5 giugno 2012
Personalmente ero rigoroso con gli allievi, non ammettevo il lavoro di gruppo e dicevo il perché: nella vostra professione sarete da soli, sarete voi i responsabili, non avrete i compagni da cui attingere. Voi accettereste di essere operati in ospedale da un chirurgo impreparato? Ho sempre insistito sulla preparazione personale che non esclude poi il lavoro di gruppo o, meglio, la collaborazione nella ricerca. Durante i compiti di latino staccavo i banchi affinché ognuno lavorasse da solo, anche per l'italiano. Se c'era bisogno di aiuto, intervenivo parlando a voce alta per tutti. Come mi comportavo anche agli esami di maturità, fossi commissario o presidente. Il mio collega M.N. invece raccomandava l'onestà e poi lasciava assieme i ragazzi sui banchi vicini. Quando abbiamo organizzato qualche prova di latino assieme, in aula magna, con banchi distanziati, il collega ha trovato con sua sorpresa risultati difformi e deludenti, ma non ha cambiato idea, anche perché egli ha la verità in tasca (beato lui!) e gli altri sbagliano. Mi sono limitato ad osservare che anche don Bosco raccomandava di togliere ai ragazzi le tentazioni, visto che il N. è un ex allievo salesiano.
Agli esami di maturità mi è capitato spesso di dover controllare i
colleghi, più che gli allievi. Mentre per i ragazzi è comprensibile, è assurdo
e pietoso per gli insegnanti.
Al liceo classico *** di Napoli, insospettito delle soste prolungate ai
servizi, avevo scoperto la traduzione, ben fatta, nascosta nel “Giornale nuovo”,
infilato nel cestino dei rifiuti vicino al gabinetto dei ragazzi e poi
delle ragazze. E' arrivato il presidente, un preside amico dei politici, e mi
ha accusato di aver trasformato la commissione d'esame in un lager, e ha detto
che mi avrebbe denunciato al provveditorato. Gli ho mostrato la traduzione
dicendo: tu sei un latinista e puoi renderti conto che il testo è stato
tradotto non da un allievo, ma da uno del mestiere, forse dalla commissaria interna.
Poi gli ho messo sotto il naso la mia tessera di giornalista e gli ho detto: se
continui questa farsa, domani comunico il tutto all'Ansa e finiamo sulle prime
pagine dei giornali. Subito l'uomo ha cambiato tono e mi ha lusingato con
promesse.
Al mattino, prima di entrare alla scuola, andavo nella vicina piazza un ottimo caffé e
leggevo velocemente un quotidiano. E proprio lì incontrai un candidato il quale
mi confessò candidamente: Lei ha ragione - commissario - ma noi così siamo
stati abituati.
Tuttavia questa cose non capitano solo a Napoli. Ero presidente agli esami
di terza media a M*** [nel Veneto] e con un preside comunista fanatico che aveva in ufficio
il ritratto di Stalin vicino a quello del presidente della repubblica italiana:
c'era un gruppo di insegnanti della stessa risma che purtroppo condizionavano i
ragazzini e alcuni legulei che insegnavano (si fa per dire) lingue straniere.
Poiché avevo scombinato una prassi radicata praticando l'estrazione a sorte secondo
la legge e gli allievi si erano trovati un compito nuovo, non già fatto, i
professori legulei suggerivano tutto, non appena uscivo dall'aula. Ho lasciato
fare per non danneggiare gli allievi, ma il tutto è finito nella relazione
finale, anche il fatto che si condizionassero i ragazzini, finita sul tavolo
del ministro a Roma. Il provveditore agli studi mi ha telefonato
ringraziandomi e offrendomi una presidenza, che ovviamente rifiutai con garbo e
ringraziando.
Anche nella mia scuola un docente di matematica ha passato un foglio con la
soluzione del problema della maturità ai suoi allievi. Ne ho parlato col
preside, che giustificava l'insegnante. Ho commentato col preside: mi sembra
assai grave questo atto che vanifica cinque anni educativi della scuola. Perché
l'insegnante avrà agito in tal modo? perché temeva per la sua immagine, per
l'insegnamento carente e lacunoso, non certo per i giovani: essi hanno
imparato dal docente che la furbizia, l'imbroglio ti aiuta nella vita e nella
carriera. Anche perché hanno potuto copiare solo i suoi allievi, non gli altri!
