giovedì 26 settembre 2013

LA SCUOLA DI FRONTE A DIFFICOLTÀ E DISABILITÀ: PIÙ FLESSIBILITÀ E MENO STEREOTIPI ANNI '70

Il professor Michele Zappella, neuropsichiatra dell’età evolutiva, è noto per avere studiato a lungo l’autismo nelle sue varie forme. Fin dagli anni sessanta si è occupato dell’integrazione sociale e scolastica dei disabili, l’argomento che torna in questo intervento sul nostro blog, insieme a quello del bisogni educativi speciali. 

Il tema del bell’articolo di Giorgio Ragazzini sui BES del 6 settembre scorso e sull’effetto negativo che le nuove norme probabilmente avranno in prospettiva su tutta la scuola, riducendo all’individuo ogni problema e dando a questo una soluzione strettamente personale, si inserisce in una lunga storia che val la pena di ripercorrere e che risale ai primi anni settanta quando ha inizio il processo dell’integrazione scolastica in Italia. A questo riguardo va ricordato che una grande motivazione per chiudere le scuole speciali e differenziali fu determinata dal rendersi conto che al loro interno c’era un gran numero di figli di emigrati italiani interni (dal Sud al Nord) ed esterni (verso altri Paesi d’Europa), messi da parte perché parlavano in dialetto ed erano culturalmente deprivati. Metterli in classi particolari aveva il significato di dare a dei bambini normali un percorso educativo di serie B: ed è bene ricordare che c’erano scuole speciali dove ogni classe (la prima, la seconda, ecc.) veniva sistematicamente ripetuta per due anni! La conseguenza era una prospettiva di lavoro sottoqualificato, che inchiodava il bambino ad un futuro di marginalità. Questo fu il principale argomento che persuase dapprima i partiti di sinistra e poi tutti i movimenti politici a proporre l’abolizione dei percorsi differenziali a scuola e a integrare tutti i bambini, compresi quelli disabili (vedi De Luca G, Zappella M., L’alba dell’integrazione scolastica, a cura di M. De Luca, Roma, Carocci, 2013).
In quel contesto ci furono due diversi indirizzi. Da un lato c’erano scuole che cercavano di adeguarsi per l’accoglienza di bambini con disabilità: ricordo bene, per esempio, una scuola elementare a Monte San Savino, vicino ad Arezzo, che nel 1971-72 eliminò gli spazi di una classe speciale che aveva avuto al suo interno, articolando la didattica  in occasioni comuni come musica, teatro e mimica e mantenendo in altre ore i bambini con disabilità più gravi in ambienti meglio organizzati per loro. Dall’altro, invece, i bambini venivano messi in classe con gli altri, indipendentemente dal grado e tipo di disabilità: lo slogan più comune era “devono fare come gli altri”, per cui i diversi vanno trattati come i normali; una parola d’ordine che dopo tanti anni non è scomparsa. Anzi è diventata una indicazione politicamente corretta.
La prima svolta istituzionale a questo riguardo è nella legge che nel 1977 istituisce l’insegnante di sostegno e sposa in pieno il secondo tipo di soluzione,  assegnando il sostegno per tempi variabili a seconda della gravità della disabilità e dando al problema una soluzione individuale o, si usa dire oggi, ‘personalizzata’. Da allora, con poche eccezioni, avremo scuole in cui, nella maggior parte dei casi, c’è una stanzetta dedicata ai bambini più gravi e per il resto tutti i bambini, qualunque sia la loro difficoltà, sono in classe con gli altri. Non importa che siano iperacusici e che siano molto disturbati dalla confusione come dal suono della campanella, come spesso succede con i bambini autistici, che siano vittime del bullismo o che siano con abilità cognitive lontanissime da quelle degli altri: devono stare nella classe, quasi fosse un rigido plotone: "per non sentirsi esclusi" .  
La direttiva del Ministero sui BES del 5.3.13 va oltre le disabilità e si occupa anche dei  ragazzi stranieri che non conoscono la nostra lingua. Per loro, il buon senso e il confronto con altri Paesi europei avrebbero dovuto far pensare alla priorità assoluta dell’apprendimento della lingua italiana e quindi a questo scopo a studenti stranieri organizzati in maniera omogenea, eventualmente sulla base della loro lingua madre. Ci si aspetterebbero anche riscontri scientifici sui percorsi di maggiore validità educativa, visto che il problema esiste da molti anni. Invece per loro si scrive che “è possibile attivare percorsi individualizzati” e successivamente frasi stupefacenti come quella per cui “le 2 ore di insegnamento della seconda lingua nella scuola secondaria