tra pari. Ciò vale per i docenti come
per gli studenti. Nello sport, diremmo che allenatori e giocatori devono
essere di comparabile qualità: nessuno darebbe il miglior allenatore esistente
ad una squadra di serie B; e nemmeno si farebbe il contrario, affidando la
squadra migliore ad un allenatore ancora inesperto o comunque modesto. Ed è
questo ciò che vediamo succedere nei paesi che hanno tante buone scuole e tante
buone Università.
Ma proprio perché
abbiamo prima sottolineato la necessità di una continua valutazione, sarà bene precisare
anche che gli obiettivi da conseguire devono essere quelli di favorire non una
generica definizione di merito, comunque distribuito, ma quella qui più volte
ribadita dell’interazione tra pari fatta di cooperazione cum competizione
di studenti, di studenti e docenti, e di docenti. I criteri con cui si procede alla
valutazione devono quindi essere scelti con cura. Altrimenti, anche in questo
caso si rischia di fare il contrario di quelle che sono le altrui best
practices.
Qualcosa del
genere è quanto abbiamo visto in Italia con il primo esperimento di valutazione
della ricerca scientifica svolta dalle università realizzato dal CIVR (Comitato di
indirizzo per la valutazione della ricerca). Era sembrato che ci fossimo ispirati al
modello inglese che ha ormai un’esperienza consolidata di vent’anni[6]. In realtà, il modo
con cui in Italia si è iniziato a valutare la ricerca presenta due differenze significative:
anzitutto, perché da noi si è misurato il flusso realizzato in un certo periodo e non lo
stock di ricerca accumulato a un dato momento. Inoltre, nel caso italiano
l’Università poteva presentare alla valutazione la ricerca migliore realizzata anche da un solo
ricercatore; mentre nel caso inglese si deve sempre valutare la ricerca svolta da
ciascuno. E’ dunque evidente che il diverso metodo di valutazione porta a risultati
nel tempo assai diversi[7]: nel
caso italiano, si tende a premiare la buona ricerca già svolta
mentre il sistema inglese privilegia il potenziale di buona ricerca futura. E ancora,
il sistema italiano accetta e consolida la situazione attuale caratterizzata
dalla “dispersione” dei migliori tra le tante università (l’università che ha già un ricercatore
di eccellenza internazionale non ha alcun stimolo ad averne altri). Al contrario, il metodo
inglese del RAE induce la concentrazione dei migliori in poche sedi.
Problemi ancora
diversi si hanno quando non si valuta l’attività di ricerca scientifica, ma
l’attività didattica. Anche qui abbiamo già una significativa esperienza di altri paesi, sia
per la scuola sia per l’Università. E qualche buona ricerca negli ultimi anni è stata fatta
su questo tema anche per l’Italia. Si possono ricordare studi alla Coleman sulla
ridotta capacità esplicativa della spesa per i docenti – o più precisamente del
rapporto docenti/studenti – sul miglioramento dell’apprendimento scolastico[8]. Cui si
aggiungono risultati di recenti analisi che dimostrano[9] invece l’importanza degli
investimenti in edifici e attrezzature (biblioteche, laboratori, etc). Peccato che le politiche
tuttora perseguite in Italia si siano caratterizzate per la prevalenza della
assunzione di docenti: abbiamo privilegiato la numerosità degli insegnanti pur
sapendo che era la cosa meno importante da fare ai fini del successo del processo
formativo!
5.
Come si fanno le riforme
Come si passa dal nostro attuale sistema a
qualità casuale a quello alternativo, e migliore, in cui
si applicano regole di tipo meritocratico? La questione non è banale e rientra in un
problema più generale di “teoria e pratica delle riforme”. Supponiamo di aver dimostrato
che rispetto alla situazione attuale vi sia un diverso equilibrio, molto migliore: come, e
in quanto tempo, si passa da un equilibrio all’altro?
Tre aspetti
meritano di essere sottolineati:
1) Per molte riforme,
vi sono all’inizio soprattutto i costi, mentre i benefici si manifestano in
seguito. In altre parole, inizialmente vi è una situazione di benefici netti
negativi. Occorre quindi molta lungimiranza condivisa per avviare processi di
riforma che promettono all’inizio molti scontenti.