Potrei continuare con varie esperienze agli esami di Stato, soprattutto da
presidente, quando puoi vedere meglio l'atteggiamento dei docenti. ma
sarebbe anche ripetitivo. La scuola è fatta dagli insegnanti, è valida se
l'insegnante è un bravo educatore, altrimenti. E gli insegnanti sono
parte della nostra società: c'è il galantuomo, l'onesto, il preparato, l'educatore,
ma c'è anche l'arrivista, il disonesto, l'impreparato, l'avventuriero, il
carrierista, ecc. E i governi della nostra Repubblica non hanno quasi mai dato alla scuola
l'importanza che merita, come avviene in altri paesi: insegnanti sottopagati e
talora umiliati, ministri spesso impreparati, salvo eccezioni, e per nulla
interessati al mondo della scuola, della conoscenza, dell'educazione dei futuri
cittadini. Quando torno alla mia scuola per salutare le brave segretarie,
la nuova preside piena d'entusiasmo, qualche collega, mi accorgo che farei
fatica ad abituarmi alle strane novità introdotte in modo spesso disordinato,
senza un piano organico e pedagogico. L'unica nostalgia è quella nei confronti
dei giovani, che sono ancora veri, spontanei, sinceri, se stessi.
7 giugno 2012
Rispondo subito alla domanda
sull'esame di maturità a Napoli. Non ricordo l'anno, ma mi sembra sia capitato
quando una suora ingenuotta aprì la busta d'italiano su invito di un
buontempone sedicente funzionario ministeriale e comunicò i temi che furono poi
pubblicati dai quotidiani. Fu sospesa la prova, subito rimpiazzata da una nuova
busta di riserva per il giorno successivo. Dopo il battibecco con il presidente partenopeo non successe nulla. Ero
l'unico nordico fra cotanto senno. Occorrono le prove per procedere: chi ha
tradotto e inserito i fogli nel “Giornale” depositato entro il cestino? Secondo
me la professoressa di latino della scuola, ma non avevo le prove e quindi sono
rimasto zitto per non rischiare una denuncia di calunnia. Chi ha copiato?
Nessuno ha visto: ho solo scoperto la traduzione nascosta, ma non ho visto
nessun candidato mentre copiava.
Tuttavia questa non era la sola anomalia. Il candidato che sosteneva
l'esame di arte aveva un successo sicuro: otto a tutti, in italiano invece
c'era una differenziazione notevole e soprattutto la prova era di maturità,
impegnativa sul piano delle conoscenze e della elaborazione razionale e della
logica. La commissaria di arte era venuta in sostituzione di quella nominata
dal ministero. Le chiedo dove insegni la storia dell'arte? Mi risponde
"insegno lettere alla scuola media, ma mi piace tanto l'arte!". I
suoi esami: prima domanda a scelta, ma soprattutto la commissaria non capiva la
risposta e diceva sempre di sì. Sono intervenuto qualche volta di fronte agli
svarioni colossali e il presidente mi ha richiamato privatamente. Gli ho detto
di avere l'abilitazione di arte, di essere stato assistente volontario di
archeologia all'Università e la collegialità della commissione mi autorizzava
ad intervenire. Ma quando tu intervieni, l'esame va male – ha osservato
l'astuto presidente – e quindi si crea un'ingiustizia. Avevamo idee diverse
sulla giustizia, ma ero in minoranza e quindi impotente. La seconda domanda
verteva sempre e solo sul Caravaggio, di cui c'era una mostra stupenda (l'ho
vista tre volte) a Capodimonte. E qualsiasi risposta, senza mai dialogo, andava
bene. Il sottoscritto, quando c'era il così detto colloquio di arte, chiudeva
le orecchie, si spostava o usciva a fumare una sigaretta.
Alla sera mi trovavo a passeggiare con il presidente dell'altra
commissione, un preside, un focoso romagnolo, che si lamentava della sua
commissione. Alla fine abbiamo confrontato i risultati: nella mia commissione
una sola eccellenza, un solo 60/100, nella sua almeno 8 o 9 60 e molti
voti alti, e si giustificava "mi hanno messo in minoranza". Ho
commentato: non ti credo più; conosco la legge e tu, come presidente, avevi i
mezzi per equilibrare i voti: bastava chiedere la votazione secondo la legge ed
ognuno esprimeva il voto in decimi e poi si sommava. Insomma nella mia
commissione, nonostante tutto, i risultati mi sono parsi più controllati.