di primo grado possono essere utilizzate anche per potenziare l’uso della lingua italiana”(sic!). Come se non conoscere la lingua parlata in classe fosse piccola cosa che si può risolvere utilizzando le ore della seconda lingua o con percorsi individualizzati che non vengono definiti. Nei fatti ci si può immaginare che per molte ore i ragazzi stranieri siano costretti a stare in classe anche se non capiscono nulla di quello che si dice. Se questo fosse vero anche in piccola parte, questo tipo di ‘personalizzazione’ riuscirebbe paradossalmente ad avere per i figli degli immigrati precisamente quello che le scuole differenziali ottenevano per i figli dei nostri emigrati prima di quarant’anni fa: li porterebbe in un percorso educativo deprivato. Come allora i figli degli immigrati italiani, bambini normali il cui limite era nel dialetto e nella deprivazione culturale familiare, lasciati in classi differenziali erano condannati a un percorso lavorativo di quart’ordine, lo stesso verrebbe prospettato per i figli degli immigrati stranieri. La vera esclusione difatti non è nello spazio, ma nel tipo di percorso educativo: in questo caso del tutto inadeguato al punto di non capire nulla di quanto si dice o scrive in classe e gravemente impoverito rispetto alle possibilità di questi ragazzi che sono normali e hanno diritto a conoscere innanzitutto la lingua e la cultura del Paese dove vanno, per poter avviare un percorso educativo valido come gli altri. 
Qualche commento aggiuntivo merita il GLI (Gruppo di lavoro per l’Inclusione) che verrebbe ad avere nella scuola un ruolo predominante su vari aspetti dell’inclusione. Non è una novità: in Toscana abbiamo già avuto negli anni ottanta nelle USL il GOIF (Gruppo Operativo Istituzionale Funzionale), un gruppo numeroso e composto da diverse professionalità che si riuniva mensilmente. Lì i vari casi di disabilità venivano passati in rassegna da persone che in grande maggioranza non li conoscevano, spesso con proposte del tutto inadeguate, danneggiando così l’alunno in questione, in quanto nel rapporto tra insegnanti di classe e specialisti si inseriva come un corpo estraneo questo sciagurato raggruppamento. Il GLI appare come un simile collettivo giudicante, del tutto inadatto a gestire sia il singolo alunno in difficoltà che grandi fenomeni come, per esempio, il bullismo, che riguarda sia alunni normali (in particolare quelli più  bravi) sia quelli con disabilità, come i ragazzi con ADHD (iperattivi) e i soggetti autistici di discreta intelligenza. Ebbene, se si guarda la letteratura internazionale, le strategie più efficaci per contrastare questo fenomeno, presuppongono il coinvolgimento dell’intera scuola, comprendendo tutti i docenti, gli studenti e i rappresentanti dei genitori, per strutturarsi poi, con precise strategie e sanzioni, nelle singole classi (Olweus Dan, Promoting Education, 1, 27-31, 1994; Vreeman R.C. et al, “Archives Pediatric and Adolescent Medicine” 161, 78-88, 2007).
In questo modo nei Paesi scandinavi il bullismo è potuto scendere a valori sul 6%.  Non è dunque strano che l’Italia, che da decenni si trastulla tra prospettive ‘personalizzate’ e collettivi giudicanti del genere sopra indicato, abbia insieme alla Lituania il primato del bullismo tra i Paesi occidentali, con percentuali attorno al 40% (Due P. et al, “European Journal of Public Health” 15, 128-32, 2005).
Questo perché, ripeto, vi sono problemi, come quello appena citato, che vanno affrontati dall’intera comunità scolastica e poi suddivisi in tempi e modi successivi più specifici. Altre questioni relative, per esempio, a luoghi ben attrezzati di tempo libero di cui vari alunni con disabilità hanno, periodicamente, bisogno vanno anch’esse valutate a livello di comunità scolastica: se, invece, questi e altri bisogni sono ignorati, l’alternativa è passeggiare nel corridoio. Lo stesso discorso può essere fatto per intolleranze sensoriali e anche per particolari  esigenze didattiche.
Non affrontare questi problemi vuol dire avere una scuola rigida, incapace di modularsi e adattarsi rispetto a difficoltà e devianze. Legata a stereotipi della parte più rozza di un periodo antistituzionale ormai lontano nel tempo. Troppo spesso la scuola propone solo la classe come luogo elettivo di socialità e in questo modo rischia di non garantire la crescita intellettuale, emotiva e sociale di chi è diverso per lingua madre o per difficoltà e disabilità di qualunque genere.  
Michele Zappella 

