Contrariamente alla vulgata prevalente sulla scuola, il punto debole degli insegnanti italiani non è la preparazione, mediamente più che dignitosa, né l’impegno profuso nel lavoro, ma una scarsa consapevolezza dei propri diritti e doveri in quanto professionisti, cioè quella che si chiama “autonomia professionale”, l’indispensabile libertà di decidere per il meglio in scienza e coscienza che ha come contrappeso la “responsabilità”. Quanti Collegi dei docenti conoscono e difendono fino in fondo le loro prerogative? Quanti insegnanti non subiscono senza reagire le più svariate intrusioni nella sfera delle loro autonome scelte? E, sul versante della responsabilità, quanti si ritengono vincolati al massimo di rigore e di imparzialità nel momento cruciale delle valutazioni finali e degli esami?
Ma tutto questo ha una spiegazione. Negli ultimi decenni ha prevalso infatti una cultura politico-sindacale che ha svilito sistematicamente l’immagine dei docenti. Additati negli anni ’70 come “vestali della classe media”, cioè come garanti della perpetuazione di una società classista (con l’aggravante di essere dei fannulloni privilegiati), gli insegnanti sono stati oggetto di una serie di interventi che, considerati nel loro insieme, rivelano purtroppo una notevole coerenza. Da un lato sia la bocciatura sia ogni tipo di provvedimento disciplinare sono stati squalificati ideologicamente e resi difficilmente praticabili; dall’altro si è provveduto a diffondere capillarmente una pedagogia e una didattica di Stato, ispirata da una potente “lobby”, che comprende le facoltà di scienze dell’educazione, i sindacati confederali e gli Istituti regionali per la ricerca didattica. Si è trattato di vere e proprie campagne di rieducazione, che hanno riversato sulla scuola una caterva di orientamenti e prescrizioni, invadendo non di rado la sfera dell’autonomia professionale. Va segnalata in particolare la convinzione, comune ai governi di ogni colore, di poter costringere gli insegnanti a lavorare seriamente imponendo loro minuziose programmazioni basate su decine di obbiettivi e sotto-obbiettivi e afflitte dall’astrusa terminologia del “didattichese”. Queste politiche hanno prodotto nei docenti una profonda demotivazione e non di rado forme di deresponsabilizzazione.
Particolarmente deleteri i “virus mentali” diffusi in questi decenni tra gli insegnanti a proposito della valutazione, concepita non come l’esercizio di una delicata e difficile responsabilità, ma come disponibilità di un potere largamente svincolato da regole e riscontri oggettivi e finalizzato ad emettere condanne (insegnante cattivo) o assoluzioni (insegnante buono). Quasi mai si pensa al danno che una promozione immeritata può procurare alla credibilità della scuola, oltre che allo stesso allievo, né all’ingiustizia che così facendo si commette nei confronti di chi si impegna seriamente. A lungo colpevolizzati da luoghi comuni come “la bocciatura è sempre un fallimento della scuola”, intimoriti da chi li accusa addirittura di fomentare il suicidio degli studenti (come Vittorino Andreoli nel recente Lettera a un insegnante), molti insegnanti troveranno per forza più comodo abdicare alle loro specifiche responsabilità e dare il classico “calcio nel sedere” a un allievo impreparato, a costo di fare letteralmente carte false. Su questo capitolo non secondario del “caso italiano”, come i radicali hanno definito la pratica dell’illegalità a tutti i livelli, sarebbe necessaria un’indagine sistematica. Ma chi lavora nella scuola ne ha comunque viste o sentite abbastanza per farsene un’idea: i 4 che diventano, per miracolo, dei 6; promozioni prive di ogni fondamento; docenti che fanno copiare agli esami o forniscono addirittura le prove in anticipo, forse credendo di fare il bene dei ragazzi...
C’è quindi, nella scuola italiana, una macroscopica “questione docente”. La possibilità di valorizzare la specificità e l’autonomia della professione è stata fortemente penalizzata dall’inquadramento della categoria in potenti sindacati-scuola, del tutto inadatti, per tradizioni culturali e scelte ideologiche, a rappresentarne gli interessi. Al contrario essi hanno fatto e fanno di tutto per omologare i docenti alle altre categorie del pubblico impiego, opponendo il proprio veto a qualsiasi tentativo di cambiamento.
Naturalmente ci vuole l’adeguamento delle retribuzioni alla media europea, ma questo non basta. Non è più rinviabile una serie di provvedimenti che trasformino la scuola in una comunità di veri e propri professionisti, caratterizzati cioè da più libertà e più responsabilità. Il problema va affrontato a tre diversi livelli: legislativo, professionale e contrattuale.
Il Parlamento dovrebbe aggiornare quanto prima lo stato giuridico dei docenti. In esso la libertà di insegnamento dovrà essere rafforzata da esplicite garanzie riguardanti anche le scelte metodologiche e didattiche, a scanso di intrusioni di Stato o di Istituto. Dovranno poi essere indicati i diritti e i doveri fondamentali degli insegnanti (tra cui quelli relativi allo svolgimento dei programmi e alla valutazione degli allievi). Sta diventando inoltre sempre più evidente la necessità di creare, a supporto della funzione docente, alcune figure qualificate che si occupino di aggiornamento, ricerca e documentazione, servizi alla didattica. Oltre che una necessità per le scuole, questo potrebbe offrire a una parte degli insegnanti la possibilità (e la soddisfazione) di valorizzare attitudini e competenze diverse dall’insegnamento vero e proprio.
Quanto alla valutazione degli insegnanti, in questi ultimi anni se ne è parlato molto, anche a causa dell’infelice “Concorsaccio” del ministro Berlinguer, che si avventurò sul terreno impraticabile delle distinzioni di merito (e di stipendio) a parità di lavoro. Tuttavia, anche se esiste una grande maggioranza di docenti che fanno con competenza e spesso con passione il loro lavoro, c’è anche, come in qualsiasi comunità, una minoranza non all’altezza della situazione. Si dovrà quindi arrivare a definire con chiarezza il demerito professionale: e cioè quali comportamenti costituiscano gravi inadempienze o inadeguatezze sulla base di standard minimi da rispettare; e insieme quali provvedimenti – tempestivi e proporzionati alla mancanza – esse comportino.
Diverse associazioni professionali, inoltre, propongono da tempo di creare un organismo elettivo di carattere tecnico-professionale, che sia interlocutore qualificato del governo e del legislatore sui provvedimenti riguardanti la scuola e inoltre rediga e aggiorni il codice etico a cui si dovranno attenere i professionisti della formazione.
A livello sindacale è infine necessaria la creazione anche per i docenti, in quanto dipendenti che svolgono qualificate attività professionali, di un’area contrattuale separata, che ne valorizzi la specificità, come è accaduto per altri professionisti dipendenti nell’ambito della Funzione pubblica, anche se i sindacati confederali e lo Snals si sono finora opposti con le unghie e con i denti.
Puntare a questi obbiettivi non sarà facile, dati i legami dell’Unione con i sindacati e con la cultura dominante nella scuola. Ma per la Rosa nel Pugno tutto questo può rappresentare una sfida appassionante e uno dei terreni privilegiati su cui continuare a costruire il proprio progetto politico[1].
(Pubblicato su "Notizie Radicali" il 7 luglio 2006)
[1] L’articolo fu scritto nel periodo immediatamente successivo alle elezioni politiche del 9 e 10 aprile 2006.