Ma credo che l'esperienza più traumatica mi sia capitata a Catania: 92
candidati provenienti da diverse scuole private con le conseguenze
immaginabili. Allora ai commissari davano 36.000 lire al giorno e basta. Mi ero
trovato una stanza al monastero agostiniano: mi avevano ospitato perché ero
l'organista presso il monastero agostiniano vicino a casa mia. E fu una fortuna
poiché, nonostante le ricerche "mafiose", non erano riusciti a capire
dove fossi alloggiato. Anche lì ero l'unico nordico, capitato in quella
commissione solo perché era il primo anno di nomine per mezzo del computer e i
romani non sapevano ancora controllarlo. A Catania credevano che io fossi un
siculo che ritorna in patria: il mio cognome è comune anche in Sicilia. Ma
appena dissi qualche parola, ogni dubbio venne fugato: ero un nordico, un polentone
veneto. In quella sede le commissioni per gli istituti privati erano scelte ad
hoc e ogni anno tutti erano maturi con bei voti, anche i banchi. Quella volta
ci furono 14 non maturi e il sottoscritto, appena firmato i documenti e chiuso
il pacco, salì in auto con due colleghi vicentini e si fermò a mangiare solo
oltre lo stretto.
Sarebbe troppo lungo raccontare il tutto. Basta qualche cenno. Durante
gli scritti i gabinetti erano trasformati in biblioteche: libri celati ovunque.
Controllavo i commissari interni che suggerivano a tutto spiano e i vassoi di
paste che entravano; appena lo seppero, cessò l'entrata dei dolci, ottimi,
provenienti dalla vicina pasticceria.
Un commissario interno organizzò una colazione in un ristorante tipico.
Quando entrai mi era sembrato di riconoscere un candidato dietro al banco.
Quando andai a chiedere il conto, mi fu detto che era già a posto. Dissi che il
gruppo non si sarebbe mosso di lì se non dopo aver pagato il conto. Dopo varie
insistenze, visto che il nordico era tosto e cocciuto come un mulo, arrivò il
conto e la presidente mi ringraziò ma poi feci le mie rimostranze al collega
interno che finse di non saper nulla, ma fui sostenuto dalla preside. Era una
persona onesta, che tuttavia viveva in un contesto dal quale era difficile
essere indipendenti. Mi disse alla fine degli esami: " Lei l'ha scampata
bella, volevano eliminarla e avevano trovato falsi testimoni per dichiarare che
lei aveva picchiato una candidata durante gli scritti. Ho capito subito, sono
intervenuta e ho detto che tutta la commissione si sarebbe schierata con Lei."
Abbiamo avuto più visite dell'ispettore e del provveditore, il quale fece
un commento inopportuno sui nordici che vengono al sud per fare i giustizieri.
Gli dissi che ero un notaio che operava a nome dello Stato. Gli chiesi poi: ma
perché Lei viene spesso qui? Dovrebbe sapere che la commissione è autonoma, non
può discutere degli esami con estranei e Lei per noi lo è. Se viene per
salutare, benvenuto, Le offriamo il caffè, ma non chieda nulla sugli esami. Non
venne più.Prima dello scrutinio sparisce la presidente, Aspettiamo: dopo quasi un'ora telefono a casa sua e mi risponde, faccia lei, che è vicepresidente, gli scrutini. Non posso, e Lei lo sa meglio di me. Il vice non può sostituire in sede di scrutinio. Mi ha risposto quasi disperata: "Lei poi se ne torna al nord e dimenticherà la Sicilia, io qui devo vivere." Le ho risposto che io sono uno e la commissione è numerosa ed è facile mettermi in minoranza senza problemi. E' venuta in commissione, ma era spaventata poiché avevo previsto 20 bocciati, cioè tutti quelli che avevano tutte e quattro le prove negative. Poi abbiamo cercato nel curriculum qualche aspetto positivo e abbiamo salvato sei candidati, ma 14 avventurieri, che non avevano mai studiato, non sapevano le lingue, ma nemmeno le altre materie, sono stati fermati. Lì forse c'era la consuetudine di promuovere tutti, nonostante l'esame, bastava pagare la scuola privata.
E qui mi fermo per non tediare il collega professore, ma ne avrei da scrivere un libro, che tuttavia non credo interesserebbe neppure i docenti, che spesso amano il quieto vivere e non distinguono tra i bravi ragazzi destinati ad essere bravi cittadini e gli avventurieri, venditori di fumo, che nell'Italia del nostro tempo avrebbero più successo.