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venerdì 13 settembre 2013

UN MINISTRO INCITA GLI STUDENTI ALLA RIBELLIONE

“Siate ribelli. Ricordate le parole di Kant, uscite dall’adolescenza e rifiutate le imposizioni, ribellatevi ai genitori, ai prof e alla scuola”. Che un adulto senta nel 2013 il bisogno di rivolgersi ai giovani in questi termini sessantottardi significa senza dubbio che non è consapevole di quello che serve a un adolescente per crescere. Ma è ancora più grave che parole di questo genere le dica il Ministro della Pubblica Istruzione all’inizio dell’anno scolastico. Così facendo acquista forse un’effimera popolarità, ma abdica al suo dovere di ricordare agli adolescenti la vera strada per costruire il proprio futuro. Evidentemente la Ministra non ha letto e meditato lo splendido discorso che Barack Obama rivolse agli studenti americani nel 2009, proprio all’apertura dell’anno scolastico, nel quale tra l’altro ebbe a dire: “Alla fine noi possiamo avere gli insegnanti più appassionati, i genitori più attenti e le scuole migliori del mondo: nulla basta se voi non tenete fede alle vostre responsabilità. Andando in queste scuole ogni giorno, prestando attenzione a questi maestri, dando ascolto ai genitori, ai nonni e agli altri adulti, lavorando sodo, condizione necessaria per riuscire. […] Non vi piacerà tutto quello che studiate. Non farete amicizia con tutti i professori. Non tutti i compiti vi sembreranno così fondamentali. E non avrete necessariamente successo al primo tentativo. È giusto così”. Altro che auspicare ribellioni contro non si sa cosa. D’altronde le ribellioni generazionali non devono essere né auspicate né concesse graziosamente dagli adulti, come fanno, spesso pelosamente, i coccolatori di chi occupa le scuole. Se si ritengono necessarie si fanno e basta, prendendosi tutti i rischi e accettando le eventuali conseguenze negative. Come hanno sempre fatto tutti i veri ribelli. (GR)