2) Come è spesso
vero nel caso dei “giochi cooperativi”, è chiaro che in tanto qualcuno accetta
il nuovo equilibrio in quanto pensa che anche gli altri lo faranno. Cioè
dobbiamo condividere l’esito finale sapendo che conviene a ciascuno e che
quindi ciascuno farà la sua parte. Ma questa situazione deve essere “garantita”
da chi ha il potere (e quindi il dovere) di farlo.
3) Se non si
adotta un metodo di “big bang” (una volta preparato tutto, c’è una data precisa - una
sorta di D-Day - in cui il nuovo mondo entra in funzione); allora bisogna
gestire la transizione più o meno graduale dal vecchio al nuovo. Bisogna quindi
avere tutte le tappe ben specificate; essendo chiaro ciò che deve succedere in
ciascuna fase; e così via. Mentre in finanza prevale il modello “big bang”
o comunque le transizioni sono assai brevi (il changeover dalla lira
all’Euro durò il primo trimestre del 2002), nelle riforme sociali è di solito vero il contrario.
Il nuovo si applica ai nuovi, cioè ai flussi e non agli stock, e quindi il sistema
va a regime molto lentamente. Se volessimo davvero riformare la scuola italiana
– dalle elementari all’Università – il nuovo modello andrebbe a regime in
vent’anni!
6. Conclusioni
Scrivendo[10] del nostro mancato rispetto del dovere costituzionale (art. 34) di far sì che i “capaci e meritevoli” accedano ai “gradi più alti degli studi”, ponevo la domanda : perché nessuno dei nostri tanti partiti politici attribuisce rilievo a questo aspetto nel suo programma? Non credo che riusciremo mai a fare riforme meritocratiche della nostra scuola, se questa esigenza non è per niente avvertita dalla politica, e quindi anzitutto dai cittadini.
Se andiamo a
vedere i programmi elettorali della Casa della Libertà e dell’Unione,
alle elezioni del 9-10 aprile 2006, è evidente che il contrasto non avrebbe potuto
essere maggiore. La Casa della Libertà si limitava ad elencare la Riforma
della scuola tra “le 36 grandi riforme del Governo Berlusconi” e
pure inclusa nell’elenco era la Riforma della docenza universitaria.
Null’altro si proponeva per il futuro, se non per l’Università la “libera
trasformabilità delle università in Fondazioni, in modo da aprire le università
italiane ai contributi della società civile, al mercato, all’estero”. Molte più
pagine dedicava invece alla scuola ed all’università il programma elettorale
dell’Unione che in proposito titolava “conoscere è crescere” e “investire nella
scuola”. Più volte ribadito il concetto che era urgente abrogare la
legislazione del centro destra e “voltare pagina” rispetto alle politiche
attuate nei cinque anni precedenti, correggendone tutti gli errori. In una
decina di pagine, si proponeva di coinvolgere di più gli insegnanti nelle riforme
da fare; si sottolineava il rilievo dell’autonomia, ma ribadendo anche i forti doveri
dello Stato; si individuavano moltissimi problemi e altrettanti rimedi per
quasi ogni aspetto del nostro sistema educativo: dalla “lotta ad ogni forma di
precarietà, con l’immediata copertura di tutti i posti vacanti, immettendo in
ruolo coloro che già lavorano nella scuola” alla “promozione della qualità in
tutti gli atenei, tramite una valutazione continua ed efficace”.
Come si riesce a
rimettere ordine in una materia così importante, quando da una parte c’è chi
dice che tutti i problemi sono già stati risolti, e dall’altra parte c’è invece
chi dice che è tutto da rifare, anzi è da fare tutto e il suo contrario? E’ ovvio che il
primo dovere di chi crede che la questione sia di importanza decisiva per il
futuro del Paese è quello di tornare a “fare cultura” cioè spiegare al prossimo, vicino e
lontano, quali sono i veri termini del problema, le alternative soluzioni, gli
strumenti da adottare, e così via. Qualcosa che sta avvenendo[11] con editoriali sui
quotidiani; con conferenze; e ancora con lezioni autorevoli, come sta facendo il
Governatore della Banca d’Italia. Nei suoi ultimi due interventi[12], è
stato sostenuto con
grande chiarezza che:
1) La crescita
dipende dalla qualità del capitale umano.
