Pochi giorni fa, a Firenze, è scomparsa la professoressa Vera Salvanti, l’insegnante che bocciando i due studenti di Barbiana provocò in don Lorenzo Milani quella reazione “spirituale” che lo porterà a scrivere il suo notissimo pamphlet, Lettera a una professoressa.
Ho conosciuto molto bene Vera Salvanti per averla avuta come collega proprio in quell’Istituto magistrale in cui si svolsero gli esami dei due ragazzi di don Lorenzo. Lei era alla fine della sua attività, io quasi agli inizi, e nei confronti miei e di un altro collega, trasferito insieme a me in quella scuola, dimostrò fin dai primi giorni una immediata simpatia. Sicuramente aveva apprezzato una nostra iniziativa che aveva finalmente costretto il preside di allora a rinunciare a far officiare ad inizio d’anno la messa, come era tradizione di quella scuola pubblica, in orario scolastico e dentro i locali della scuola stessa.
Vera Salvanti era una delle pochissime insegnanti laiche di quell’istituto, e con la sua severa, a volte anche eccessiva, intransigenza caratteriale, nella sua attività di docente si riconosceva nelle altrettante severe istanze che sulla scuola erano state espresse nel secondo dopoguerra da Concetto Marchesi e dallo stesso Togliatti. Aveva peraltro dovuto subire per anni l’arroganza di quel preside, di qualche altro prete e della stragrande maggioranza dei suoi colleghi e sorbirsi la funzione religiosa annuale a discapito della perdita di qualche ora di lezione a cui Vera non rinunciava con facilità, neanche in caso di malattia.
D’altra parte la sua formazione era quella di una convinta comunista, figlia di un adoratissimo padre comunista; anche in questi ultimissimi anni assai travagliati per la storia di quel partito e di quella ideologia, la sua fede politica aveva sempre simpatizzato per i comunisti, incurante di quanto quella parte politica non si fosse neanche mai provata a capire le “sue” ragioni per come si era comportata in occasione dell’esame dei due ragazzi di don Milani.
A dire il vero, salvo Adriano Sofri che la intervistò per Panorama moltissimi anni fa, nessuno si è mai preoccupato di sentirle queste sue ragioni e capire così, per esempio, come la bocciatura incriminata era stata fatta propria da un intero consiglio di classe, almeno nella sua maggioranza, e che la decisione, per diretta ammissione post quem degli stessi ragazzi interessati, era ineccepibile. Insomma, la professoressa Salvanti e i suoi colleghi del consiglio di classe, avevano semplicemente rispettato e usato quelle regole e quella deontologia che le leggi dello Stato imponevano loro e che il parroco di Barbiana, secondo una consolidata tradizione cattolica, voleva venissero trasgredite perché la scuola, secondo il coltissimo don Lorenzo, doveva andare incontro ai poveri riconoscendosi, anche in maniera esclusiva, nella loro cultura.
Vera Salvanti pensava che avesse ragione Gramsci quando affermava che i poveri, invece, dovevano appropriarsi della cultura delle classi egemoni se volevano fare il primo decisivo passo per avvicinarsi al potere o per cambiare la loro condizione di sfruttati e di ultimi.
Per quanto riguarda ancora la sua attività di docente, c’è da dire che l’ha sempre vissuta in una maniera del tutto opposta rispetto a come la intendeva don Milani, e cioè che l’insegnante dovesse diventare una sorta di missionario rinunciando – il parroco di Barbiana lo diceva con totale convinzione – anche a sposarsi.
Vera Salvanti è stata la docente più tradizionale che abbia mai incontrato, ma si era separata prestissimo dal marito in anni in cui separarsi in Italia era quasi un atto eroico, non aveva figli e amava, come il vecchio professore della canzone di Guccini, i gatti.
È sempre stata sobria nel raccontare questa sua esperienza, della quale avrebbe fatto volentieri a meno. Rimpiangeva soltanto che don Milani non si fosse mai fatto vivo con lei né con la scuola ed era convinta di essersi trovata nella vicenda quasi per caso, perché qualunque altro docente non avrebbe potuto proporre, per i due studenti, altro che la bocciatura.
Mi disse che il parroco di Barbiana ai ricevimenti inviava talvolta degli emissari per informarsi sui suoi ragazzi, mandati a Firenze dal Mugello perché il mondo e la scuola riconoscessero la dignità dei poveri, in un mondo in cui, però, i poveri non volevano più, malgrado don Milani, (“Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò”[1]) essere poveri.
[1] Lettera di don Lorenzo Milani a un giovane comunista di San Donato
[Pubblicato su "Notizie Radicali" il 27 aprile 2007]