venerdì 6 settembre 2013

PERCHÉ LA NORMATIVA SUI B.E.S. AGGRAVERÀ LA CRISI DELLA SCUOLA

Con la direttiva del 27 dicembre 2012 sugli alunni con Bisogni Educativi Speciali e la circolare applicativa del 6 marzo 2013 fa un decisivo passo avanti l’idea che la scuola non deve più essere l’istituzione che assicura la trasmissione del patrimonio culturale della nazione e in quanto tale trascende, pur includendole, le esigenze dei singoli, ma piuttosto un servizio in grado di modellarsi sulle caratteristiche e le richieste di ciascuno. La frase chiave della direttiva è infatti la seguente: “Ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta”. È evidente che in base a una simile affermazione qualsiasi tipo di difficoltà potrà costituire un Bisogno Educativo Speciale. Questa normativa costituisce dunque la sintesi e il punto di arrivo di una serie di tendenze convergenti manifestatesi negli ultimi decenni:  l’abbandono, a favore di mere indicazioni, dei programmi nazionali, cioè di un canone culturale essenziale, che tenda a formare gli individui nel quadro di un’identità comune; l’idea di trasformare gli insegnanti in facilitatori dell’autoapprendimento; la progressiva eliminazione degli esami; la graduale evaporazione di ogni standard, sia pure elastico, nella valutazione dei risultati, dunque di traguardi minimi comuni a tutti, condizione essenziale di equità nonché di credibilità dei diplomi rilasciati; e infine – last but not least – l’idea onnipotente che l’organizzazione, la metodologia e la tecnologia possano da sole creare le condizioni per l’apprendimento, cioè che il “successo formativo” dipenda integralmente da quanto fanno a questo scopo gli insegnanti; quasi che non fosse, come invece è, l’esito non scontato del rapporto tra due soggetti, il maestro e l’allievo, ma il risultato meccanico di una serie unilaterale di azioni. Manca infatti anche in questi testi il più piccolo accenno alla responsabilità del discente, che la scuola non può certo smettere di sollecitare, soprattutto come impegno costante e comportamenti appropriati. Lo scrive bene Adolfo Scotto di Luzio nel suo ultimo libro, sottolineando che quasi nessuno parla più della “volontà” di imparare nella riflessione pedagogica e nelle direttive ministeriali: 
“Per fare bisogna innanzitutto avere la voglia di fare e la volontà richiede determinazione, una capacità di sopportare la fatica e la sua applicazione continuativa, qualità morali di diligenza, di sforzi sostenuti e di concentrazione, di accuratezza. Qualità che la scuola ha il diritto di esigere, ma che difficilmente può produrre soprattutto trattando con adolescenti. Accanto a esse un senso personale della disciplina e il riconoscimento dell’autorità dell’insegnante, in grado di imporre dei compiti, di esigerne l’esecuzione e sanzionare efficacemente le inadempienze. Un sentimento infine della responsabilità individuale dei propri successi e dei propri fallimenti, concepiti come propri e non come l’applicazione più o meno efficace della professionalità del docente” (La scuola che vorrei, p.106). Si deve aggiungere che queste caratteristiche personali rinviano necessariamente a un’educazione familiare capace di “consegnare” alla scuola figli già in grado di rispettare le regole minime della convivenza, mentre la scuola, per parte sua, ha il dovere di offrire alle nuove generazioni ambienti educativi non solo accoglienti, ma abbastanza esigenti da sostenerli nel faticoso quanto indispensabile confronto con la realtà, base della loro crescita umana e culturale.
In questo quadro, pazienza se fossimo davanti soltanto all’ennesima sollecitazione ministeriale a dare risposte adeguate alle difficoltà degli allievi. Purtroppo non è così. Qui si tratta del tentativo di mettere in piedi una macchina organizzativa e un insieme di procedure che rischiano di stritolare l’autonomia professionale dei docenti, oltre a caricarli di pesanti compiti e oneri burocratici, accrescendone il disorientamento e la frustrazione.
E infatti, come dovrebbe funzionare la nuova “scuola dell’inclusione”? Dalla tormentosa lettura dei documenti ministeriali si capiscono abbastanza chiaramente due cose: la prima è che gran parte del lavoro aggiuntivo ricadrà appunto sulle spalle degli insegnanti, trasformati, ovviamente senza una seria preparazione, in diagnosti e valutatori dei propri allievi in funzione di trattamenti differenziati; la seconda è che viene istituito un groviglio di competenze e di procedure a carico di commissioni, gruppi di lavoro, centri di sostegno e di coordinamento, che non si sa come potranno integrarsi e di cui nel migliore dei casi esistono solo degli abbozzi: i Centri Territoriali di Supporto (CTS) e i Centri Territoriali per l’Inclusione (CTI), in collaborazione con i Gruppi di Lavoro Interistituzionale Regionale per l'integrazione scolastica degli alunni con disabilità (GLIR) e con i GLIP (provinciali). Sarà necessaria “la creazione di una rete diffusa e ben strutturata tra tutte le scuole”. Si dovrà far riferimento, per i docenti specializzati, “soprattutto a risorse interne”, cioè ai pochi insegnanti già specializzati e ai molti aggiornati alla meno peggio. E via coordinando, supportando e mettendo in rete. 