2) Questo a sua volta
richiede scuole di qualità, sia per valorizzare le intelligenze più brillanti sia
per innalzare l’apprendimento di tutti i ragazzi.
3) Occorre dunque
una coraggiosa riforma del sistema d’istruzione, per sollecitare i giovani a
investire seriamente in capitale umano, essendo consentito loro di valutare e
selezionare la qualità dell’istruzione ricevuta.
4) I fondi
pubblici per una parte dovrebbero finanziare gli studenti meritevoli, il resto andrebbe
ripartito tra le università in funzione dei risultati conseguiti, misurati tramite
rigorosi processi di valutazione. Per realizzare
tutto ciò, è necessario risolvere molti problemi : organizzativi (il sistema formativo,
dalle elementari all’università, è la più grande struttura burocratica del
paese); politici (occorre un consenso condiviso mantenuto a lungo,
cioè tra più
successivi governi) e culturali: la meritocrazia non è l’incubo temuto
dai sociologi radicali[13] che si
illudono possano esistere altri modi più tranquilli e condivisi con cui
realizzare obiettivi di giustizia sociale. Soprattutto nell’odierna decadenza del
valore di quello che eravamo abituati a chiamare “bene comune”, una robusta
iniezione di pratiche meritocratiche sembra in Italia indispensabile.
[1]
Per un’eccezione all’imperante pressappochismo
con cui oggi si parla di scuola – senza neppure fare lo
sforzo di studiarne prima i problemi – vedi due opere recenti: M. Dei, La
scuola in Italia, Mulino, Bologna, 2007; e A. Scotto di Luzio, La scuola degli italiani,
Mulino, Bologna, 2007. Quest’ultimo volume ci spiega la storia della scuola italiana dal risorgimento a
oggi, e bene illustra il passato scontro tra cultura comunista e cultura cattolica. L’opera di Marcello Dei si
concentra invece sul tourbillon di riforme degli ultimi otto anni: è la scuola che più volte diversamente
promessa ancora non c’è.
[2]
Vedi G. Vaciago, L’Italia è un Paese per i
giovani?, “Il Sole 24 Ore”, 13 novembre 2005.
[3]
Vedi P. Ferratini,
La riforma della scuola e una battaglia politica permanente, “Il Mulino”,
5, 2007, pp. 844-855.
[4]
Ministero
dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Conferenza nazionale sugli
apprendimenti di base, Roma 9-10 febbraio 2005, p. 6.
[5] Vedi CESifo, Prospects
for Education Policy in Europe, in “Report on the European Economy 2006”, March
2006, pp. 89-100.
[6] Il cosiddetto RAE (Research
Assessment Exercise) è stato avviato nel 1986.
[7]
Vedi
G. De Fraja, Publish or perish: il meccanismo di valutazione della ricerca
del Regno Unito, Aprile 2007.
[8]
Vedi
G. Brunello - D. Checchi - S. Comi, Qualità della formazione scolastica,
scelte formative ed esiti
nel mercato del lavoro, in Banca d’Italia, L’efficienza
nei servizi pubblici, Roma 2003, pp. 229-308.
[9]
Vedi
D. Checchi, I vincoli del sistema scolastico e la formazione delle
competenze, “Il Mulino”, 1, 2007, pp. 80-90.
[10]
Vedi G. Vaciago, Ancora
sul merito, “Il Mulino”, 2, 2007, pp. 369-371.
[11] Vedi anche il mio La legalità
e il merito non sono alternativi, “Il Sole 24 Ore”, 10 maggio 2007.
[12]
Vedi
M. Draghi, Dalla ricerca all’innovazione per la crescita economica, 24
luglio 2007 e Consumo e crescita in Italia, 26 ottobre 2007.
[13]
Il
cui manifesto è ancora la divertente satira di Michael Young The Rise of the
Meritocracy, che sta per
compiere
i 50 anni, e resta un utile ammonimento contro i pericoli della meritocrazia
elevata ad ideologia.