A livello di ogni singola scuola, il GLHI (Gruppo di lavoro per l’Handicap d’Istituto) diventa GLI (Gruppo di Lavoro per l’Inclusione) e i suoi compiti “si estendono alle problematiche relative a tutti i BES”. In base ad analisi e rilevamenti, dovrà sottoporre al Collegio un Piano Annuale per l’Inclusività. Ma non si capisce come possa essere operativo un organismo pletorico composto da funzioni strumentali, insegnanti per il sostegno, Assistenti Educatori Culturali, assistenti alla comunicazione, docenti ‘disciplinari’ con esperienza e/o formazione specifica o con compiti di coordinamento delle classi, genitori [sic] ed esperti istituzionali o esterni in regime di convenzionamento con la scuola”.
All’interno dell’ingranaggio di prescrizioni, obblighi, verbali, rendicontazioni previsto dalla normativa, che fine fa la libertà dell’insegnante di decidere in scienza e coscienza che cosa è meglio per quel certo allievo? Potrà ancora metterlo di fronte alle sue responsabilità, sollecitarne la presa di coscienza, attenderne la maturazione, semplicemente parlarci, insomma fare quello che la sua sensibilità educativa gli suggerirà sul momento, oppure sarà indotto a verbalizzare senza crederci un qualsiasi pseudo-programmino che lo metta (forse) al riparo da eventuali ricorsi? E i genitori-sindacalisti non disporranno con questa normativa di un accresciuto potere di ricatto e di veto sulle decisioni dei docenti?
Il minimo che gli insegnanti e i collegi docenti dovrebbero esigere, quindi, è una ridefinizione molto più restrittiva del concetto di bisogno educativo speciale,  in modo da limitare quanto meno i danni. Ma non c’è dubbio che sia necessaria un’alternativa complessiva a questa imbracatura burocratica della didattica, che esprime una sostanziale sfiducia nell’autonoma capacità dei docenti di individuare e affrontare le normali difficoltà dei propri allievi. È un’alternativa fondata su due pilastri: pieno riconoscimento dell’autonomia professionale dei docenti su quando e come intervenire; e qualificati servizi di supporto e di consulenza a loro disposizione. Una chiara distinzione dei ruoli è assolutamente necessaria. Anche un insegnante ben preparato non avrà mai le competenze di uno specialista che ha studiato per anni la sua disciplina, né le acquisirà con un’infarinatura sulla dislessia o sul deficit dell’attenzione. Nella scuola ci si comporta invece come se in un ospedale, in mancanza di un anestesista, si rimediasse facendo fare a un chirurgo un corso di tre mesi per poter svolgere anche questo ruolo. Invece, un po’ come succede nella scuola finlandese, gli insegnanti dovrebbero poter contare su consulenti (ben preparati) in grado di fornire il necessario supporto su problemi di singoli allievi o di una classe: logopedisti, psicologi, neuropsichiatri, assistenti sociali. E questo con il minimo necessario di formalità, preoccupandosi cioè soprattutto dell’efficacia e della tempestività degli interventi, invece di sprecare energie nella produzione di piani, documenti di intenti e complicate progettazioni da parte di gruppi e sottocommissioni. In altre parole, si sostituirebbe a un’impostazione, che per più motivi grava pesantemente sui docenti, un’altra in cui – con ben altra efficacia – questi ultimi vengono invece alleggeriti da un eccesso di compiti e di responsabilità. Peraltro il contributo di queste figure di esperti non deve riguardare necessariamente la didattica, anche perché in molti casi le difficoltà di apprendimento di un ragazzo dipendono da fattori esterni alla scuola (personali, familiari, ecc.). Quindi per superarle è necessario l’intervento, ad esempio, di uno psicoterapeuta o di un assistente sociale. Purtroppo solo poche scuole hanno già la fortuna di sperimentare un modello simile, con cui certamente si ottengono risultati positivi senza imporre ai docenti altri gravami. Beninteso, la titolarità delle decisioni deve restare saldamente nelle mani dei docenti, deve cioè trattarsi di una collaborazione senza invasioni di campo tra ruoli diversi, basata su competenza, buon senso e rispetto reciproco.
Ammesso e non concesso che questo modello, certo da realizzare gradualmente, sia più costoso, non è comunque sensato intraprendere per questo una strada sbagliata, che non solo rischia di produrre avvilimento negli insegnanti, ma non è in grado di dare risposte ai problemi che questa normativa vorrebbe risolvere. (Giorgio Ragazzini)

domenica 1 settembre 2013

SEVERGNINI FA IL DON MILANI: E LA COLPA È ANCORA DELLA PROF

Beppe Severgnini ha riletto Lettera a una professoressa  e ha deciso che è valida oggi come ieri, quando veniva sventolata dai sessantottini (“che ci volete fare, ogni tanto anche loro ne imbroccavano una”). Così ha deciso di utilizzare “La Lettura”,  il supplemento domenicale del “Corriere della Sera”, per inviare un’altra lettera – anzi un’ email – alla famigerata professoressa.
Pur avendo già parlato tante volte di don Milani (appassionamento giovanile di tanti, noi compresi, successivamente rischiarato in molti, noi compresi, dall’esperienza scolastica ), vale la pena di commentare almeno le affermazioni salienti, seguendo il metodo adottato da Severgnini di far seguire una riflessione a una citazione milaniana. 
"La selezione è prerogativa dell’università. Alle elementari e alle medie — inferiori e superiori — bisogna scavare dentro i ragazzi e scovare le loro inclinazioni, correggendo le loro debolezze."
Per rispondere a questa tesi basta citare la Lettera originale, che definiva “selezione doverosa” quella delle superiori: “Il problema qui si presenta tutto diverso da quello della scuola dell’obbligo. Là ognuno ha un diritto profondo a essere fatto uguale. Qui invece si tratta solo di abilitazioni. Si costruiscono cittadini specializzati al servizio degli altri. Si vogliono sicuri. Per esempio per le patenti siate severi. Non vogliamo essere falciati per le strade. Lo stesso per il farmacista, per il medico, per l’ingegnere.[1]” Forse Severgnini aveva in mente solo i laureati, senza pensare che le scuole superiori rilasciano anche diplomi validi per lavorare nell’industria, nell’artigianato, nell’agricoltura e nei servizi. E comunque anche per le professioni che richiedono la laurea non possiamo utilizzare cinque anni di superiori come puro e semplice orientamento, dato che già ora si iscrivono alle facoltà universitarie ragazzi che non sanno scrivere bene, né argomentare e per di più scarseggiano di cultura generale. 
"Il fallimento di una classe è il fallimento di un insegnante: non ci sono eccezioni a questa regola."
Questo notorio luogo comune sulla scuola, che esime gli studenti da ogni responsabilità,  è la sintesi di una deriva culturale , che, nella riflessione della burocrazia ministeriale e dei pedagogisti che la supportano, ha visto “la scomparsa di un tema che al contrario dovrebbe essere centrale in ogni riflessione educativa, la volontà.”[2]  Per fortuna lo stesso Severgnini smentisce se stesso verso la fine dell’articolo :  
"Certo: ai ragazzi bisogna spiegare che neppure il miglior insegnante può far molto, se trova continue chiusure. Dicono i cinesi: il maestro arriva quando il discepolo è pronto."
Si passa poi ai dati sull’insuccesso scolastico: 
"La scuola superiore italiana, nel 2012, ha perso il 18 per cento degli iscritti: quasi uno su cinque, una percentuale drammatica. […] Ma la severità, talvolta al limite del sadismo, non è una via d’uscita."
Qui viene da chiedersi se per caso l’autore dell’email abbia fatto un viaggio a ritroso nel tempo, magari dalle parti di Dickens. È probabile che su oltre seicentomila docenti ce ne sia più di uno che corrisponde all’identikit; ma la scuola italiana nel suo complesso è notoriamente afflitta da patologie di segno opposto. Soprattutto in tema di rispetto delle regole e di sanzioni educative, ma spesso anche quando si tratta di trarre delle conclusioni in base a risultati scolastici desolanti. E “le famiglie, spesso, non aiutano” non solo spingendo i figli “verso studi inadeguati”, ma anche pretendendo di sostituirsi all’insegnante nella valutazione, magari con l’aiuto di qualche giudice. 
"Si deve trovare il modo di utilizzare le scuole al pomeriggio. Lasciarle vuote è uno spreco. Caricare i ragazzi di compiti a casa — com’è ormai la norma, soprattutto nei licei — è un’alternativa crudele. Non volete chiamarlo doposcuola o tempo pieno? Scegliamo un altro nome."
È il mantra del Pd e di chi pensa che aumentando l’”esposizione” alla scuola si migliorino senz'altro gli apprendimenti. C’è stato e c’è tutto un lavorio in corso per costringere quei pelandroni dei docenti italiani a lavorare di più trattenendosi anche il pomeriggio, senza tenere in alcun conto gli studi sullo stress professionale con le patologie che ne derivano. E senza curarsi dell’assoluta mancanza di spazi adeguati, come quelli esistenti in molti paesi europei. La cosa migliore sarebbe aiutare gli studenti più grandi – se ne avessero voglia – a creare associazioni studentesche nelle proprie scuole, che progettino e gestiscano in proprio attività culturali e ricreative, esercitando così responsabilità e capacità organizzative. 
"Tutto s’impara: dove non arriva il talento, arriva la tenacia. Sa che, in prima superiore, ho preso qualche insufficienza in italiano scritto? Usavo vocaboli incomprensibili, una sintassi barocca, concetti astrusi. Devo ringraziare due sue colleghe — Paola Cazzaniga Milani al ginnasio, Giuseppina Torriani al liceo — se ho cambiato registro. 
A proposito: oggi come me la sono cavata?"
La parola alla professoressa: “Maluccio, caro Severgnini. Sei un ragazzo vivace e in genere di buon senso. Oggi però sei stato un po’ presuntuoso. Prima di dare giudizi dovresti conoscere meglio la materia. Sono certa che da ora in avanti ti sforzerai di farlo.”  (Giorgio Ragazzini)
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[1] Lettera a una professoressa, p. 111. 
2] Adolfo Scotto di Luzio, La scuola che vorrei, p.106.